Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 25 Agosto 2009

Ordinanza 03 aprile 2009

Tribunale di Venezia. Sez. III Civile. Ordinanza 3 aprile 2009: “Matrimonio tra persone dello stesso sesso. Rifiuto di procedere alle pubblicazioni da parte dell’ufficiale dello stato civile”.

Il Tribunale ordinario di Venezia, sezione III^ civile,
in composizione collegiale con i giudici:
dott. Maurizio GIONFRIDA Presidente
dott. Roberta MARCHIORI Giudice
dott. Antonella GUERRA Giudice rel.

ha pronunciato la seguente ordinanza:

nel procedimento civile iscritto al n° 2497/2008 R.G.V.G. Promosso con ricorso depositato il giorno 17-10-2008
da XXXXXXX e XXXXXXXXX, rappresentati e difesi dall’avv. Francesco Bilotta del foro di Trieste e dall’avv. Margherita Salzer del foro di Venezia, con domicilio eletto presso lo studio della seconda in Venezia-Mestre
ricorrenti
contro

Sindaco di Venezia, nella sua qualità di ufficiale di governo, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Venezia, domiciliataria ex lege -resistente
con l’intervento del Pubblico Ministero

Oggetto: ricorso avverso il rifiuto di pubblicazioni di matrimonio artt. 98 c.c. e art.7 del D.P.R. 396/2000

DIRITTO
Motivazione

I ricorrenti hanno proposto ricorso avverso il provvedimento datato 3-7-2008 con il quale l’ufficiale dello stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta, ritenendo l’assoluta illegittimità della pubblicazione “in forza del complesso normativo fondante l’ordinamento giuridico italiano e la contrarietà all’ordine pubblico costituito da principi fondamentali di rango sia costituzionale che ordinario”, così motivando il diniego: “Considerato che la richiesta pubblicazione di matrimonio, intesa ad ottenere la celebrazione del matrimonio civile in questo Comune, è stata resa da due nubendi dello stesso sesso; Considerato che il fine della pubblicazione è quello di dare pubblicità al matrimonio per consentire eventuali opposizioni e, soprattutto, di verificare preventivamente la sussistenza delle condizioni richieste e la mancanza di impedimenti previsti dal codice civile, al fine di avere garanzia che il matrimonio, una volta celebrato, sarà pienamente valido ed efficace; Considerato che l’istituto del matrimonio, nell’ordinamento giuridico italiano è inequivocabilmente incentrato sulla diversità di sesso dei coniugi, desumibile dall’insieme delle disposizioni che disciplinano l’istituto del matrimonio, tanto che tale diversità di sesso costituisce presupposto indispensabile, requisito fondamentale per la fattispecie del matrimonio, a tal punto che l’ipotesi contraria, relativa a persone dello stesso sesso, è giuridicamente inesistente e certamente estranea alla definizione del matrimonio, almeno secondo l’insieme delle normative tuttora vigenti; Richiamato il decreto 10 giugno 2005 del Tribunale di Latina, relativo ad una richiesta di trascrizione di matrimonio, contratto all’estero, tra persone dello stesso sesso, nel quale viene specificato che: “…Alla luce di quanto precede deve allora concludersi che elemento essenziale per poter qualificare nel nostro ordinamento la fattispecie matrimonio è la diversità di sesso dei nubendi ed in tal senso si è pronunciata la Corte di Cassazione che nel distinguere in subiecta materia la categoria dell’inesistenza da quella della nullità, ha precisato che ricorre l’ipotesi dell’inesistenza quando manchi quella realtà fenomenica che costituisce la base naturalistica della fattispecie, individuandone i requisiti minimi essenziali nella manifestazione di volontà matrimoniale resa da due persone di sesso diverso davanti ad un ufficiale celebrante (Cass. n. 7877/2000; 1304/1990; 1808/1976). D’altronde non è senza ragione che, nel nostro codice civile, tra gli impedimenti al matrimonio (quali età, capacità, libertà di stato, parentela, delitto – artt. 84, 86, 87, 88 c.c.-) non è prevista la diversità di sesso dei coniugi e ciò ovviamente non perché tale condizione sia irrilevante, bensì perché essa, a differenza dei semplici impedimenti, incide sulla stessa identificazione della fattispecie civile che, nel nostro ordinamento, possa qualificarsi matrimonio”. Visto il parere del Ministero dell’Interno espresso con nota del 28.07.2004, prot. 04006451 – 15100/15952, nel quale viene specificato che: “…in merito alla possibilità di trascrivere un atto di matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, si precisa che in Italia tale atto non è trascrivibile in quanto nel nostro ordinamento non è previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso in quanto contrario all’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 18 del DPR 396/2000”. Visto la circolare del Ministero dell’Interno n. 55 in data 18.10.2007 prot. N. 15100/397/0009861, relativa ai matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso, nella quale viene affermato che “…in mancanza di modifiche legislative in materia, il nostro ordinamento non ammette il matrimonio omosessuale e la richiesta di trascrizione di un simile atto compiuto all’estero deve essere rifiutata perché in contrasto con l’ordine pubblico interno”, escludendo categoricamente qualsiasi possibilità di matrimonio tra persone dello stesso sesso; Ritenuto, pertanto, che la sopraindicata richiesta di pubblicazione riguarda ipotesi giuridicamente inesistente e non assimilabile all’istituto del matrimonio secondo la disciplina prevista dal nostro ordinamento.” (doc. 1 del fascicolo attoreo). A sostegno del ricorso sono state svolte ampie argomentazioni in diritto, con le quali si è rilevato che nel nostro ordinamento non esisterebbe una nozione di matrimonio, né un divieto espresso di matrimonio tra persone dello stesso sesso – non essendo previsto tra i requisiti per contrarlo la disparità sexus (ex art. 84 c.c.) -, che inoltre gli atti del Ministero degli Interni citati nel provvedimento si riferirebbero all’ordine pubblico internazionale e non all’ordine pubblico interno (che invece andrebbe richiamato nel caso di specie), che comunque tali atti sarebbero contrari alla Costituzione e alla Carta di Nizza e quindi da disapplicare, che in ogni caso l’interpretazione letterale delle norme codicistiche posta a fondamento dell’atto di diniego da parte del Comune sarebbe contraria alla Costituzione italiana, ed in particolare agli artt. 2, 3, 10 comma 2°, 13, 29.
Sulla base di tali argomenti i ricorrenti hanno chiesto al Tribunale, in via principale, di ordinare all’ufficiale di stato civile del comune di Venezia di procedere alla pubblicazione del matrimonio rifiutata e, in via subordinata, di sollevare la questione di legittimità costituzionale – previa positiva valutazione della rilevanza e non manifesta infondatezza – degli artt. 107, 108, 143, 143 bis e156 bis c.c. rispetto agli artt. 2, 3, 10 comma 2, 13, 29 Cost., rimettendo gli atti alla Corte Costituzionale.
Con il ricorso in esame si chiede quindi che il Tribunale si pronunci in ordine al tema – assai dibattuto non solo fra i giuristi e non solo nel nostro Paese – relativo alla riconoscibilità del diritto delle persone omosessuali di contrarre matrimonio con persone del proprio sesso.
Nel nostro sistema il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è né previsto, né vietato espressamente. È certo tuttavia che né il legislatore del 1942, né quello riformatore del 1975 si sono posti la questione del matrimonio omosessuale, all’epoca ancora non dibattuta, almeno nel nostro Paese.
Pur non esistendo una norma definitoria espressa, l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso. Se è vero che il codice civile non indica espressamente la differenza di sesso fra i requisiti per contrarre matrimonio, diverse sue norme, fra cui quelle menzionate nel ricorso e sospettate d’incostituzionalità, si riferiscono al marito e alla moglie come “attori” della celebrazione (107 e 108), protagonisti del rapporto coniugale (art. 143 e ss. ) e autori della generazione (artt. 231 e ss.) .
Reputa il Tribunale che, proprio per il chiaro tenore delle norme sopra indicate, non sia possibile – allo stato della normativa vigente – operare un’estensione dell’istituto del matrimonio anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale), a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna.
D’altra parte, non si può ignorare il rapido trasformarsi della società e dei costumi avvenuto negli ultimi decenni, nel corso dei quali si è assistito al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia normale, tradizionale e al contestuale sorgere spontaneo di forme diverse, seppur minoritarie, di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e come quello mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i principi costituzionali.
Il primo riferimento costituzionale con il quale confrontarsi, suggerito anche dai ricorrenti, è sicuramente quello di cui all’ art. 2 della Costituzione, nella parte in cui riconosce i diritti inviolabili dell’uomo (diritti già proclamati dalla Costituzione ovvero individuati dalla Corte Costituzionale) non solo nella sua sfera individuale ma anche, e forse soprattutto, nella sua sfera sociale, ossia, secondo la formula della norma, “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, fra le quali indiscutibilmente la famiglia deve essere considerata la prima e fondamentale espressione. La famiglia è infatti la formazione sociale primaria nella quale si esplica la personalità dell’individuo e nella quale vengono quindi tutelati i suoi diritti inviolabili, conferendogli uno status (quello di persona coniugata) che assurge a segno caratteristico all’interno della società e che conferisce un insieme di diritti e di doveri del tutto peculiari e non sostituibili tramite l’esercizio dell’autonomia negoziale.
Il diritto di sposarsi configura un diritto fondamentale della persona riconosciuto sia a livello sovranazionale (artt. 12 e 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, artt. 8 e 12 CEDU e ora all’artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7-12-2000), sia dall’art. 2 della Costituzione. È un diritto inteso sia nella sua accezione positiva di libertà di contrarre matrimonio con la persona prescelta (così anche Corte Cost. n° 445/2002 ), sia in quella negativa di libertà di non sposarsi e di convivere senza formalizzare l’unione (così Corte Cost. 13-5-1998 n° 166).
La libertà di sposarsi (o di non sposarsi) e di scegliere il coniuge autonomamente riguarda la sfera dell’autonomia e dell’individualità ed è quindi una scelta sulla quale lo Stato non può interferire, a meno che non vi siano interessi prevalenti incompatibili; ora, nell’ipotesi in cui una persona intenda contrarre matrimonio con altra persona dello stesso sesso il Tribunale non individua alcun pericolo di lesione ad interessi pubblici o privati di rilevanza costituzionale, quali potrebbero essere la sicurezza o la salute pubblica .
L’unico importante diritto con il quale potrebbe eventualmente ipotizzarsi un contrasto è quello dei figli di crescere in un ambiente familiare idoneo, diritto che corrisponde anche ad un indiscutibile interesse sociale. È chiaro tuttavia che tale interesse potrebbe incidere esclusivamente sul diritto delle coppie omosessuali coniugate di avere figli adottivi, diritto che è distinto, e non necessariamente connesso, rispetto a quello di contrarre matrimonio, tanto che alcuni ordinamenti stranieri, come si specificherà più avanti, pur introducendo il matrimonio tra omosessuali, hanno espressamente escluso il diritto di adozione; in ogni caso, nell’attuale ordinamento italiano ogni adozione di minorenni presuppone la valutazione di idoneità affettiva e di capacità genitoriale della coppia (si veda l’art. 6.2 della L. 184/1983), evidentemente funzionale alla valutazione dell’interesse del minore adottando, essendo così esclusa ogni automaticità tra il matrimonio, la richiesta di adozione e la decisione del Tribunale per i minorenni.
Il secondo parametro di riferimento da prendere in esame, strettamente connesso al precedente, è quello di cui all’ art. 3 della Costituzione, che vieta ogni discriminazione irragionevole, conferendo a tutti i cittadini “…pari dignità sociale, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, impegnando lo Stato a “…rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…” Essendo, per quanto sopra rilevato, il diritto di contrarre matrimonio un momento essenziale di espressione della dignità umana, si ritiene che esso debba essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali (quali l’orientamento sessuale), con conseguente obbligo dello Stato d’intervenire in caso di impedimenti all’esercizio.
Ne consegue che se lo scopo del principio di cui all’art. 3 della Costituzione è vietare irragionevoli disparità di trattamento, la norma – implicita nel nostro sistema – che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, così seguendo il proprio orientamento sessuale (né patologico, né illegale), non abbia alcuna giustificazione razionale, soprattutto se raffrontata con l’analoga situazione delle persone transessuali, che, ottenuta la rettificazione di attribuzione di sesso in applicazione della l. 14-4-1982 n° 164 possono contrarre matrimonio con persone del proprio sesso di nascita. Al riguardo va rammentato che la coerenza con la Costituzione della legge n° 164/1982 è stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n° 165 del 6-5-1985 e che le valutazioni espresse dalla Corte sulla norma sospettata d’incostituzionalità confortano la tesi qui sostenuta, essendo stata riconosciuta la legittimità costituzionale non tanto sulla base del fatto che i soggetti abbiano compiuto e portato a termine un trattamento medico-chirurgico e che vi sia stato il provvedimento del Tribunale (che tramite una sorta di fictio iuris attribuisce il sesso opposto), ma sulla base di argomenti di ben più ampio respiro.
In particolare, la Corte ha definito l’orientamento del transessuale come “naturale modo di essere” sostenendo che la legge sospettata d’incostituzionalità “si è voluta dare carico di questi “diversi” ponendo una normativa intesa a consentire l’affermazione della loro personalità e in tal modo ad aiutarli a superare l’isolamento, l’ostilità e l’umiliazione che troppo spesso li accompagnano nella loro esistenza così operando il legislatore italiano si è allineato agli orientamenti legislativi, amministrativi e giurisprudenziali, già affermati in numerosi Stati, fatti propri, all’unanimità dalla Commissione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (decisione 9 maggio 1978, nel caso Daniel OostenWijck contro Governo belga) e la cui adozione in tutti gli Stati membri della Comunità è stata caldeggiata con una proposta di risoluzione presentata al Parlamento Europeo nel febbraio 1983 (…) la legge n. 164 del 1982 si colloca, dunque, nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana”.
In tale pronuncia si coglie l’attenzione della Corte nell’evidenziare le illegittime discriminazioni subite in precedenza dalle persone transessuali, con affermazioni pienamente mutuabili anche per gli omosessuali. La Corte è sembrata attenta a rispettare il principio secondo la quale il giudizio di costituzionalità deve essere ancora più pregnante ove il sospetto riguardi categorie di persone che storicamente abbiano subito illegittime discriminazioni e che si debba presumere siano particolarmente suscettibili di subire ulteriori trattamenti ingiustificatamente sfavorevoli .
Invero la legge n. 164 del 1982 ha profondamente mutato i connotati dell’istituto del matrimonio civile consentendone la celebrazione tra soggetti dello stesso sesso biologico d incapaci di procreare, valorizzando così l’orientamento psicosessuale della persona. Con riferimento all’assetto normativo sistematico delineato l’identità di sesso biologico non può essere legittimamente invocata per escludere gli omosessuali dal matrimonio. Se è vero, infatti, che fattore meritevole di tutela è l’orientamento psicosessuale della persona, non appare in alcun modo giustificata la discriminazione tra coloro che hanno naturale orientamento psichico che li spinge ad una unione omosessuale, e non vogliono pertanto effettuare alcun interevento chirurgico di adattamento, né ottenere la rettificazione anagrafica per conseguire un’attribuzione di sesso contraria al sesso biologico, – ai quali è precluso il matrimonio -, e i transessuali che sono ammessi al matrimonio pur appartenendo allo stesso sesso biologico ed essendo incapaci di procreare.
D’altro canto, le opinioni contrarie al riconoscimento alla libertà matrimoniale tra persone dello stesso sesso, fatte proprie dall’Avvocatura dello Stato resistente, per giustificare la disparità di trattamento invocano ragioni etiche, legate alla tradizione o alla natura. Si deve tuttavia obiettare che tali argomenti non sono idonei a soddisfare il rigore argomentativo richiesto dal giudizio di legittimità, non solo perché, come si è già messo in luce, i costumi familiari si sono radicalmente trasformati, ma soprattutto perché si tratta di tesi alquanto pericolose quando si discute di diritti fondamentali, posto che l’etica e la natura sono state troppo spesso utilizzate per difendere gravi discriminazioni poi riconosciute illegittime; si pensi alla disuguaglianza tra i coniugi nel diritto matrimoniale italiano preriforma e al divieto delle donne di svolgere alcune professioni, entrambi fondati sulla convinzione che le donne fossero naturalmente più deboli; ancora, nell’esperienza anche attuale di altri Paesi, vanno ricordati il divieto di contrarre matrimoni interrazziali o interreligiosi e la punizione di atti sessuali tra omosessuali anche se privati, giustificati con la contrarietà all’etica, alla tradizione o addirittura alla religione.
A ciò si aggiunga che, come si approfondirà più avanti, per i diritti degli omosessuali, così come per quelli dei transessuali, vi sono fortissime spinte, provenienti dal contesto europeo e sovranazionale, a superare le discriminazioni di ogni tipo, compresa quella che impedisce di formalizzare le unioni affettive.
Tali sollecitazioni sono evidentemente tese a far sì che gli Stati introducano specifici supporti giuridici e non si limitino a mere affermazioni di principio; infatti, ogni difesa formale della libertà, priva di un reale supporto giuridico strutturale, è debole e priva di effettività, come insegna l’osservazione del cammino compiuto da altre categorie per raggiungere un livello accettabile di realizzazione dei propri diritti. Basti pensare, nell’esperienza italiana, a quanto è avvenuto per le persone detenute e per le persone affette da handicap: ci si riferisce, per i detenuti, alla c.d. riforma penitenziaria introdotta con la legge 26-7-1975 n° 354, con la quale il legislatore ha risposto con una normativa tra le più avanzate allo stimolo proveniente proprio da una storica sentenza della Corte Costituzionale dell’anno precedente (n° 204/1974), e per i disabili alla legge 5-2-1992 n° 104 (“Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”).
Un’ulteriore giustificazione per negare il matrimonio omosessuale è spesso individuata nel disposto dell’art. 29, 1° comma della Costituzione, laddove si afferma che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”, essendosi ritenuto che con tale espressione si sia inteso tutelare il solo nucleo legittimo di carattere tradizionale, ossia l’unione di un uomo ed una donna suggellata dal vincolo giuridico del matrimonio.
In realtà, il significato di tale espressione non è quello di riconoscere il fondamento della famiglia in un non meglio definito “diritto naturale”, quanto piuttosto di affermare la preesistenza e l’autonomia della famiglia – come comunità originaria e pregiuridica -, dallo Stato, così imponendo dei limiti al potere del legislatore statale.
Che questa fosse l’intenzione del legislatore storico è messo ben in luce negli atti relativi al dibattito svolto in seno all’Assemblea Costituente in relazione all’art. 29 Cost., come emerge dall’intervento dell’on. A. M. nel corso della adunanza plenaria del 15 gennaio 1947. In particolare, in relazione alla formula ” la famiglia è una società naturale”, egli sottolineò che ” ..non è affatto una definizione, anche se ne ha la forma esterna, in quanto si tratta in questo caso di definire la sfera di competenza dello Stato nei confronti di una delle formazioni sociali alle quali la persona umana dà liberamente vita.” Ed ancora: “Escluso che qui “naturale” abbia un significato zoologico o animalesco, o accenni ad un legame puramente di fatto, non si vuole dire con questa formula che la famiglia sia una società creata al di fuori di ogni vincolo razionale ed etico. Non è un fatto, la famiglia, ma è appunto un ordinamento giuridico e quindi qui “naturale” sta per “razionale”. D’altra parte non si vuole escludere che la famiglia abbia un suo processo di formazione storica, né si vuole negare che vi sia sempre un più perfetto adeguamento della famiglia a questa razionalità nel corso della storia; ma quando si dice “società naturale” in questo momento storico si allude a quell’ordinamento che, perfezionato attraverso il processo della storia, costituisce la linea ideale della vita familiare. Quando si afferma che la famiglia è una “società naturale”, si intende qualche cosa di più dei diritti della famiglia. Non si tratta soltanto di riconoscere i diritti naturali alla famiglia, ma di riconoscere la famiglia come società naturale, la quale abbia le sue leggi ed i suoi diritti di fronte ai quali lo Stato, nella sua attività legislativa, si deve inchinare.” Era d’altra parte assai forte e recente il ricordo delle leggi razziali: il divieto di matrimonio di cittadini italiani di razza ariana con persone appartenenti ad altra razza, la subordinazione del matrimonio di cittadini italiani con persone di nazionalità straniera al preventivo consenso del Ministero per l’Interno, il divieto per gli ebrei di sposarsi in terra italiana, l’obbligo d’improntare l’istruzione e l’educazione familiare al sentimento nazionale fascista, tutte norme dirette a salvaguardare uno specifico concetto di famiglia imposto dallo Stato. Proprio ricordando gli abusi compiuti a difesa di una certa tipologia di famiglia, i Costituenti intesero marcare il confine tra autonomia familiare e sovranità statale, circoscrivendo i poteri del futuro legislatore in ordine alla sua regolamentazione. Regolamentazione che è tuttavia consentita, rectius imposta, ai sensi del 2° comma dell’art. 29 Cost. e di quelli immediatamente seguenti, solo quando si rende necessario un intervento statale atto a garantire i valori, questi sì costituzionalizzati, dell’eguaglianza tra coniugi, dell’unità familiare, del mantenimento, istruzione ed educazione dei figli.
Il fatto che la tutela della tradizione non rientri nelle finalità dell’art. 29 Cost. e che famiglia e matrimonio si presentino come istituti di carattere aperto alle trasformazioni che necessariamente si verificano nella storia, è poi indubitabilmente dimostrato dall’evoluzione che ha interessato la loro disciplina dal 1948 ad oggi. Il codice civile del 1942 recepiva un modello di famiglia basato su di un matrimonio indissolubile e su di una struttura gerarchica a subordinazione femminile; basti pensare al fatto che l’art. 143 parlava solo di obblighi reciproci e non di diritti, alla potestà maritale dell’art. 144, al dovere del marito di proteggere la moglie di cui all’art 145, all’istituto della dote. Tale caratterizzazione autoritaria e gerarchica si traduceva, sul fronte penale, nella repressione del solo adulterio femminile, nella responsabilità penale del marito solamente per abuso dei mezzi di correzione nei confronti della moglie, nella previsione del delitto d’onore, nell’estinzione del reato di violenza carnale a mezzo del matrimonio riparatore. Sono ben noti gli interventi della Corte Costituzionale a tutela dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, fra cui la storica sentenza n. 126/1968 che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 559 comma 1 e 2 c.p. che puniva il solo adulterio della moglie, ha sottolineato proprio il mutamento della società, superando così il proprio orientamento precedente solo di pochi anni, con il quale, richiamandosi al “tradizionale concetto della famiglia, quale tuttora vive nella coscienza del popolo”, aveva dichiarato non fondata la medesima questione (sentenza n. 64/1961). Anche in questo caso é stata proprio la Corte Costituzionale ad aprire la strada ad una riforma del diritto di famiglia, attuata con la legge del 1975, effettivamente in linea con i principi di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, superando la tradizione ultramillenaria secondo la quale la donna nell’ambito della famiglia doveva rivestire un ruolo subordinato. Ancora, vanno menzionati la mancata costituzionalizzazione dell’indissolubilità del matrimonio e la conseguente introduzione legislativa del divorzio, nonché la progressiva attuazione per via legislativa (da ultimo con la l. 54/2006) del principio costituzionale di eguaglianza tra figli legittimi e figli naturali: tutti esempi che dimostrano come l’accezione costituzionale di famiglia, lungi dall’essere ancorata ad una conformazione tipica ed inalterabile, si sia al contrario dimostrata permeabile ai mutamenti sociali, con le relative ripercussioni sul regime giuridico familiare.
Le considerazioni che precedono sul significato dell’espressione “società naturale” e sull’estraneità della tutela del “matrimonio tradizionale” alle finalità dell’art. 29 Cost. portano a ritenere prive di fondamento quelle tesi che giustificano l’implicito divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso ricorrendo ad argomenti correlati alla capacità procreativa della coppia ed alla tutela della procreazione. Al riguardo sarebbe, peraltro, sufficiente sottolineare come né la Costituzione, né il diritto civile prevedano la capacità di avere figli come condizione per contrarre matrimonio, ovvero l’assenza di tale capacità come condizione di invalidità o causa di scioglimento del matrimonio, essendo matrimonio e filiazione istituti nettamente distinti.
Una volta escluso che sulla disposizione dell’art. 29 Cost. possa trovare fondamento il trattamento differenziato delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali, si ritiene che tale norma, proprio nel momento in cui attribuisce tutela costituzionale alla famiglia legittima – contribuendo essa, grazie alla stabilità del quadro delle relazioni sociali, affettive ed economiche che comporta, alla realizzazione della personalità dei coniugi -, lungi dal costituire un ostacolo al riconoscimento giuridico del matrimonio tra persone dello stesso sesso, possa assurgere ad ulteriore parametro, unitamente agli artt. 2 e 3, in base al quale valutare la costituzionalità del divieto.
Ulteriore riferimento costituzionale che rileva nella questione in esame è, più che quello di cui all’art. 10, 2°comma (suggerito dai ricorrenti) che riguarda la condizione giuridica dello straniero, quello di cui all’art. 117, 1° comma Cost., che vincola il legislatore al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. Vengono in rilievo al riguardo, quali norme interposte, innanzitutto gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14(divieto di discriminazione) della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle Libertà Fondamentali. Con riferimento in particolare all’art. 8, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha accolto una nozione di “vita privata” e di tutela dell’identità personale in essa insita, non limitata alla sfera individuale, bensì estesa alla vita di relazione, arrivando a configurare un dovere di positivo intervento degli Stati di rimediare alle lacune suscettibili di impedire la piena realizzazione personale. Sempre in relazione al medesimo articolo, nel caso Goodwin c. Regno unito, 17/7/2002, la Corte di Strasburgo ha dichiarato contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale con persona del suo stesso sesso originario, per violazione del principio di rispetto della vita privata, superando il proprio precedente orientamento con il quale aveva ritenuto che il diritto di sposarsi garantito dall’art.12 CEDU potesse essere riferito solo a persone di sesso biologico opposto (Rees c. Regno Unito, 17/10/1986). Va evidenziato come, nel cambiare il proprio orientamento, la Corte abbia fatto riferimento a quello che ha definito come “the very essence of the right to marry” e all’artificiosità dell’idea che i soggetti transessuali, dopo l’operazione, non sarebbero privati del diritto di sposarsi, potendo comunque sposare una persona del sesso opposto a quello loro originario. In altre parole, la Corte ha riconosciuto che non ha senso essere titolari di un diritto al matrimonio, se poi non si può scegliere con chi sposarsi. Richiamando e ampliando quanto sopra sostenuto relativamente al valore di quanto affermato nella sentenza n° 161/1985 della Corte Costituzionale, va ribadito che sono evidenti le analogie esistenti tra la fattispecie in merito alla quale la Corte Europea è stata chiamata ad esprimersi e quella del matrimonio omosessuale: anche le persone omosessuali non sono, formalmente, private del diritto di sposarsi con una persona del sesso opposto, ma è chiaro che non è a questo tipo di matrimonio al quale ambiscono al fine di realizzare la propria personalità.
Sempre con riguardo all’art. 117, 1° comma Cost., e specificamente in relazione all’obbligo per il legislatore statale e regionale di rispettare i vincoli posti dall’ordinamento comunitario, si deve ricordare come anche la Carta di Nizza sancisca i diritti al rispetto della vita privata e familiare (art. 7), a sposarsi ed a costituire una famiglia (art. 9) e a non essere discriminati (art. 21) fra i diritti fondamentali dell’Unione Europea. È interessante, peraltro, notare come l’art. 9 non contenga (deliberatamente secondo quanto affermato nelle “spiegazioni” della stessa Carta), a differenza dell’art. 12 CEDU, alcun riferimento “l’uomo e la donna”. Ora, è vero che la Carta di Nizza non assume valore vincolante, non essendo stato ratificato il Trattato di Lisbona nell’ambito del quale era stata inserita, tuttavia, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza, anche costituzionale, essa ha “carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei” (Corte Cost., sentenza n. 135/2002) e costituisce nella prassi un importante punto di riferimento sia per le istituzioni europee che per l’attività interpretativa dei giudici europei.
Non si devono dimenticare in quest’ambito nemmeno gli atti delle Istituzioni Europee che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti, atti che rappresentano, indipendentemente dal loro valore giuridico, la presa di posizione a favore del riconoscimento del diritto al matrimonio, o comunque, in termini più generali, alla unificazione legislativa, nell’ambito degli Stati membri, della disciplina dettata per la famiglia legittima da estendersi alle unioni omosessuali. Fin dal 1981, con la raccomandazione n° 924 del 1-10-1981, l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa aveva sentito la necessità di garantire la libertà di scelta dell’orientamento sessuale di ciascun individuo nonché la dignità delle coppie omosessuali all’interno della Comunità. Sono seguite poi la Risoluzione sulla parità dei diritti delle persone omosessuali nella Comunità Europea in data 8-2-1994 con la quale il Parlamento europeo ha apertamente individuato come obiettivo delle azioni comunitarie la rimozione degli “ostacoli frapposti al matrimonio di coppie omosessuali ovvero a un istituto giuridico equivalente, garantendo pienamente diritti e vantaggi del matrimonio e consentendo la registrazione delle unioni.”, la Risoluzione sul rispetto dei diritti umani nell’Unione Europea del 16-3-2000 con cui il Parlamento europeo ha chiesto “agli Stati membri di garantire alle famiglie monoparentali, alle coppie non sposate e alle coppie dello stesso sesso parità di diritti rispetto alle coppie sposate e alle coppie e alle famiglie tradizionali, in particolare in materia di legislazione fiscale, regime patrimoniale e diritti sociali”. Da ultimo, merita menzione anche la recentissima risoluzione del 14 gennaio 2009 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea 2004-2008 che ha invitato gli Stati membri che si sono dotati di una legislazione relativa alle coppie dello stesso sesso a riconoscere le norme adottate da altri Stati membri e aventi effetti analoghi, ha esortato la Commissione a presentare proposte che garantiscano l’applicazione, da parte degli Stati membri, del principio di riconoscimento reciproco per le coppie omosessuali, sposate o legate da un’unione civile registrata, nella fattispecie quando esercitano il loro diritto alla libera circolazione previsto dal diritto dell’Unione Europea e ha invitato gli Stati membri che non l’abbiano ancora fatto, in ottemperanza al principio di parità, ad adottare iniziative legislative per eliminare le discriminazioni cui sono confrontate alcune coppie in ragione del loro orientamento sessuale (par. 75-77).
Infine, si deve prendere atto di come, in linea con tali risoluzioni del Parlamento Europeo e a conferma degli ormai consolidati mutamenti dei modelli e dei costumi familiari, nel diritto di molte nazioni di civiltà giuridica affine alla nostra, si stia delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali. In Olanda (l. 1/4/2001), Belgio (l. 1/6/2003) e Spagna (l. 30/6/2005) è stato rimosso tout court il divieto di sposare una persona dello stesso sesso; altri Paesi prevedono un istituto riservato alle unioni omosessuali (ci si riferisce alle Lebenspartnerschaft tedesche e alle registered partnership inglesi) con disciplina analoga a quella del matrimonio, o al quale è stata semplicemente estesa la disciplina matrimoniale, con l’esclusione, talvolta, delle disposizioni inerenti la potestà sui figli e l’adozione (Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Islanda). Fra i Paesi che ancora non hanno introdotto il matrimonio o forme di tutela paramatrimoniali, molti comunque prevedono forme di registrazione pubblica delle famiglie di fatto, comprese quelle omosessuali (Francia, Lussemburgo, Repubblica Ceca).
È sulla base di tutte le considerazioni esposte che il Tribunale è giunto al convincimento della non manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale, pur parzialmente modificando i parametri di riferimento rispetto a quelli indicati dai ricorrenti, delle norme di cui agli artt. 107, 108, 143, 143 bis, 156 bis e 231 c.c. laddove, sistematicamente interpretate, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso; valuterà la Corte, qualora ritenesse la questione fondata, se vi sia la necessità di estendere la pronuncia anche ad altre disposizioni legislative interessate in via di consequenzialità ai sensi dell’art. 27 della L. 87/1953.
In punto di rilevanza, si osserva che l’applicazione delle norme indicate è evidentemente ineliminabile nell’iter logico-giuridico che questo remittente deve percorrere per la decisione: infatti, in caso di dichiarazione di fondatezza della questione così come sollevata, il rifiuto alle pubblicazioni – la cui richiesta dimostra inequivocabilmente la volontà di contrarre matrimonio – dovrebbe ritenersi, in assenza di altra causa di rifiuto, illegittima, mentre, in caso di non accoglimento, l’attuale stato della normativa imporrebbe una pronuncia di rigetto del ricorso. Per completezza si osserva che, a fronte del rifiuto alla pubblicazione da parte dell’ufficiale dello stato civile, essendo la pubblicazione una formalità necessaria per poter procedere alla celebrazione del matrimonio, non è individuabile alcun altro procedimento nell’ambito del quale valutare la questione.

P.Q.M.

Visti gli artt. 134 Costituzione della Repubblica, 1 legge Cost. 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 e ss. della legge 11 marzo 1953 n° 87,
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis, nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, per contrasto con agli artt. 2, 3, 29 e 117, 1° comma della Costituzione,
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, sospendendo il procedimento in corso.
Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti, al pubblico ministero e al Presidente del Consiglio dei Ministri, e che ne sia data comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Venezia, 4 febbraio 2009
Il Giudice est.
Il Presidente

DEPOSITATO IL 03 04 2009