Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 06 agosto 2004, n.15241

In tema di separazione personale tra coniugi, il mutamento di fede
religiosa – e la conseguente partecipazione alle pratiche collettive
del nuovo culto -, connettendosi all’esercizio dei diritti garantiti
dall’art.19 della Costituzione, non puo’, di per se’ solo,
considerarsi come ragione di addebito della separazione, a meno che
non vengano superati i limiti di compatibilita’ con i concorrenti
doveri di coniuge e di genitore fissati dagli artt.143, 147 c.c.,
determinandosi, per l’effetto, una situazione di improseguibilita’
della convivenza o di grave pregiudizio della prole. Nel caso di
specie, la scelta di appartenenza ad una confessione religiosa tale da
determinare l’allontanamento dalla casa coniugale e la rinuncia alla
convivenza non puo’ rientrare nell’ambito dell’esercizio di un diritto
costituzionalmente garantito onde escludere l’addebitabilita’ della
separazione.

Sentenza 12 luglio 2002, n.10143

La delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della
nullità del matrimonio concordatario – per esclusione da parte di uno
soltanto dei coniugi di uno dei bona matrimonii – trova ostacolo
nell’ordine pubblico, nel caso in cui detta esclusione sia rimasta
nella sfera psichica del suo autore, in quanto non manifestata, nè
comunque conosciuta o conoscibile dall’altro coniuge in forza
dell’inderogabile principio della tutela della buona fede e
dell’affidamento incolpevole. Non acquista, invece, rilievo, ai fini
della delibazione, la circostanza che i coniugi abbiano convissuto
successivamente alla celebrazione del matrimonio – circostanza che, a
norma dell’art. 123, comma 2, c.c., rende improponibile l’azione di
impugnazione del matrimonio per simulazione – in quanto la citata
disposizione codicistica non si configura come espressione di principi
e regole fondamentali con i quali la Costituzione e le leggi dello
Stato delineano l’istituto del matrimonio.

Sentenza 20 novembre 2003, n.17595

L’entrata in vigore della nuova disciplina di diritto internazionale
privato, di cui alla Legge n. 218 del 1995, non ha comportato
l’abrogazione del sistema – previsto dall’art. 8 dell’Accordo fra
l’Italia e la Santa Sede del 1984 – per la dichiarazione di efficacia
nella Repubblica italiana delle sentenze di nullità del matrimonio
pronunciate dai Tribunali ecclesiastici. Da ciò discende che, sebbene
l’art. 67, comma 1, della Legge n. 218 del 1995 conceda a chiunque vi
abbia interesse la legittimazione a richiedere l’accertamento dei
requisiti per il riconoscimento della sentenza straniera, la
possibilità di chiedere la delibazione della sentenza ecclesiastica
deve essere esclusa per gli eredi del coniuge, ai sensi del citato
art. 8, il quale riconosce tale legittimazione solo alle parti o ad
una di esse. Al riguardo, peraltro, non appare ravvisabile alcuna
violazione dell’art. 3 della Costituzione, posta la specialità della
materia del matrimonio concordatario (nella quale vengono
pattiziamente regolate le condizioni di efficacia del matrimonio e
della pronuncia di nullità) e considerato che il principio della
parità di trattamento cede di fronte al principio fondamentale di
regolamentazione e modificazione pattizia sancito dall’art. 7, comma
2, della Costituzione.

Sentenza 15 marzo 2002, n.3793

Nell’ipotesi di nascita per fecondazione naturale, la paternità è
attribuita come conseguenza giuridica del concepimento, sicchè è
esclusivamente decisivo l’elemento biologico e, non occorrendo anche
una cosciente volontà di procreare, nessuna rilevanza può
attribuirsi al «disvolere» del presunto padre, una diversa
interpretazione ponendosi in contrasto con l’art. 30 della
Costituzione, fondato sul principio della responsabilità che
necessariamente accompagna ogni comportamento potenzialmente
procreativo. In relazione all’art. 269 c.c., che attribuisce la
paternità naturale in base al mero dato biologico, senza alcun
riguardo alla volontà contraria alla procreazione del presunto padre,
è manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3 cost., in ragione
della disparità di trattamento che ne risulterebbe in danno
dell’uomo rispetto alla donna, alla quale la legge 22 maggio 1978 n.
194 attribuisce la responsabilità esclusiva di interrompere la
gravidanza ove ne ricorrano le condizioni giustificative, e ciò in
quanto le situazioni poste a confronto non sono comparabili,
l’interesse della donna all’interruzione della gravidanza non
potendo essere assimilato all’interesse di chi, rispetto alla
avvenuta nascita del figlio fuori del matrimonio, pretenda di
sottrarsi, negando la propria volontà diretta alla procreazione, alla
responsabilità di genitore, in contrasto con la tutela che la
costituzione, all’art. 30, riconosce alla filiazione naturale.
L’interesse del figlio nato fuori del matrimonio all’accertamento
della paternità naturale non è escluso dall’assenza di
«affectio» da parte del presunto padre nè dalla dichiarazione di
costui convenuto con l’azione di dichiarazione giudiziale ex art.
269 c.c., di non voler adempiere in ogni caso ai doveri morali
inerenti alla potestà di genitore.

Sentenza 14 luglio 2003, n.11467

La sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio
non rende applicabili, per effetto della delibazione, la disciplina
riguardante lo scioglimento della comunione ordinaria dei beni, di cui
agli articoli 1100 e ss. del codice civile, ma le norme regolanti i
casi e le modalità di scioglimento della comunione dei beni fra
coniugi, di cui agli articoli 191 e ss.; comunione che continua a
sussistere nella forma legale, al fine della divisione in parti eguali
dell’attivo e del passivo, senza possibilità di prova contraria per
espressa volontà di legge, la cui ratio ispiratrice coincide con le
motivazioni – parità fra i coniugi e tutela di quello economicamente
più debole – proprie della riforma del 1975 in materia di regime
patrimoniale preferenziale della famiglia.

Sentenza 06 marzo 2003, n.3339

Il riconoscimento degli effetti civili della sentenza ecclesiastica
dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario non è
precluso dalla preventiva instaurazione di un giudizio di separazione
personale tra gli stessi coniugi dinanzi al giudice dello Stato
italiano; il giudizio e la sentenza di separazione personale hanno
infatti «petitum», «causa pretendi» e conseguenze giuridiche del
tutto diversi da quelli del giudizio e della sentenza che dichiara la
nullità del matrimonio. La delibazione di tale sentenza, tuttavia,
laddove sia dichiarativa di nullità per l’apposizione di una
condizione al vincolo matrimoniale, viziante il relativo consenso
negoziale di uno dei coniugi, trova ostacolo nel principio di ordine
pubblico costituito dalla tutela dell’affidamento incolpevole
dell’altro coniuge, allorchè l’apposizione della condizione sia
rimasta nella sfera psichica di uno dei nubendi, senza essere
conosciuta o conoscibile all’altro coniuge. In particolare,
l’accertamento della conoscenza o conoscibilità di detta condizione
deve essere compiuto dal giudice della delibazione con piena autonomia
rispetto al giudice ecclesiastico, ancorchè la relativa indagine si
svolga con esclusivo riferimento alla pronuncia delibanda ed agli atti
del processo canonico eventualmente acquisiti e non dia luogo ad
alcuna integrazione di attività istruttoria, e con assoluto rigore,
giacchè detto accertamento attiene al rispetto di un principio di
ordine pubblico di speciale valenza e alla tutela di interessi della
persona riguardanti la costituzione di un rapporto, quello
matrimoniale, oggetto di rilievo e tutela costituzionali.

Sentenza 05 marzo 2003, n.6759

L’art. 15, comma 10, della Legge n. 223 del 1990, concernente la
“Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato”,
dispone il divieto di trasmissione di programmi a) che possano nuocere
allo sviluppo psichico o morale dei minori, b) che contengano scene di
violenza gratuita o pornografiche, c) che inducano ad atteggiamenti di
intolleranza basati su differenze di razza, sesso, religione o
nazionalità. Tale disposizione prefigura distinte e molteplici
fattispecie di illecito amministrativo, rispetto alle quali le
espressioni sub a) costituiscono, per l’ampiezza della formulazione
adottata, in relazione alle persone dei minori, una vera e propria
norma di chiusura della materia de qua. In particolare, l’ampiezza
semantica di quest’ultima previsione, che potrebbe apparire, a prima
vista, una insufficiente determinazione della fattispecie di illecito
amministrativo in esame, corrisponde, invece, alla sua descrizione in
una forma necessariamente aperta: infatti, poiché il minore ha
bisogno, per lo sviluppo delle diverse dimensioni della sua
personalità, di cure e protezioni particolari e molteplici,
l’oggetto ed il contenuto di programmi radiotelevisivi, idonei a
pregiudicarle, non possono essere tutti prefigurati puntualmente dal
legislatore; il quale accanto a specifiche fattispecie di illecito
(ipotesi sub b e sub c), ha previsto una norma di chiusura a
fattispecie aperta (ipotesi sub a). Inoltre, tenuto conto del più
generale principio dell’interpretazione delle norme nazionali in
senso conforme al diritto comunitario, affermato esplicitamente dalla
Corte di Lussemburgo a partire dalla sentenza del 13 novembre 1990,
nella causa C-106/89, la disposizione dell’art. 15, comma 10, primo
periodo (ferme restando le altre ipotesi, previste nel secondo e nel
terzo periodo) dalla legge n. 223 del 1990 deve essere integrata con
le previsioni derogatorie stabilite dall’art. 22 della Direttiva
89/552/CEE, risultando, in tal modo, la seguente formulazione: è
vietata la trasmissione di programmi che possono nuocere allo sviluppo
psichico o morale dei minori, a meno che la scelta dell’ora di
trasmissione o qualsiasi altro accorgimento tecnico escludano che i
minorenni, che si trovano nell’area di diffusione, assistano
normalmente a tali programmi. Siffatta integrazione della fattispecie
di illecito amministrativo in esame, oltre che conformare la
disposizione nazionale al diritto comunitario, rende anche la stessa
compatibile, sotto i profili considerati, con la nostra Costituzione:
diversamente opinando, infatti, la previsione stessa colliderebbe con
l’art. 21, poichè l’omessa indicazione delle deroghe in esame
pregiudicherebbe la libertà di informazione, sancita dal suddetto
articolo della Costituzione, proprio nelle sole ipotesi in cui le
ragioni di protezione dei minori sono normalmente insussistenti,
essendo garantite da determinate condizioni di orario della
trasmissione o da specifici accorgimenti tecnici. Non può infine
esservi dubbio che l’illecito in questione, applicando la nota
classificazione penalistica, sia da qualificare come di
“pericolo”; ed, in particolare, mentre le fattispecie di illecito
amministrativo prefigurate dal secondo e dal terzo periodo dell’art.
15, comma 10 possono essere classificate quali ipotesi di “pericolo
presunto o astratto”, quelle previste dal primo periodo, anche nel
testo risultante dalla integrazione summenzionata, debbono essere
qualificate come di “pericolo concreto o effettivo”. Infatti,
secondo quanto emerge dalla stessa littera legis, il pericolo – inteso
come rilevante possibilità che al compimento della condotta vietata
consegua la lesione dei beni protetti – rappresenta un elemento
costitutivo della fattispecie in questione e ciò comporta che, ai
fini dell’integrazione dell’illecito de qua, sia richiesta la
effettiva sussistenza dello stesso, desumibile da specifiche e
rilevanti circostanze del caso concreto, quali l’oggetto, il
contenuto, l’orario e/o le modalità di trasmissione del programma.
Il legislatore, bilanciando i due interessi costituzionali in gioco,
ha dunque ritenuto prevalente la tutela della persona minorenne, nel
caso in cui la trasmissione del programma esponga i beni dello
sviluppo psichico o morale, specificatamente protetti dalla norma in
questione, al rischio – in concreto – di un nocumento, restando negli
altri casi garantita la libertà di informazione radiotelevisiva.

Sentenza 29 aprile 2004, n.8205

La delibazione di sentenza ecclesiastica, dichiarativa della nullità
del matrimonio, per esclusione di uno dei “bona matrimoni”, da
parte di uno dei nubendi, è impedita – per contrasto con l’ordine
pubblico interno – dal fatto che tale riserva non sia conosciuta, o
non sia conoscibile mediante normale diligenza, dall’altro coniuge; in
tali ipotesi, infatti, risulta leso il principio – essenziale ed
inderogabile nell’ordinamento italiano – di buona fede e di
affidamento incolpevole nella validità del negozio. Per valutare la
sussistenza o l’insussistenza dell’asserito contrasto fra la sentenza
delibanda e l’ordine pubblico interno, in particolare, non è
richiesta la conoscenza o la conoscibilità, da parte di uno dei
nubendi, della relazione intrattenuta dall’altro con persona estranea,
ma soltanto la conoscenza o la conoscibilità della riserva del
partner sul “bonum fidei”: riserva che può concepirsi anche in
mancanza di qualsiasi rapporto attuale con persona estranea alla
coppia e che, per converso, può mancare nonostante l’attualità di
una relazione con persona estranea.

Sentenza 21 marzo 2003, n.11137

Cassazione Civile. Sezione Prima. Sentenza 21 marzo 2003, n. 11137. LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg. ri Magistrati: Dott. Giovanni LOSAVIO Presidente Dott. Vincenzo PROTO Rel. Consigliere Dott. Ugo VITRONE Consigliere Dott. Giuseppe V. A. MAGNO Consigliere Dott. Onofrio FITTIPALDI Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto […]

Sentenza 07 aprile 2003, n.17535

Cassazione Civile. Sentenza 7 aprile 2003, n. 17535. Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 30 marzo 1998, G. V. conveniva davanti alla Corte di Appello di Catania M. O. R., chiedendo che venisse dichiarata l’efficacia, nel territorio dello Stato italiano, della sentenza emessa in data 11 aprile 1997 dal Tribunale ecclesiastico regionale […]