Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 28 Novembre 2006

Sentenza 04 novembre 2005, n.21395

Corte di Cassazione. Sezione I. Sentenza 4 novembre 2005, n. 21395. “Adozione dei minori ed istituto della kafalah”.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAPPUCCIO Giammarco – Presidente
Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Consigliere
Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere
Dott. GIULIANI Paolo – rel. Consigliere
Dott. DEL CORE Sergio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:
sentenza

sul ricorso, iscritto al n. 22178/2004 del R.G., proposto da:
C. G. e S. R., elettivamente domiciliati in Roma, Via Cesi Federico n. 21, presso lo studio dell’Avv. Prof. TAORMINA Carlo che li rappresenta e difende, anche disgiuntamente dall’Avv. DIONISIO Antonio del foro di Torino, in forza di procura speciale in calce al ricorso principale;
– ricorrenti principali –

contro

Avvocato G. L., nella qualità di curatore speciale del minore E. R. W., elettivamente domiciliato in Roma, via Nomentana n. 257, presso lo studio dell’Avv. DOSI Gianfranco che lo rappresenta e difende in forza di procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrente principale –

nonchè PROCURA GENERALE della REPUBBLICA presso la CORTE di APPELLO di TORINO;
– estimata principale –

e sul ricorso, iscritto al n. 22856/2004 del R.G., proposto da:
PROCURA GENERALE della REPUBBLICA presso la CORTE di APPELLO di TORINO, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa Marilinda Minaccia;
– ricorrente incidentale –

contro

Avvocato G. L., nella qualità di curatore speciale del minore E. R. W., elettivamente domiciliato in Roma, Via Nomentana n. 257, presso lo studio dell’Avv. DOSI Gianfranco che lo rappresenta e difende in forza di procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrente incidentale-

nonchè C. G. e S. R.;
– intimati incidentali-

avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino n. 1319/2004 pronunciata il 14 luglio 2004 e pubblicata il 16 agosto 2004.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 31 maggio 2005 dal Consigliere Dott. Paolo Giuliani.
Udito il difensore del controricorrente principale ed incidentale.
Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARTONE Antonio, il quale ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Svolgimento del processo

Con ricorso in data 3 marzo 2003, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Torino chiedeva a tale Giudice di aprire la procedura tesa alla dichiarazione in stato di adottabilità del minore E. R. W., il quale, nato a Rabat il 31 dicembre 2002 senza essere stato riconosciuto dai genitori, risultava trasferito in Italia ad opera dei coniugi G. C. e R. S., dopo che questi ultimi ne avevano ottenuto l’affidamento, ovvero la custodia, in applicazione dell’istituto di diritto islamico della kafalah, dal locale Tribunale del Marocco mediante provvedimento del 27 gennaio 2003, ancorchè i predetti fossero, tuttavia, privi del visto di ingresso per il neonato nel territorio dello Stato a scopo di adozione, essendone stato il rilascio denegato dall’Autorità consolare italiana presso il Paese di origine del neonato stesso, nonchè della relativa autorizzazione della Commissione per le adozioni internazionali.
L’indicato Giudice minorile, a mezzo decreto in data 5 marzo 2003, disponeva l’apertura della procedura di cui sopra, ordinando l’allontanamento del minore dai coniugi C. ed il suo inserimento in una comunità, quindi, con successivo decreto del 16 luglio 2003, ne dichiarava lo stato di adottabilità, ritenendo evidente il suo stato di abbandono siccome neppure riconosciuto dai genitori naturali.
Avverso la decisione, proponevano opposizione i nominati coniugi, preliminarmente affermando la loro legittimazione, sulla base del già menzionato provvedimento del Tribunale di Rabat, nonchè deducendo la contrarietà ai principi di cui agli artt. 24 e 30 della Costituzione della norma contenuta nella L. del 1983, n. 184, art. 17, là dove quest’ultima fosse stata interpretata restrittivamente sul punto.
Il medesimo Giudice minorile, con sentenza del 23 gennaio 2004, dichiarava l’inammissibilità dell’opposizione, argomentando nel senso che gli opponenti non rientrassero nelle categorie dei legittimati, non essendo nè genitori nè parenti del minore e non risultando, del resto, pur in relazione al già richiamato provvedimento del Tribunale marocchino, titolari di una posizione equiparabile a quella del tutore.
Avverso tale sentenza, spiegavano appello i coniugi C., riproponendo le argomentazioni relative alla loro legittimazione e ribadendo, nel merito, l’insussistenza di una situazione di abbandono del minore.
La Corte territoriale di Torino, nella sua specializzata composizione per i minorenni, con sentenza in data 14 luglio/16 agosto 2004 respingeva l’appello, confermando la pronuncia impugnata.
Assumeva detto Giudice:
a) che, pacifici essendo i fatti di causa ed avendo, in particolare, gli appellanti effettivamente avuto l’affidamento del minore a seguito del provvedimento del Tribunale marocchino in data 27 gennaio 2003, il quale ne aveva loro attribuito la custodia secondo l’istituto della kafalah non fosse in discussione l’applicabilità della legge processuale italiana, avuto riguardo al dettato della L. del 1995, n. 218, art. 12, onde doveva farsi riferimento della L. del 1983, n. 184, art. 17, ed alla relativa indicazione dei soggetti legittimati a proporre opposizione;
b) che, anche a volere riconoscere efficacia al provvedimento del Giudice di Rabat, gli appellanti, i quali non erano ovviamente nè genitori nè parenti del minore, non fossero tutori di questo nè potessero definirsi tali;
c) che, infatti, sulla base della stessa legge marocchina, la kafalah conferisse agli affidatari un potere-dovere di custodia, a tempo sostanzialmente indeterminato, dai contenuti educativi di un vero e proprio affidamento preadottivo, senza tuttavia attribuire tutela nè rappresentanza legale, restando i relativi poteri demandati, in Marocco, al governatore della prefettura (denominato wali) ed, in Italia, al Console di quel Paese;
d) che la disposizione di cui alla L. del 1983, n. 184, art. 17, così come interpretata ed applicata, non si ponesse in contrasto con principi costituzionali, trovando in questi ultimi riconoscimento soltanto il rapporto di genitorialità naturale e non potendo ogni altro interesse venire in considerazione, là dove, del resto, tutti i diritti in gioco risultavano rappresentati e tutelati;
e) che neppure fosse condivisibile l’assunto secondo cui, essendo i coniugi C. legittimati a proporre reclamo avverso i provvedimenti antecedenti quello di adottabilità, figurava così riconosciuta la loro legittimazione ad interloquire sullo stato di adottabilità, dal momento che il decreto relativo era stato emesso quando gli interessati non avevano più alcun rapporto con il minore e la questione inerente al loro affidamento era stata già decisa, in grado di appello, in senso negativo all’affidamento medesimo.
Avverso tale sentenza, propongono separati ricorsi per Cassazione, da un lato, il C. e la S., nonchè, dall’altro lato, la Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Torino, deducendo, in entrambi i casi, due motivi di gravame ai quali resiste mediante unico controricorso l’Avv. L. G. nella qualità di curatore speciale del minore.

Motivi della decisione

Deve, innanzi tutto, essere ordinata, ai sensi del combinato disposto degli artt. 333 e 335 c.p.c., la riunione di entrambi i ricorsi, relativi ad altrettante impugnazioni separatamente proposte contro la medesima sentenza.
Siffatti ricorsi, i quali involgono la trattazione di questioni strettamente connesse, giova che vengano esaminati congiuntamente.
Con il primo motivo di impugnazione, dunque, lamentano i ricorrenti C. e S. violazione di legge, in riferimento alla L. del 1983 n. 184, art. 17, assumendo:
a) che, ad avviso della Corte territoriale, i nominati coniugi non rientrano tra i soggetti elencati dalla L. del 1983 n. 184, art. 17, quali legittimati attivi al ricorso in opposizione avverso la dichiarazione in stato di adottabilità del minore per cui è causa, avendo in particolare tale Giudice ritenuto che la figura dei predetti non sia assimilabile a quella del tutore, in base alle caratteristiche ed alle facoltà che l’istituto della kafalah conferisce al kafil, sul rilievo che quest’ultimo, per il compimento di alcuni atti, risulterebbe sottoposto al controllo e/o all’autorizzazione di un’Autorità, denominata wali, che, in caso di espatrio del minore, viene vicariata dal locale Consolato del Regno del Marocco;
b) che, in realtà, la stessa figura del tutore prevista dal nostro ordinamento conosce un’analoga soggezione al controllo e/o all’autorizzazione di un’Autorità sovraordinata (il Giudice Tutelare) per il compimento di numerosi atti;
c) che al predetto kafil viene attribuita, almeno in parte, la potestà sul minore, secondo quanto recita il decreto di nomina dei custodi del minore in data 28 gennaio 2003;
d) che il fatto, poi, che tale potestà non sia sovrana ed esclusiva, bensì soggetta a controlli ed autorizzazioni, non lo differenzia affatto dalla figura del tutore del nostro ordinamento (legittimato attivo ai sensi della L. del 1983, art. 17, n. 184), ma, anzi, lo assimila ancor più;
e) che, qualora emerga una figura, sconosciuta al legislatore del 1983, che tuttavia soddisfa alcuni dei criteri ispiratori di quest’ultimo, tale soggetto può e deve essere annoverato tra i legittimati all’opposizione;
f) che, a ben vedere, la figura del kafil ha molti più elementi in comune con i soggetti inclusi nell’elenco di cui alla L. del 1983 n. 184, art. 17, che non con quelli esclusi, risultando perfettamente assimilabile alla figura del tutore del nostro ordinamento, il quale esercita la potestà genitoriale ed è soggetto al controllo ed alle eventuali autorizzazioni di un’Autorità sovraordinata;
g) che, in definitiva, la lettera e la ratio del richiamato art. 17 vengono rispettate e salvaguardate solo ritenendo assimilabile la figura del kafil ad uno o più soggetti individuati dalla L. del 1983 n. 184, art. 17 e, quindi, ammettendone la legittimazione attiva ad opporsi alla dichiarazione di adottabilità del minore avuto in custodia.
Con il secondo motivo di impugnazione, lamentano ancora i ricorrenti C. e S. violazione di legge, in riferimento alla L. del 1953 n. 87, artt. 23 e 24, per il mancato rilievo dell’eccezione di illegittimità costituzionale della L. del 1983 n. 184, art. 17, deducendo: a) che i predetti ricorrenti hanno sostenuto, in entrambi i gradi di giudizio, che, qualora l’elencazione dei soggetti legittimati all’opposizione, contenuta nella L. del 1983 n. 184, art. 17, dovesse ritenersi tassativa ed incompatibile con la legittimazione attiva degli esponenti, si profilerebbe una manifesta illegittimità costituzionale della norma, in primo luogo rispetto all’art. 24 della Costituzione, poichè verrebbe leso il diritto dei coniugi C.-S. a tutelare in giudizio la propria posizione di “custodi” del minore in base ad un legittimo provvedimento dell’Autorità straniera competente, nonchè l’interesse del minore loro affidato, nei cui confronti hanno contratto precisi obblighi, in secondo luogo rispetto agli artt. 30 e 31 della stessa Costituzione, essendosi osservato come il provvedimento del Tribunale del Marocco, disconosciuto dal Giudice minorile italiano, avesse la funzione di garantire l’assolvimento dei compiti genitoriali riguardo al minore in questione, onde negare ai predetti coniugi la legittimazione ad opporsi costituisce altresì un’aperta violazione della tutela dell’infanzia, sancita dall’art. 31, comma 2, della Carta fondamentale;
b) che la L. del 1983 n. 184, art. 17, viola tali principi là dove si ritenga che la lettera della disposizione in parola precluda il riconoscimento della legittimazione in capo agli unici soggetti investiti formalmente della responsabilità giuridica di provvedere a tempo indeterminato al minore;
c) che, sotto un terzo ed ulteriore profilo, si è poi rammentato come anche le norme delle Convenzioni internazionali abbiano valenza costituzionale, in forza dell’espresso rimando operato dall’art. 10 della Costituzione, onde le palesi violazioni della Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 (art. 16, lettera “b”; art. 17, lettera “e”; art. 21, lettera V) individuano altrettanti profili di illegittimità costituzionale L. del 1983 n. 184, art. 17 in esame, se si ritiene che la norma non possa essere interpretata in modo da riconoscere la legittimazione attiva degli esponenti;
d) che la Corte territoriale, nel giudicare infondate le eccezioni prospettate, ha fornito una motivazione tanto incongrua da risultare tecnicamente inesistente, siccome relativa ad una generica ragionevolezza della norma la quale, nell’ambito del legittimo potere discrezionale spettante al legislatore, avrebbe volutamente attribuito la facoltà di opporre il provvedimento dichiarativo dell’adottabilità ad una ristretta cerchia di soggetti, laddove l’argomento avrebbe un pregio soltanto se il medesimo legislatore, nel 1983, avesse avuto presente la figura del kafil, onde, non essendo stato così, l’argomento risulta del tutto inconferente.
Con il primo motivo di impugnazione, lamenta, poi, la Procura Generale della Repubblica di Torino violazione per falsa applicazione della L. del 1983, n. 184, art. 17, nonchè della L. del 1991 n. 176, art. 20 e della L. del 1995, n. 218, artt. 15, 66 e 67, deducendo:
a) che la Corte territoriale ha errato nell’applicare ad un minore di nazionalità marocchina L. del 1983, n. 184, art. 17, il quale costituisce parte integrante della disciplina italiana in tema di adozione legittimante, siccome contrario all’ordine pubblico dello Stato del Marocco;
b) che, infatti, il criterio normativo per valutare la sussistenza o meno della legittimazione dei coniugi C. all’opposizione al decreto di adottabilità del minore doveva essere trovato aliunde e, segnatamente, nei principi generali del diritto processuale italiano (art. 100 c.p.c.) in collegamento con della L. del 1995, n. 218, art. 15, secondo cui la legge straniera è applicata secondo i propri criteri di interpretazione;
c) che il legittimo provvedimento straniero di affidamento del minore ai coniugi C. secondo l’istituto della kafalah, il quale, in base ai criteri di interpretazione della legge del Marocco, è costitutivo di un legame interpersonale ed affettivo sicuramente diverso e più intenso rispetto all’istituto italiano dell’affidamento familiare, deve essere considerato tale da fondare quell’interesse che legittima l’opposizione dei predetti coniugi;
d) che il mancato riconoscimento, da parte della Corte territoriale, del provvedimento del Tribunale di Rabat (quanto meno ai fini della legittimazione ad agire dei coniugi C.) contrasta con la legge (del 1991, n. 176) di ratifica ed esecuzione della Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989, la quale, agli artt. 20 e 21, prevede espressamente la rilevanza giuridica dell’istituto della kafalah di diritto islamico;
e) che la Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993, ratificata dall’Italia con la L. del 1998, n. 476, la quale ha modificato la L. del 1983, n. 184, formulando quegli articoli che la Corte territoriale ha applicato nella presente causa, pur ispirandosi ai principi della Convenzione di New York sopra richiamata, si limita a contemplare soltanto le adozioni che determinano un legame di filiazione;
f) che, di conseguenza, la citata L. del 1998, n. 476, non fa alcun riferimento ad istituti di protezione del minore diversi dall’adozione legittimante e, modificando gli artt. da 29 a 43 della L. del 1983, n. 184, ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo procedimento per le adozioni internazionali ed ha altresì previsto la possibilità di riconoscere in Italia provvedimenti pronunziati all’estero, con il perfezionamento e/o la regolarizzazione della procedura non impostata inizialmente secondo i dettami dell’iter ordinario, ma pur sempre nella sola prospettiva dell’adozione legittimante (artt. 35 e 36 c.c.);
g) che, pertanto, poichè il Marocco, la cui legislazione è applicabile al minore in quanto sua legge nazionale (della legge di ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, art. 7,), non solo non è uno Stato firmatario della Convenzione dell’Aja, ma è altresì uno Stato che esclude dal proprio ordinamento l’adozione legittimante, non è pensabile che al predetto minore possa essere imposta, in contrasto con l’art. 10, comma 2, della Costituzione, la legge attuativa della Convenzione richiamata da ultimo, la quale si riferisce solo a quei Paesi che ritengano conforme al proprio ordinamento la forma dell’adozione;
h) che, quindi, se nel caso di specie non possono trovare applicazione nè la suindicata Convenzione dell’Aja nè la relativa legge di attuazione, laddove Italia e Marocco sono due Stati che hanno entrambi sottoscritto la Convenzione di New York, si dovrà necessariamente fare riferimento alla Convenzione di New York, all’art. 20, di quest’ultima Convenzione, nel quale è espressamente prevista la kafalah, ritornando così all’applicazione della L. del 1995, n. 218, in base alla quale la legge straniera è applicata secondo i propri criteri di interpretazione (art. 15 c.c.) ed i provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione sono riconosciuti senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento (artt. 66 e 67 c.c.).
Con il secondo motivo di impugnazione, lamenta ancora la Procura Generale della Repubblica di Torino violazione per falsa applicazione della L. del 1983, n. 184, art. 17, nonchè violazione per errata interpretazione della L. del 1983, n. 184, art. 17, art. 33, come modificata dalla L. del 1998, n. 476, deducendo:
a) che la legittimazione dei coniugi C. all’opposizione, per erronea applicazione della medesima L. n. 184/1983, art. 17, sussiste anche qualora si volesse ritenere, come ha fatto la Corte territoriale, che si debbano invece applicare le norme italiane sull’adozione internazionale e, segnatamente, della richiamata L. n. 184/1983, art. 33, come modificato dalla L. del 1998, n. 476;
b) che la norma prevede due ipotesi tra loro diverse ed alternative, la prima delle quali si riferisce al caso di minore accompagnato da un terzo estraneo o, comunque, in sostanziale situazione di abbandono, mentre la seconda si riferisce a tutti i casi di presenza irregolare, ovvero di minore non munito del visto di ingresso, ma non in situazione di reale abbandono, in quanto accompagnato da persona legittimamente investita all’estero della sua cura;
c) che la Corte territoriale, affermando che, ogni qual volta entri in Italia un minore straniero non munito di visto di ingresso a scopo di adozione legittimante, il giudice minorile deve provvedere ai sensi dell’art. 37 bis c.c., ossia deve applicare la legge italiana in tema di adozione legittimante, compresa la L. del 1983, n. 184, art. 17, con la sua drastica riduzione dei legittimati all’opposizione avverso il provvedimento che dichiara lo stato di adottabilità, ha dato alla disposizione del sopra richiamato art. 33 c.c. un’interpretazione errata e fuorviante; d) che l’erronea applicazione L. del 1983, n. 184, art. 17, è scaturita dal ritenere che, nel caso di specie, si dovesse provvedere ai sensi dell’art. 37 bis (presupposto di applicabilità della L. del 1983, n. 184, art. 17), anzichè procedere ai sensi dell’ultima parte dell’art. 33 c.c., comma 5, ovvero prendere contatto con il Paese di origine del minore e procedere ai sensi della L. n. 184 del 1983, artt. 34 e segg..
I quattro motivi non sono fondati.
La Corte territoriale, con apprezzamento di per sè incensurato, ha riconosciuto che “la questione preliminare” devoluta al suo esame (e, quindi, affrontata dalla stessa Corte) “riguarda la legittimazione dei signori C. e S. a proporre opposizione” (avverso il decreto mediante il quale il Tribunale per i Minorenni di Torino ha dichiarato lo stato di adottabilità del minore E. R. W.) e, conseguentemente, “la ammissibilità della opposizione proposta” dai coniugi sopra nominati, onde è esattamente di una simile legittimazione che “si discute”, denegata dal primo Giudice così da pervenire ad una declaratoria di inammissibilità dell’opposizione anzidetta.
Muovendo da tale premessa, la Corte di merito ha, quindi, affermato che “non è in discussione l’applicazione della legge processuale italiana (e segnatamente) l’applicabilità della L. del 1983, n. 184, art. 17, che indica, in modo tassativo, i soggetti legittimati a proporre opposizione alla dichiarazione di adottabilità”.
In proposito, conviene osservare:
a) che la disposizione citata da ultimo riveste indubitabilmente carattere processuale, secondo quanto traspare dal fatto stesso che la regolamentazione contenuta nel testo originario del richiamato dalla L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 17, deve ritenersi tuttora in vigore, nonostante l’avvenuta modifica ai sensi della L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 16, entrata in vigore il 27 aprile 2001, giacchè tale modifica legislativa, limitatamente appunto alle disposizioni “processuali”, è rimasta sospesa per effetto della norma transitoria di cui al D.L. 24 aprile 2001, n. 150, art. 1, convertito, con modificazioni, nella L. 23 giugno 2001, n. 240, il cui termine di efficacia, dapprima fissato al 30 giugno 2002, è stato ripetutamente prorogato (al 30 giugno 2003, in forza del D.L. 1 luglio 2002, n. 126, convertito, con modificazioni, nella L. 2 agosto 2002, n. 175, quindi al 30 giugno 2004, in forza del D.L. 24 giugno 2003, n. 147, convertito, con modificazioni, nella L. 1 agosto 2003, n. 200, poi al 30 giugno 2005, in forza del D.L. 24 giugno 2004, n. 158, convertito, con modificazioni, nella L. 27 luglio 2004, n. 188), da ultimo al 30 giugno 2006, in forza del D.L. 30 giugno 2005, n. 115, convertito, con modificazioni, nella L. 17 agosto 2005, n. 168 (Cass. 6 marzo 2003, n. 3333; Cass. 23 novembre 2003, n. 19862; Cass. 3 giugno 2004, n. 10570; Cass. 2 novembre 2004, n. 21054);
b) che, in applicazione del principio di territorialità riaffermato dalla L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 12, il processo civile che si svolge in Italia è regolato dalla legge italiana, onde è a quest’ultima legge (e, in seno ad essa, alla richiamata L. del 1983, n. 184, art. 17, nei termini sopra indicati) che occorre fare riferimento per apprezzare, riguardo ad un giudizio (come quello di specie) che si svolge appunto in Italia, un profilo del genere di quello, aderente al caso in esame, il quale attiene ad una fase (di opposizione cioè) del processo disciplinata dalla medesima legge italiana e, segnatamente, ai requisiti (di legittimazione all’opposizione anzidetta) che ineriscono allo svolgimento stesso del rapporto processuale;
c) che, del resto, l’applicabilità delle norme italiane le quali regolano la procedura per la dichiarazione di adottabilità del minore è desumibile altresì dal fatto, opportunamente segnalato in dottrina, che la L. del 1983 n. 184, art. 37 bis, aggiunto dalla L. 31 dicembre 1998, n. 476, art. 3, comma 1, (recante ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori fatta all’Aja il 29 maggio 1993), ha sostituito l’art. 37 della medesima L. del 1983, n. 184, senza peraltro introdurre alcuna modifica, nemmeno dal punto di vista letterale, al dettato di quest’ultima disposizione, onde, là dove prevede, nel testo odierno, che “al minore straniero che si trova nello Stato in situazione di abbandono si applica la legge italiana in materia di adozione, di affidamento e di provvedimenti necessari in caso di urgenza”, è da ritenere (restando così assorbita la questione relativa all’inapplicabilità della Convenzione dell’Aja sopra menzionata e della L. del 1998, n. 476, che a detta Convenzione, non sottoscritta dallo Stato del Marocco, ha dato attuazione) che, anche sotto il profilo processuale, possa continuarsi ad applicare, come prima della riforma di cui alla citata L. del 1998, n. 476, art. 37 (nel previgente testo) della L. n. 184/1983 (ulteriormente suffragato dal tenore del vigente della L. del 1995, n. 218, art. 40, comma 1, lettera “b”, dettato in materia di giurisdizione, secondo quanto, d’altra parte, già affermato da questa stessa Corte con indirizzo risalente: Cass. 19 gennaio 1988, n. 392; Cass. 3 febbraio 1992, n. 1128; Cass. 4 novembre 1996, n. 9576), il cui ambito deve considerarsi esteso, oltre che ai casi specifici di richiamo contenuti nei precedenti (e previgenti) artt. 33 c.c., comma 3 e art. 34 c.c., comma 4, altresì ai casi nei quali, nonostante i divieti posti dall’autorità consolare di concedere il visto all’ingresso nello Stato (art. 35 c.c., comma 1), nonchè il divieto agli uffici di frontiera di consentirne l’ingresso, il minore si trovi di fatto sul territorio italiano senza che sia stato accertato lo stato di abbandono, oppure sia privo di un’autorizzazione all’espatrio a scopo di adozione rilasciata dalle competenti autorità del Paese di origine;
d) che il contenuto internazional-privatistico, sotto il profilo processuale, della L. del 1983, n. 84, già richiamato art. 37 (vecchio testo) neppure risulta contrario a norme internazionali di natura convenzionale e, segnatamente, agli artt. 20 e 21 della Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. 27 maggio 1991, n. 176, atteso che l’espressa previsione, nella prima delle due disposizioni sopra citate, “della kafalah di diritto islamico” (art. 20 c.c., comma 3) come forma di “protezione sostitutiva” cui ha diritto “ogni fanciullo il quale è temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare oppure che non può essere lasciato in tale ambiente nel suo proprio interesse” (art. 20 c.c., comma 2 e 1), sta a significare il richiamo, di natura sostanziale, ad uno degli istituti (la kafalah appunto) attraverso i quali, al pari della “sistemazione in una famiglia, dell’adozione o, in caso di necessità, del collocamento in un adeguato istituto per l’infanzia” (art. 20 c.c., comma 3), “gli Stati parti” possono realizzare tale protezione sostitutiva, laddove la riportata disposizione non interferisce minimamente con la disciplina, di carattere processuale, che regola le modalità di concreta applicazione della protezione sostitutiva anzidetta e che, relativamente alla dichiarazione dello stato di adottabilità dei minori, preliminare rispetto all’intervento dell’adozione vera e propria, accolta nel nostro ordinamento, è e resta contenuta nella legge italiana.
Posto, quindi, che del tutto correttamente la Corte di merito ha fatto applicazione del disposto della più volte citata L. del 1983, n. 184, art. 17 (nel testo, per le ragioni accennate all’inizio, anteriore alle modifiche introdotte della L. del 2001, n. 149, art. 16), il quale, al primo comma, legittima a proporre ricorso avverso il provvedimento sullo stato di adottabilità (dinanzi allo stesso tribunale che lo ha pronunciato, entro trenta giorni dalla notificazione) “il pubblico ministero, i genitori, i parenti indicati nell’art. 12 c.c., comma 1 (ai quali deve pure essere notificato, ai sensi della L. del 1983, n. 184, art. 15, il decreto che pronuncia l’adottabilità), il tutore”, si osserva come detto Giudice abbia escluso che i coniugi C., non risultando “ovviamente … nè genitori nè parenti del minore”, siano “tutori” di quest’ultimo possano “definirsi tali”.
Un simile assunto è stato dalla medesima Corte fondato sui rilievi secondo i quali:
a) gli appellanti hanno sostenuto di essere legittimati in forza del provvedimento del 27 gennaio 2003, emesso dal Giudice marocchino (Tribunale di Rabat), che ha loro attribuito la custodia del minore secondo l’istituto della kafalah; b) effettivamente i signori C. ebbero in affidamento il minore, in Marocco, in modo del tutto regolare;
c) l’affermazione di cui alla sentenza impugnata, secondo la quale al provvedimento del Tribunale di Rabat non può essere riconosciuta efficacia nel nostro ordinamento, in quanto contrario ai principi fondamentali del diritto di famiglia in generale e di quello delle adozioni in particolare, non può essere condivisa;
d) tuttavia, anche a volere riconoscere efficacia al provvedimento del Giudice di Rabat e, anzi, proprio in base alla legge marocchina (applicabile, quale legge nazionale del minore, in tema di rappresentanza), i coniugi C. “non sono tutori del minore nè possono definirsi tali”;
e) l’istituto della kafalah, infatti, previsto dalla stessa legge marocchina quale strumento di protezione dell’infanzia e, come tale, riconosciuto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989, attribuisce agli affidatali un potere- dovere di custodia, a tempo sostanzialmente indeterminato, con i contenuti educativi di un vero e proprio affidamento preadottivo, ma non attribuisce tutela nè rappresentanza legale, nel senso esattamente che, mentre dal punto di vista sostanziale vuole realizzare una vera e propria presa in carico educativa da parte degli affidatari, ben paragonabile al contenuto del nostro affidamento familiare, dal punto di vista giuridico-formale non intende trasferire anche la tutela, giacchè, così, verrebbe contraddetto il principio, cui quella legislazione tiene particolarmente, che non debba mai venire perduto il legame del minore con le proprie origini, onde è “una Autorità marocchina che ha il potere tutelare” e, precisamente, il governatore della prefettura, denominato wali, cui spetta appunto la tutela dei minori in stato di abbandono, laddove, se viene autorizzato l’espatrio del minore, la tutela stessa viene attribuita al Console del Marocco competente per l’area dove il minore e la famiglia affidataria risiedono;
f) le Autorità, dunque, che hanno compiti di tutela sono ben distinte rispetto agli affidatari e tale risulta, quindi, anche il caso del piccolo Wahib, il cui tutore figura costituito dall’Autorità che un simile ruolo esercita in Marocco ed, in Italia, dal Console marocchino;
g) è, in definitiva, proprio la legislazione di quest’ultimo Paese a distinguere le figure dell’affidatario (o mero affidatario, colui, cioè, che espressamente viene sempre chiamato “custode”) e del rappresentante legale;
h) sia i coniugi C. sia le Autorità marocchine hanno, del resto, sempre tenuto a precisare che la kafalah, dal punto di vista giuridico, attribuisce una “custodia” appunto del minore, assimilabile, come istituto, a quello dell’affidamento, tanto vero che i predetti coniugi, anche nelle traduzioni ufficiali, sono sempre indicati come “affidatari”, o “custodi”, distinti dal tutore, laddove i medesimi hanno, tra gli altri documenti, esibito “l’autorizzazione del tutore ad ottenere il passaporto e ad espatriare l’affidato all’estero” (onde, quando già i sopra nominati C. erano formalmente affidatari o custodi del minore, era pur sempre necessario l’intervento di un “tutore”, diverso da loro, per consentire all’espatrio in questione), essendosi, peraltro, definiti sempre come “affidatari” ed avendo assunto di essere “custodi” del bambino in forza del provvedimento del Giudice del Marocco.
Così argomentando, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del disposto della L. del 1995, n. 218, art. 15 il quale, prevedendo che la legge straniera è applicata secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo, ha inteso conservare la qualità di norme straniere alle leggi di un altro Stato anche quando sono operanti nell’ordinamento italiano in forza delle norme di diritto internazionale privato, ciò comportando che il diritto straniero deve essere interpretato ed applicato “in quanto sistema giuridico”, ossia nella sua globalità e nella dimensione in cui esso si fa diritto vivente, con l’obbligo, per il giudice nazionale, di avvalersi di tutti gli strumenti interpretativi posti dall’ordinamento straniero, ovvero di interpretare ed applicare la legge straniera come se fosse un giudice dello Stato cui la legge stessa appartiene, facendo riferimento ai canoni interpretativi generali esistenti in quell’ordinamento ed, in particolare, ai criteri ermeneutici ed alle regole temporali dettate da quella legislazione (Cass. 26 febbraio 2002, n. 2791).
Esattamente, quindi, detto Giudice, avendo proceduto ad una interpretazione della legge nazionale straniera, nella sua globalità, del tutto conforme al dato testuale e non contrastata da profili di illogicità o arbitrarietà, così da poter essere ritenuta la più rispondente ai principi di ordine pubblico internazionale ed interno (senza che possa, evidentemente, venire in considerazione, essendo del tutto irrilevante, alcun profilo di contrarietà “all’ordine pubblico dello Stato del Marocco”), è addivenuto alla conclusione che gli odierni ricorrenti principali, “proprio in base alla legge marocchina, … non sono tutori del minore nè possono definirsi tali”, restando del tutto distinta, in base a siffatta legislazione, la figura dell’affidatario rispetto alla figura del rappresentante legale, là dove, cioè, l’istituto della kafalah attribuisce una “custodia” del minore, assimilabile, come concetto giuridico, alla figura dell’affidamento, senza, tuttavia, attribuire allo stesso affidatario alcuna tutela, demandata invece espressamente ad altra Autorità, ovvero, in Marocco, al governatore della prefettura (denominato wali) e, all’estero, al Console marocchino.
Ne consegue che la Corte di merito non è incorsa neppure nella violazione della L. del 1983, n. 184, art. 17 avendo correttamente escluso la legittimazione a proporre opposizione avverso la dichiarazione di adottabilità, in capo ai medesimi ricorrenti principali, sulla base dell’implicito convincimento che una simile legittimazione non competa a chi (come appunto i coniugi C., in esito ai rilievi che precedono) non risulti essere tutore del minore nè trovarsi in una posizione ad esso equiparabile, là dove il titolare (ove pure) di un potere di custodia “assimilabile, come concetto giuridico, a quello di affidamento” è da ritenere, al pari degli affidatari (ancorchè in preadozione) del minore stesso riconosciuti dal diritto interno, legittimato a spiegare intervento solo adesivo dipendente (e, quindi, non per la prima volta in appello), in quanto portatore non di un proprio diritto in conflitto con l’oggetto del giudizio di opposizione alla dichiarazione di adottabilità, ma di un mero interesse a non vedere pregiudicata la propria aspettativa all’adozione, onde, qualora esso sia intervenuto, non può impugnare in via autonoma e principale, ma solo in via incidentale adesiva rispetto all’impugnazione eventualmente proposta dalla parte adiuvata, salva restando la convertibilità dell’una nell’altra impugnazione, considerando come principale l’impugnazione di detta parte adiuvata (Cass. 28 marzo 1991, n. 3353; Cass. 10 giugno 1996, n. 5351; Cass. 16 maggio 2002, n. 7180).
Nè una simile interpretazione si palesa tale da rendere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. del 1983, n. 184, art. 17 (là dove quest’ultima disposizione venga intesa nel senso, accolto dal Giudice del merito e condiviso da questa Corte, che non consenta la legittimazione attiva di soggetti diversi da quelli ivi indicati a proporre opposizione contro il provvedimento dichiarativo dello stato di adottabilità) ribadita dagli odierni ricorrenti principali in relazione agli artt. 24, comma 1, art. 30, comma 2, art. 31, comma 2 e art. 10, comma 2, della Costituzione.
L’oggetto, infatti, del giudizio per la dichiarazione in stato di adottabilità è costituito dall’accertamento della situazione di abbandono nella quale i minori versino “perchè privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi” (L. del 1983, n. 184, art. 8, comma 1, non modificato dalla L. del 2001, n. 149, art. 8).
Appare, perciò, del tutto ragionevole che il legislatore, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali circa l’individuazione dei soggetti che possono proporre opposizione avverso la dichiarazione anzidetta, ne abbia circoscritto il novero: a) al Pubblico Ministero, ovvero all’organo deputato alla tutela dell’interesse pubblico alla salvaguardia dei minori;
b) ai genitori ed ai parenti, ovvero ai soggetti i quali intendano conservare il vincolo di sangue che li lega al minore;
c) al tutore, ovvero al soggetto che del minore stesso ha la rappresentanza legale.
Per converso, secondo quanto accennato, l’affidatario, ancorchè preadottivo, risulta portatore non di un proprio diritto in conflitto con l’oggetto del giudizio di adottabilità, ma di un mero interesse a non vedere pregiudicata la propria aspettativa all’adozione, onde può spiegare solo intervento adesivo dipendente, senza che con ciò:
a) appaia non manifestamente infondata, in riferimento all’art. 24, comma 1, della Costituzione, il quale prevede che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi e che concerne, quindi, le anzidette situazioni giuridiche soggettive (diritti e interessi legittimi appunto), la questione di legittimità costituzionale di una norma di legge ordinaria, come esattamente quella contenuta nella L. del 1983, n. 184, art. 17, comma 1, la quale attui la necessaria differenziazione delle forme e dei modi della tutela giurisdizionale in relazione alla natura della posizione sostanziale dedotta, non ammettendo all’esperimento dell’opposizione avverso la dichiarazione dello stato di adottabilità soggetti, diversi da quelli ivi indicati e ad essi neppure assimilabili, che, al pari degli odierni ricorrenti principali, lungi dal risultare titolari di un proprio diritto in conflitto con l’oggetto di tale giudizio, volto a realizzare unicamente l’interesse del singolo minore all’inserimento in un valido nucleo familiare, siano portatori di un mero interesse a non vedere pregiudicata la loro aspettativa all’adozione;
b) appaia non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della medesima norma di legge ordinaria in riferimento all’art. 30, comma 2 ed all’art. 31, comma 2, della Costituzione, i quali prevedono, rispettivamente, che, “nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti” e che “la Repubblica … protegge … l’infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”, atteso che entrambe le riportate disposizioni si palesano dettate allo scopo di garantire l’interesse fondamentale del minore a godere, per una crescita armoniosa e per un migliore sviluppo della sua personalità in un sano ed equilibrato contesto educativo, di affetti individualizzati e continui, di ambienti non precari ma stabili ed armoniosi, di situazioni non conflittuali, assicurando, in particolare, al minore stesso la presenza di una famiglia sostitutiva quante volte risulti l’inidoneità della famiglia di origine ad assolvere ai propri compiti, onde la relativa tutela di rango costituzionale non può intendersi estesa a soggetti diversi, del genere appunto di quelli sopra indicati, la cui posizione giuridica sostanziale risulti eventualmente pregiudicata dalle modalità e dalle misure concretamente adottate dal legislatore per addivenire all’attuazione dell’interesse anzidetto;
c) risulti neppure rilevante la dedotta questione di legittimità costituzionale in riferimento al disposto dell’art. 10, comma 2, della Costituzione, stante la riconosciuta inapplicabilità, nel caso di specie, della Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993.
Pertanto, sia il ricorso principale sia il ricorso incidentale debbono essere rigettati.
La sorte delle spese del giudizio di cassazione, dovendosi escludere che possa sostenerne l’onere, pur nell’ipotesi di soccombenza, l’ufficio del Pubblico Ministero (Cass. 17 luglio 2003, n. 11191;
Cass. 12 marzo 2004, n. 5165; Cass. 22 novembre 2004, n. 21945), segue, rispetto ai ricorrenti principali (C. e S.) nei confronti del controricorrente (Avv. L. G., nella qualità di curatore speciale del minore), il combinato disposto degli art. 385, comma 1, e art. 97, comma 1, ultima parte, c.p.c., liquidandosi dette spese in complessivi euro 6.100,00, di cui euro 6.000,00 per onorario, oltre le spese generali (nella misura forfettaria del 12,50% sull’importo dell’onorario medesimo) e gli accessori (IVA e Cassa Previdenza Avvocati) di legge.

P. Q. M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta e condanna in solido i ricorrenti principali al rimborso in favore del controricorrente delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate in complessivi euro 6.100,00, di cui euro 6.000,00 per onorario, oltre le spese generali e gli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 31 maggio 2005.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2005