Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 21 Ottobre 2008

Ordinanza 22 settembre 2008, n.23934

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile, sentenza 22 settembre 2008, n. 23934: “Attribuzione del cognome materno al figlio legittimo”.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Maria Gabriella Luccioli Presidente
Dott. Giuseppe Salmè Rel. Consigliere
Dott. Paolo Giuliani Consigliere
Dott. Stefano Schirò consigliere
Dott. Sergio Del Core consigliere

Ha pronunciato la seguente

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

Sul ricorso proposto da:

C. A., F.L. , in proprio e nella qualità di esercenti la potestà sul figlio minore G. , elettivamente domiciliati in Roma via Panama 74, presso l’avvocato Valentino Pierluigi, rappresentati e difesi dall’avvocato Fazzo Luigi, giusta procura in calce al ricorso;
-ricorrenti-

Contro

Procuratore Generale Presso la Corte di Appello di Milano
-intimato-

Avverso il decreto della Corta d’Appello di Milano depositato il 19/02/07;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/03/2008 dal Consigliere Dott. Giuseppa Salmè;
udito, per i ricorrenti, l’avvocato Valentino Pierluigi, per delega che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
Udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giovanni Schiavon che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con decreto del 25 ottobre 2006 il tribunale di Milano ha respinto il ricorso proposto da A. C. e G. F. , in proprio e quali esercenti la potestà sul figlio G., nato a Milano il 2 giugno 2003, diretto a ottenere la rettificazione dell’atto di nascita nella parte in cui ha attribuito al figlio stesso il cognome paterno invece che quello materno, come richiesto dal padre al momento della denuncia di nascita.

La corte d’appello di Milano, con decreto del 19 febbraio 2007, ha confermato la pronuncia di primo grado richiamando, innanzi tutto, quanto osservato in altre occasioni in relazione a identica questione sollevata dagli stessi ricorrenti, e in particolare sottolineando che: a) in occasione della riforma del diritto di famiglia (legge n. 151 del 1975), pur avendo il legislatore dettato norme dirette a dare piu’ efficacia attuazione al principio costituzionale di eguaglianza dei coniugi, non è stata affrontata la questione relativa al cognome dei figli legittimi , con ciò riconoscendo persistente validità alla norma consuetudinaria che impone al figlio legittimo il cognome paterno; b) che in sede di modificazioni dell’ordinamento di stato civile(d.p.r. 396/2000) [1], pur affrontando talune problematiche afferenti il cognome, il legislatore non è intervenuto a disciplinare il tema di cui si discute; c) dopo avere previsto che il figlio legittimato assume il cognome paterno (art. 33 d.p.r. 396/2000), la nuova legge di stato civile ha espressamente attribuito al figlio che sia legittimato dopo il conseguimento della maggiore età la possibilità, da esercitare entro un determinato lasso di tempo, di aggiungere o anteporre al cognome in precedenza usato quello del genitore che lo ha legittimato; d) che tali recenti opzioni legislative dimostrerebbero l’inesistenza di una lacuna e la necessità di un intervento esplicito, anche se è stata stimata rispondente ai principi essenziali del nostro assetto sociale la regola dell’imposizione al figlio legittimato del cognome paterno, con intento di equipararne lo status a quello del figlio legittimo.

La Corte territoriale ha inoltre affermato che ogni ulteriore considerazione in diritto sarebbe stata superflua alla stregua delle motivazioni espresse dalla sentenza della corte costituzionale n. 61 del 2006, che ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità delle n orme che prevedono che il figlio nato nel matrimonio acquisiti automaticamente il cognome paterno, in quanto la soluzione richiesta avrebbe comportato un’operazione manipolativa esorbitante dai propri poteri. A identica conclusione è giunta la sentenza di questa corte n. 16093 del 2006 che ha ritenuto insormontabile la norma di sistema che attribuisce al figlio legittimo il cognome paterno, spettando al legislatore ridisegnare la materia in senso costituzionalmente adeguato. D’altra parte la commissione giustizia del Senato, dopo aver esaminato diversi disegni di legge, ha redatto un testo unificato, comunicato alla presidenza il 22 gennaio 2007, che prevede la possibilità per i genitori di scegliere se attribuire al figlio il cognome paterno o quello materno e tale iniziativa legislativa, sollecitata dalla corte costituzionale, conferma la persistente vigenza del sistema contestato dai reclamati, rispetto alla quale il giudice non ha spazio per adottare soluzioni difformi.

Avverso il decreto della corte d’appello di Milano A. C. e L. F. hanno proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, deducendo il vizio di violazione di legge, nel senso di erronea affermazione dell’esistenza di una norma, i ricorrenti censurano l’affermazione della corte territoriale secondo la quale (conformemente a quanto ritenuto con la sentenza di questa corte n. 16093/2006) esisterebbe una norma di sistema che attribuisce al figlio legittimo il cognome paterno, dovendo invece ritenersi che la disciplina applicabile sia dettata da una norma consuetudinaria.

A tale fine si afferma che i dati testuali dai quali è stata desunta la norma implicita sarebbero quantitativamente e qualitativamente insufficienti per giustificare la conclusione raggiunta, sia perché le disposizioni di legge indicate (articoli 237, 262 e 299 c.c. e articoli 33 e 34 d.p.r. n. 396/2000) sarebbero eterogenee, sia perché , comunque, non sarebbero univoche nell’autorizzare l’opinione secondo la quale le norme stesse presuppongono una norma implicita sull’automatica attribuzione al figlio legittimo del cognome paterno, potendo intendersi come semplici prese d’atto di una consuetudine sociale nel senso indicato.

Con il secondo motivo, prospettando un altro profilo di violazione o in subordine di falsa applicazione di legge, i ricorrenti affermano che, anche ad ammettere che la materia sia regolata non da una consuetudine ma da una norma di legge implicita, la corte territoriale avrebbe errato nell’attribuire a tale norma la portata di vietare l’attribuzione del cognome materno anche in caso di concorde volontà dei coniugi, non avendo tenuto presente che l’automatica attribuzione del cognome paterno incontra il duplice limite del principio della libertà di scelta del cognome dei figli, desumibile dagli articoli 262 c.c. e 33, n. 1 d.p.r. n. 396/2000 e dell’esigenza di garantire l’eguaglianza dei coniugi di cui agli articoli 2, 3 e 29 cost. , 143 e 144 c.c. , 8 e 14, della convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, 3, 137 e 141 del trattato istitutivo Ce e alla dichiarazione universale dei diritti dall’uomo adottata in sede ONU il 10 dicembre 1948 e alla convenzione europea sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata nella stessa sede il 18 dicembre 1979.

Con il terzo motivo, per il caso di mancato accoglimento dei precedenti motivi , i ricorrenti sollecitano una nuova rimessione della questione alla corte costituzionale, prendendo atto che la stessa corte con la sentenza n. 61 del 2006 ha riconosciuto che l’attuale sistema di attribuzione del cognome «non è piu’ coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna» e ritenendo, in conformità con la dottrina, che l’eventuale accoglimento della questione non creerebbe un vuoto legislativo, perché al di fuori dell’ipotesi di attribuzione del cognome materno in caso di concorde volontà espressa dai coniugi,continuerebbe ad operare l’attuale sistema di automatica attribuzione del cognome paterno.

2. Con sentenza n. 16093 del 2006 questa corte, decidendo su ricorso dei coniugi C.-F. proposto nei confronti di provvedimento negativo della corte d’appello di Milano su richiesta, analoga a quella di cui è causa, relativa ad altro figlio, preso atto che,con sentenza n. 61 del 16 febbraio 2006, la corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità degli artt. 143 bis c.c., artt. 236 c.c., art. 237 c.c., comma 2, art. 262 c.c.; art. 299 c.c., comma 3, D.P.R. n . 396 del 2000, artt. 33 e 34, nella parte in cui prevedevano che tale attribuzione debba avvenire automaticamente anche quando vi sia una diversa volontà dei genitori, in riferimento agli articoli n. 13298/2004 – sul rilievo che, anche in relazione al circoscritto petitum della predetta ordinanza (limitato alla richiesta di esclusione dell’automatismo della attribuzione al figlio del cognome paterno nella sola ipotesi di manifesta concorde volontà dei coniugi in tal senso) resterebbe «aperta tutta una serie di opzioni e, quindi, che «l’intervento che si invoca richiede un’operazione manipolativa esorbitante dai poteri della corte», ha ritenuto che all’accoglimento del ricorso si oppone la sussistenza della norma attributiva del cognome paterno al figlio legittimo – sia pure «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia» e sia pure non in sintonia con le fonti sopranazionali (che impongono agli Stati membri l’adozione di misure adeguate al eliminare discriminazioni di trattamento nei confronti della donna) …che spetta comunque al legislatore ridisegnare in senso costituzionalmente adeguato.

Ritiene il collegio che la soluzione alla quale la corte è in precedenza pervenuta meriti di essere riesaminata alla luce di alcune circostanze sopravvenute e a tal fine sia opportuno rimettere gli atti al primo presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite.

3.1. Come era stato già segnalato con l’ordinanza 17 luglio 2004, n. 13298 ed è stato ribadito con la sentenza della corte costituzionale n. 61 del 2006, la norma sull’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, anche in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori, desumibile dal sistema normativo, in quanto presupposta dagli articoli 237, 262 e 299 c.c. nonché dall’art. 72, 1° comma del r.d. n. 1238/1939 e ora, dagli articoli 33 e 34 d.p.r. n. 396 del 2000, oltre a non essere piu’ coerente con i principi dell’ordinamento, che ha abbandonato la concezione patriarcale della famiglia, e con il valore costituzionale dell’eguaglianza tra uomo e donna, si pone contrasto con alcune norme di origine sopranazionale.

A parte , infatti la risoluzione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa 27 settembre 1978 n. 37 (che invita gli Stati membri a eliminare ogni discriminazione fondata sul sesso nella scelta del nome della famiglia e nella trasmissione dei nomi dei genitori ai figli) e le raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 28 aprile 1995 n. 1271 (che chiede agli stati membri di adottare misure appropriate per garantire una rigorosa eguaglianza tra i coniugi nella scelta del nome della famiglia) e 18 marzo 1998, n. 1362 (che, nel reiterare gli inviti precedentemente formulati, chiede agli Stati membri di indicare entro quale termine adotteranno le misure antidiscriminatorie), la norma di cui si discute appare contrastante con l’art. 16, 1° comma lettera g) della convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva con legge 14 marzo 1958, n. 132, che impegna gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e, in particolare, ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome».

Della violazione degli articoli 8 e 14 della convenzione europea sui diritti dell’uomo la corte di Strasburgo ha discusso in alcuni casi aventi ad oggetto vicende relative al nome patronimico. In particolare nei casi Unal Teseli c. Turchia (sentenza 16 febbraio 2005, che ha dichiarato priva di qualsiasi giustificazione oggettiva e ragionevole, in quanto non necessaria per soddisfare esigenze di salvaguardia dell’unità familiare, la norma che imponeva alla donna la perdita del cognome d’origine, in caso di matrimonio, o che, a seguito di recenti modifiche della legislazione turca, consente solo l’aggiunta di tale cognome del marito), Stjerna c. Finalandia ( sentenza 24 ottobre 1994, che, pur ammettendo che decisioni degli Stati membri in ordine al nome possono violare le disposizioni citate, ha in concreto negato la sussistenza di tale violazione nel rifiuto di consentire il cambiamento del nome usato da oltre duecento anni dalla famiglia del richiedente), Bourghartz c. Svizzera (sentenza 24 gennaio 1994, che ha dichiarato costituire violazione degli articoli 8 e 14 il rifiuto dell’autorità svizzera di consentire al marito di aggiungere al nome della moglie, scelto dai coniugi come nome della famiglia, anche il proprio cognome d’origine). Non va tralasciato, inoltre, che l’art. 5 del settimo protocollo addizionale della convenzione, firmato a Strasburgo il 22 novembre 1984, stabilisce che i coniugi godono dell’uguaglianza di diriti e di responsabilità di carattere civile tra di essi e nelle loro relazioni con i loro figli riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e in caso di suo scioglimento.

In una fattispecie particolare (si trattava di figli di padre spagnolo e madre belga, con doppia cittadinanza spagnola e belga, ai quali il Belgio, stato di residenza, aveva attribuito il cognome paterno che il padre voleva correggere nel doppio cognome) anche la Corte di giustizia CE (sentenza 2 ottobre 2003, n. C. 148/02) è intervenuta ad affermare che il comportamento dello Stato di residenza che rifiutava la correzione costituisce discriminazione in base alla nazionalità vietata dagli articoli 12 e 17 del Trattato.

Gli articoli 3 e 23, 4° comma del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato dall’assemblea generale dell’ONU il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge n. 881 del 25 ottobre 1977, prevedono , rispettivamente, l’impegno degli stati a garantire l’eguale diritti degli uomini e delle donne a godere dei diritti civili e politici previsti dal Patto e ad adottare le misure per garantire ai coniugi l’eguaglianza nel rapporto matrimoniale e al momento dello scioglimento di tale rapporto.

3.2. Con le sentenze n. 348 e 349 del 24 ottobre 2007 la corte costituzionale ha affermato che il nuovo testo dell’art. 117, 1° comma cost.; colmando la lacuna esistente nella disciplina previdente, in conseguenza della quale «la violazione di obblighi internazionali derivanti da norme di natura convenzionale non contemplate dall’art. 10 e dall’art. 11 cost. da parte di leggi interne comportava l’incostituzionalità delle medesime solo con riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali» (così la sent. 348/2007) ha previsto l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme con la conseguenza che la norma nazionale con le stesse incompatibile viola per ciò stesso l’art. 117, 1° comma cost., perché la norma convenzionale, alla quale la norma costituzionale fa rinvio, «mobile», «da vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata «norma interposta» (sent. 348/07).

Ora, poiché nessuna delle norme convenzionali indicate al precedente paragrafo rientra nella sfera di applicazione degli articoli 10 e 11 cost. (che il Patto internazionale sui diritti civili e politici, benché approvato dall’assemblea dell’ONU, non abbia natura di norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta, in quanto di formazione convenzionale e non consuetudinaria, è stato affermato da corte cost. n. 15 del 1996, con considerazioni immediatamente applicabili anche alla convenzione di New York del 18 dicembre 1979, mentre, per l’esclusione delle norme CEDU dalle fattispecie di cui agli articoli 10 e 11 cost., cfr, le citate sentenze nn. 348 e 349/2007) ne deriva che la possibilità di utilizzarle come norme interposte e quindi come parametri del giudizio di costituzionalità delle norme interne (non presa in considerazione dalla sentenza n. 61 del 2006) è sorta soltanto a seguito dell’approvazione del nuovo art. 117 , 1° comma cost.; così come interpretato con le sentenze nn. 348 e 349/2007. Quindi solo attualmente il giudice ha la possibilità di percorrere la duplice alternativa strada dell’interpretazione della norma sull’applicazione automatica del cognome paterno al figlio legittimo, anche in caso di concorde difforme volontà dei genitori, in senso costituzionale orientato al rispetto dei parametri desumibili dalle norme convenzionali indicate al paragrafo precedente, ovvero, nel caso in cui ritenga che il testo della norma (nella specie, come rilevato, si tratta tuttavia di norma implicita nel sistema) non consenta questa operazione ermeneutica, di valutare se non sia manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale della norma stessa.

4. Il 13 dicembre 2007 i capi di stato e di governo dei ventisette membri dell’Unione europea hanno sottoscritto a Lisbona il trattato che modifica il trattato sull’Unione e quello istitutivo della Comunità europea. Oltre a modifiche formali ai testi dei trattati indicati (la parità tra donne e uomini è oggetto dell’art. 1 bis e la lotta alla discriminazione e la promozione della parità è oggetto dell’art. 2, 3° comma, secondo periodo del trattato sull’Unione), l’art. 6 del nuovo trattato riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, sottoscritta a Nizza il 7 dicembre 2000 dai presidenti del parlamento europeo, del consiglio e della commissione e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (l’art. 7 afferma il diritto al rispetto della vita privata e familiare; l’art. 21 vieta ogni discriminazione fondata sul sesso; l’art. 23 assicura la parità tra uomini e donne) e prevede l’adesione alla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, stabilendo, comunque che i diritti fondamentali garantiti da detta convenzione e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stessi membri costituiscono principi generali del diritto dell’Unione.

Con la ratifica del trattato di Lisbona di cui alla legge 2 agosto 2008, n. 130, si dovrebbe quindi aprire la strada dell’applicazione diretta delle norme del trattato stesso e di quelle alle quali il trattato fa rinvio,e comunque, al controllo di costituzionalità che, anche nei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, non può essere escluso: a) quando la legge interna è diretta ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza dei trattati della comunità in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi; b) quando venga in rilievo il limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona; c) quando si ravvisa un contrasto fra norma interna e direttiva comunitaria non dotata di efficacia diretta (corte cost., 13 luglio 2007, n. 284).

5. già con l’ordinanza n. 176 del 1988 la corte costituzionale ha affermato che «sarebbe possibile e probabilmente consentano all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, piu’ rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concili i due principi sanciti dall’art. 29 cost., anziché avvalersi dell’autorizzazione a limitar l’uno in funzione dell’altro». Con la sentenza n. 61 del 2006, inoltre, la corte ha ribadito, ancora piu’ nettamente, che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistiche, e di una tramontata potestà maritale, non piu’ coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’eguaglianza tra uomo e donna. «In entrambi i casi la corte ha implicitamente sollecitato un intervento del legislatore che, pur avendo affrontato il tema da ormai quasi un trentennio (proposta di legge n. 832 del 30 ottobre 1979), non è ancora pervenuto a soluzioni concrete.

Nel panorama degli ordinamenti contemporanei la soluzione al problema della attribuzione del cognome al figlio legittimo data dalla normativa italiana appare quasi del tutto isolata, anche se le opzioni alle quali sono ispirate le discipline straniere sono diverse tra loro. Ma tale pluralità di opzioni relative alla complessiva problematica dell’attribuzione del cognome al figlio legittimo, la cui scelta indubbiamente compete al legislatore, non viene necessariamente in considerazione rispetto alla fattispecie concreta, che riguarda la sola ipotesi in cui i genitori siano concorsi nell’attribuire al figlio il cognome materno. La soluzione in tal caso appare «a rima obbligata», perché si tratta non di scegliere tra una pluralità di alternative, ma solo tra l’ammettere o escludere la possibilità di deroga alla norma di sistema, in un contesto in cui le altre fattispecie non resterebbero prive di regole dovendo alle stesse comunque applicarsi la predetta norma implicita.

Peraltro una scelta conforme alle richieste concordi dei genitori risulta compiuta da alcuni giudici del merito. Il tribunale di Lucca, con sentenza del 1° ottobre 1984, ha ritenuto che l’attribuzione automatica del cognome paterno al figlio legittimo,contrastando con il principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e con la tutela della personalità, autorizza l’accoglimento della domanda congiunta dei genitori diretta ad aggiungere a quello paterno il cognome della madre e il tribunale di Bologna, con sentenza del 9 giugno 2004, ha accolto l’istanza per la correzione di un atto di nascita di un minore di doppia cittadinanza italiana e spagnola, nato in Spagna ed iscritto nei registri dello stato civile spagnoli con il doppio cognome, a cui in sede di trascrizione dell’atto di nascita l’ufficiale di stato civile italiano aveva attribuito il solo cognome paterno, ravvisando nella decisione dell’ufficiale di stato civile la violazione del combinato disposto degli art. 12 e 17 Ce, così come interpretati dalla corte di giustizia con la citata sentenza 2 ottobre 2003.

Il consiglio di stato in sede giurisdizionale, con decisione del 25 gennaio 1999, n. 63 (sez. IV), ha ritenuto illegittimo il rifiuto dell’autorità amministrativa riconsentire l’aggiunta del cognome materno a quello paterno, in caso di consenso di entrambi i genitori e di uso di tale cognome nel contesto familiare, scolastico e sociale, anche tenendo conto dell’evoluzione della coscienza sociale e del contesto europeo e, con parere del 17 marzo 2004 n. 515 (sez. I), reso nell’ambito di un procedimento iniziato con ricorso straordinario al capo dello Stato, ha ritenuto fondata la richiesta al Ministro dell’interno, concordemente formulata dai genitori, per il cambiamento del cognome del figlio legittimo con l’attribuzione del cognome materno, motivata con ragione di riconoscenza nei confronti del nonno materno, ritenendo non irrinunciabile il diritto al cognome paterno e non condivisibile la motivazione secondo la quale la sostituzione del cognome comprometterebbe lo status di figlio legittimo e i valori della famiglia fondata sul matrimonio.

Sulla base delle considerazioni svolte appare opportuno trasmettere gli atti al primo Presidente ai fini della eventuale rimessione alle sezioni unite, per valutare se ai fini della presente controversia , alla luce della mutata situazione della giurisprudenza costituzionale e del probabile mutamento delle norme comunitarie, possa essere adottata un’interpretazione della norma di sistema costituzionalmente orientata ovvero, se tale soluzione sia ritenuta esorbitante dai limiti dell’attività interpretativa, la questione possa essere rimessa nuovamente alla corte costituzionale.

P.Q.M.

La corte rimette gli atti al primo presidente per l’eventuale rimessione alle sezioni unite.

Così deciso in Roma il 19 marzo 2008 nella camera di consiglio della prima sezione civile.

Il Presidente

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

IL 22 SETTEMBRE 2008.