Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 13 luglio 1984, n.239

La norma che dispone l’obbligatoria appartenenza di un soggetto, per
il solo fatto di essere ebreo e indipendentemente da qualsiasi
manifestazione di volonta’, alla Comunita’ israelitica del luogo di
residenza, viola l’art. 3 Cost., che afferma l’eguaglianza dei
cittadini davanti alla legge senza distinzione (fra l’altro) “di
razza” e “di religione”, nonche’ gli artt. 2 e 18 Cost., i quali
tutelano come diritto inviolabile la liberta’ di aderire e non aderire
non solo alle associazioni ma anche a quelle “formazioni sociali”, tra
le quali si possono ritenere comprese le confessioni religiose.
Pertanto, e’ costituzionalmente illegittimo – per contrasto con gli
artt. 3, 2 e 18 Cost. – l’art. 4, r.d. 30 ottobre 1930 n. 1731.

Sentenza 18 novembre 1958, n.59

Per i culti acattolici si deve distinguere la liberta’ di esercizio
del culto, come pura manifestazione di fede religiosa, dalla
organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con lo Stato.
La prima e’ riconosciuta nel modo piu’ ampio dall’art, 19 della
Costituzione, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni di
culto, ivi indubbiamente incluse l’apertura di tempi ed oratori e la
nomina dei relativi ministri. Quanto alla liberta’ delle confessioni
religiose diverse dalla cattolica di organizzarsi secondo i propri
statuti, l’art. 8 della Costituzione pone il limite che tali statuti
non contrastino con l’ordinamento giuridico dello Stato, e che i
rapporti di dette confessioni con lo Stato siano da regolarsi con
leggi sulla base d’intese con le relative rappresentanze.

Sentenza 08 marzo 1957, n.45

L’art. 17 della Costituzione contiene una netta affermazione della
liberta’ di riunione, ispirandosi a cosi’ elevate e fondamentali
esigenze della vita sociale da assumere necessariamente una portata ed
efficacia generalissime, tali da non consentire la possibilita’ di
regimi speciali, neanche per le riunioni a carattere religioso. Per
questo tipo di riunioni gli artt. 8, primo comma, e 19 della
Costituzione, che sanciscono la piena liberta’ dell’esercizio del
culto per tutte le confessioni religiose, devono essere coordinati con
l’art. 17, nel senso che le riunioni a carattere religioso non si
sottraggono alla disciplina generale di tutte le riunioni, per quanto
riguarda e la liberta’ delle riunioni stesse e i limiti a cui essa,
nel superiore interesse della convivenza sociale, e’ sottoposta. E’
incompatibile con l’art. 17 della Costituzione, che prevede l’obbligo
del preavviso all’autorita’ esclusivamente per le riunioni in luogo
pubblico, implicitamente escludendolo per ogni altra specie di
riunione, la disposizione contenuta nell’art. 25 del T.U. delle leggi
di p.s. 18 giugno 1931, n. 773, in ordine al preavviso per le
funzioni, cerimonie o pratiche religiose in luoghi aperti al pubblico.
Tale disposizione non si giustifica in riferimento all’art. 19 della
Costituzione, che vieta l’esercizio dei culti contrari al buon
costume: nel nostro ordinamento giuridico non esiste il principio che
ad ogni limitazione posta ad una liberta’ costituzionale debba
corrispondere il potere di un controllo preventivo dell’autorita’ di
pubblica sicurezza. Pertanto il detto art. 25 del T.U. delle leggi di
p.s. e’, per la parte di cui sopra, costituzionalmente illegittimo.

Sentenza 04 giugno 1992, n.290

Lo stato di non obbligo per i non avvalentisi dell’insegnamento di
religione cattolica vale a separare il momento dell’interrogazione di
coscienza sulla scelta di liberta’ di religione o dalla religione, da
quello delle libere richieste individuali alla organizzazione
scolastica, sicche’ non hanno rapporto con la liberta’ religiosa le
modalita’ di impegno o disimpegno scolastico connesse
all’organizzazione interna della scuola. Pertanto gli inconvenienti di
fatto lamentati – con particolare riferimento alla scuola elementare o
dell’obbligo – per i non avvalentisi (inserimento di una didattica
facoltativa nel normale orario di lezioni e, quindi, anche in ore
intercalari, con conseguente possibile temporaneo allontanamento del
minore dall’istituto scolastico) sono privi di rilievo costituzionale.
(Inammissibilita’ della questione di legittimita’ costituzionale, in
riferimento agli artt. 2, 3 e 19 Cost., dell’art. 9, numero 2, della
legge 25 marzo 1985, n. 121 e del punto 5, lett. b), numero 2, del
relativo Protocollo addizionale, nella parte in cui non prevedono,
quanto meno per la scuola elementare, la obbligatoria collocazione
dell’insegnamento della religione cattolica all’inizio od alla fine
delle lezioni).

Sentenza 14 gennaio 1991, n.13

E’ infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9,
numero 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 e del punto 5, lettera b),
numero 2, del relativo Protocollo addizionale, sollevata, in relazione
agli artt. 2, 3, 19 e 97 della Costituzione, in riferimento alla
collocazione dell’insegnamento di religione cattolica nell’ordinario
orario delle lezioni e alla condizione dei non avvalentisi. Si deve
infatti rilevare che le varie forme di impegno scolastico, presentate
alla libera scelta dei non avvalentisi, non hanno alcun rapporto con
la libertà di religione. Lo “stato di non-obbligo” vale cioè a
separare il momento dell’interrogazione di coscienza sulla scelta di
libertà di religione o dalla religione, da quello delle libere
richieste individuali alla organizzazione scolastica. Nè si può
scorgere nel minore impegno, o addirittura nel disimpegno scolastico
dei non avvalentisi, una causa di disincentivo per le future scelte
degli avvalentisi.

Sentenza 12 aprile 1989, n.203

Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20
della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle
religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà
di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale. In
questo senso, lo Stato è tenuto, in forza dell’Accordo del 1984 con
la Santa Sede, ad assicurare l’insegnamento di religione cattolica.
Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo
l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di
frequentarlo. Per quanti invece decidano di non avvalersene,
l’alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di
altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento
per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata
attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà
costituzionale di religione.

Ordinanza 12 marzo 1998, n.67

E’ manifestamente inammissibile, per difetto di motivazione dell’atto
di promovimento in punto di rilevanza, la questione di legittimita’
costituzionale proposta, in riferimento agli artt. 33, commi secondo e
terzo, e 117, comma primo, Cost., nei confronti della legge della
Regione Emilia-Romagna 24 aprile 1995, n. 52 (Integrazioni alla legge
regionale 25 gennaio 1983, n. 6 “Diritto allo studio”), con la quale,
nell’ambito di un sistema pubblico integrato, in essa delineato, si
prevedono i criteri per l’assegnazione, da parte della Regione, di un
contributo finanziario (consistente nella ripartizione di un apposito
fondo) ai Comuni che abbiano attivato convenzioni finalizzate alla
qualificazione e al sostegno di scuole dell’infanzia gestite da enti,
associazioni, fondazioni e cooperative senza fini di lucro.
Nell’impugnare la legge regionale nel suo intero complesso ritenendo
le singole disposizioni della stessa “inautonome”, ma in tal modo
impedendo la scissione della formulata censura attraverso il
frazionamento di diversi possibili profili applicativi, il TAR
rimettente si e’ infatti limitato ad affermare, riguardo alla
rilevanza della eccezione di incostituzionalita’ nel processo di
provenienza, senza alcun riferimento ai relativi presupposti, che “le
norme denunciate costituiscono elemento dirimente della controversia”,
senza considerare, tra l’altro, che un’eventuale decisione di
accoglimento della Corte costituzionale avrebbe reso ‘inutiliter data’
la sentenza parziale gia’ dal TAR pronunciata, contemporaneamente alla
emissione della ordinanza di rinvio, con applicazione della legge ‘de
qua’, a tutela di un interesse legittimo fatto valere dai ricorrenti.

Sentenza 30 settembre 1996, n.334

Sono costituzionalmente illegittimi, per violazione degli artt. 2, 3 e
19 Cost., l’art. 238, comma 2, cod. proc. civ., limitatamente alle
parole “davanti a Dio e agli uomini” e l’art. 238, comma 1, seconda
proposizione, cod. proc. civ., limitatamente alle parole “religiosa
e”, in quanto – posto che gli artt. 2, 3 e 19 Cost. garantiscono come
diritto la liberta’ di coscienza in relazione all’esperienza
religiosa; che tale diritto, sotto il profilo
giuridico-costituzionale, rappresenta un aspetto della dignita’ della
persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2; che
esso spetta ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano
essi atei o agnostici, e comporta la conseguenza, valida nei confronti
degli uni e degli altri, che in nessun caso il compimento di atti
appartenenti, nella loro essenza, alla sfera della religione possa
essere l’oggetto di prescrizioni derivanti dall’ordinamento giuridico
dello Stato; che qualunque atto di significato religioso (anche il
piu’ doveroso dal punto di vista di una religione e delle sue
istituzioni) rappresenta sempre, per lo Stato, esercizio della
liberta’ dei propri cittadini, che, come tale non puo’ essere oggetto
di una sua prescrizione obbligante, indipendentemente dall’irrilevante
circostanza che il suo contenuto sia conforme, estraneo o contrastante
rispetto alla coscienza religiosa individuale; che alla configurazione
costituzionale del diritto individuale di liberta’ di coscienza
nell’ambito della religione e alla distinzione dell'”ordine” delle
questioni civili da quello dell’esperienza religiosa corrisponde,
rispetto all’ordinamento giuridico dello Stato e delle sue
istituzioni, il divieto di ricorrere a obbligazioni di ordine
religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti; e che il
giuramento e’ certamente atto avente significato religioso – il
giuramento “decisorio”, cosi’ come disciplinato dall’art. 238 cod.
proc. civ., viola sia la liberta’ di coscienza in materia di religione
(laddove esso, pur non essendo propriamente imposto dalla legge, e’
comunque oggetto di una prescrizione legale alla quale la parte si
trova sottoposta con conseguenze negative), sia la distinzione,
imposta dal fondamentale principio costituzionale di laicita’ o non
confessionalita’ dello Stato, tra l'”ordine” delle questioni civili e
l'”ordine” delle questioni religiose (laddove dalle norme impugnate
deriva un’inammissibile commistione tra i due ordini, rappresentata
dal fatto che un’obbligazione di natura religiosa e il vincolo che ne
deriva nel relativo ambito sono imposti per un fine probatorio proprio
dell’ordinamento processuale dello Stato; con la conseguenza che,
siccome la liberta’ di coscienza di chi sia chiamato a prestare il
giuramento previsto dall’art. 238, comma 2, cod. proc. civ. comporta
che la determinazione del contenuto di valore che essa implica sia
lasciata alla coscienza, la dichiarazione di incostituzionalita’ del
riferimento alla responsabilita’ che si assume davanti a Dio deve
estendersi anche al riferimento alla responsabilita’ davanti agli
uomini, e con l’ulteriore conseguenza (ex art. 27 l. n. 87 del 1953)
che la dichiarazione di incostituzionalita’ deve estendersi al primo
comma del medesimo articolo – nella parte in cui prevede che il
giurante sia ammonito dal giudice circa l’importanza religiosa del
giuramento – avuto riguardo alla inscindibilita’ di tale previsione da
quella contenuta nel secondo comma.

Sentenza 04 maggio 1995, n.149

L’asimmetria sussistente nell’ordinamento quanto alla differente
tutela accordata alla liberta’ di coscienza del testimone nel processo
penale e in quello civile manifesta un’irragionevole disparita’ di
trattamento in relazione alla protezione di un diritto inviolabile
dell’uomo, la liberta’ di coscienza, che, come tale, esige una
garanzia uniforme o, almeno omogenea nei vari ambiti in cui si
esplica. Pertanto al fine di assicurare tale pari tutela al valore
della liberta’ di coscienza riguardo all’obbligo del testimone di
impegnarsi a dire la verita’, si impone l’estensione all’art. 251,
secondo comma, cod. proc. civ. della disciplina e della formula
previste dall’art. 497, secondo comma, cod. proc. pen., – assunte dal
giudice rimettente a ‘tertium comparationis’ – le quali sono scevre da
qualsiasi riferimento a prestazioni di giuramento. Del resto, anche se
il particolare profilo sottoposto al presente giudizio non consente di
oltrepassare i confini del giuramento del testimone e di affrontare il
problema del giuramento in generale (anche alla luce dell’art. 54
della Costituzione), non e’ senza significato sottolineare che la
soluzione prescelta dal legislatore per il processo penale rappresenta
un’attuazione del “principio supremo della laicita’ dello Stato, che
e’ uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta
costituzionale della Repubblica”: principio che – come la Corte ha
affermato – “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle
religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della liberta’
di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.

Sentenza 13 luglio 1984, n.234

E’ inammissibile la questione di legittimita’ costituzionale
congegnata in termini tali da comportare, qualora dovesse ritenersi
fondata, l’apprestamento di integrazioni e variazioni della normativa
in vigore, strettamente dipendenti da una pluralita’ di scelte
discrezionali individuabili dal solo legislatore. (Inammissibilita’
della questione di legittimita’ costituzionale degli artt. 251 c.p.c.,
142 e 449 c.p.p., nella parte in cui non prevedono forme equipollenti
al giuramento per i testimoni appartenenti a confessioni religiose le
quali, dando rilevanza religiosa ad ogni giuramento, prescrivono di
non pronunciare mai le parole “lo giuro”).