Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 24 Gennaio 2006

Sentenza 05 dicembre 2005, n.44295

Corte di Cassazione. Quinta Sezione Penale. Sentenza 5 dicembre 2005, n. 44295: “Ingiuria aggravata dalla finalità di discriminazione e di odio etnico, nazionale, razziale o religioso”.

(Omissis)

RILEVATO IN FATTO:

– che con l’impugnata sentenza, in conferma di quella di primo grado pronunciata dal tribunale di Trieste il 5 dicembre 2001, (…) venne ritenuto responsabile di rissa aggravata (art. 588, seconde comma, cod. pen.), lesioni volontarie aggravate (arti. 582, 585, 576 n. 1 e 61 n. 2 cod. pen.) ed ingiurie aggravate (artt., 594 cod, pen. e 3, comma primo, del D.L. 26 aprile 1993 o. 122 convertito con modifiche, in legge 25 giugno 1993 n. 205);

– che, per quanto riguarda il reato di ingiurie aggravate, esso era consistito, secondo l’accusa, nell’avere l’imputato proferito all’indirizzo di alcune straniere di origine colombiana espressioni quali: “sporche negre”, “cosa fanno queste negre qua”: il che, ad avviso della corte d’appello, dava luogo alla configurabilità della contestata
aggravante giacchè – si afferma — “l’obiettivo era la specifica indicazione dell’etnia di appartenenza delle ragazze e la loro condizione di emigrate di colore che le privava del diritto di rimanere in Italia e la frase adoperata denota chiaramente che l’aggressione fu motivata da intolleranza e risentimento razziale”; concetto, questo ribadito con l’ulteriore affermazione che il reiterato uso dell’espressione “negre” aveva “evidenziato il reale pensiero degli aggressori, mosso da finalità di odio razziale e/o etnico”;

– che avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione la difesa del (…), denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 3 del D.L. n. 122/1993 sull’assunto, in sintesi, che la corte di merito avrebbe apoditticamente ritenuto la sussistenza della contestata aggravante del reato di ingiuria (che altrimenti sarebbe stato non perseguibile per difetto di querela), senza verificare se l’imputato avesse realmente agito al fine di indurre altri a comportamenti discriminatori basati sull’odio razziale, come, in realtà, sarebbe richiesto per la configurabilità di detta aggravante;

CONSIDERATO IN DIRITTO:

– che l’art. 3, comma primo, del D.L. n. 122/1993, convertito con modifica in legge n. 205/1993, nel prevedere come circostanza aggravante, per quanto qui rileva, quella che il fatto sia stato commesso “per finalità di discriminazione e di odio etnico, nazionale, razziale o religioso”, mostra chiaramente come il legislatore abbia in questo caso attribuito rilevanza all’odio non in quanto semplice movente dell’azione ma appunto in quanto costituente finalità esterna della medesima, posta in rapporto di equivalenza con quella della discriminazione, giacché, altrimenti, avrebbe adoperato l’espressione “motivi”, indicativa non delle finalità ma delle pulsioni interne dell’agente, così come appare, ad esempio, nella formulazione dell’art. 6.1 n. 1 cod. pen, e, addirittura, in quella dell’art. 3, comma 1, lett. b), della legge 13 ottobre 1975 n. 654, quale riformulato proprio dall’art. 1 dello stesso D.L. n. 12271993, in cui si prevede come reato quello di chi “commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”; differenziazione, quest’ultima, che non può certo ritenersi, per il rispetto dovuto al legislatore, come derivante dal caso, per cui non può, l’interprete, non trarne le dovute conseguenze, nell’osservanza del primo e fondamentale dei criteri ermeneutici (quello basato sul “significato proprio delle parole”) dettati dall’art. 12, comma primo, delle preleggi; – che, pertanto, ai fini della configurabilità dell’aggravante in questione, non può considerarsi sufficiente che l’odio etnico, nazionale, razziale o religioso sia stato, più o meno riconoscibilmente, il sentimento che ha ispirato dall’interno l’azione delittuosa, occorrendo invece che questa, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno ed a suscitare in altri il suddetto, riprovevole sentimento o comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori per ragioni di razza, nazionalità, etnia o religione; principio, questo, da considerarsi tanto più valido in quanto, anche con riferimento al reato di cui al citato art. 3, comma 1, lett. b) della legge n. 654/1975, questa Corte, sez. III penale, in un passaggio motivazionale della sentenza 10 gennaio – 26 febbraio 2002 n. 7421, Orrù ed altri, ha puntualizza che, ai fini della verifica circa la sussistenza o meno di detto reato, occorre che il giudice valuti la condotta posta in essere dall’agente “nel suo contenuto non solo oggettivo, ma anche soggettivo, cercando di enucleare la finalità ispiratrice della condotta medesima”;

– che, oltre a ciò, occorre altresì tener presente che l’espressione “odio”, adoperata dal legislatore, ha un suo ben preciso significato, indicativo di un sentimento estremo di avversione implicante il desiderio del maggior male possibile per chi ne forma oggetto; ragion per cui non può, l’interprete, qualificare “sic et simpliciter”, come “odio” qualsiasi sentimento o manifestazione di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, sol perché riconducibile a motivazioni (per quanto censurabili esse possano essere ritenute), attinenti alla razza, alla nazionalità, all’etnia o alla religione, dovendo invece verificare, sulla base di elementi per quanto possibile obiettivi, se si sia o meno in presenza di vero e proprio “odio” nel senso dianzi indicato;

– che, infine, anche per quanto riguarda la nozione di “discriminazione”, essa, ai fini che qui interessano, non può essere intesa come riferibile a qualsivoglia condotta che sia o possa apparire contrastante con un ideale di assoluta e perfetta integrazione, non solo nei diritti ma anche nella pratica dei rapporti quotidiani, fra soggetti di diversa razza, etnia, nazionalità o religione, ma deve essere tratta esclusivamente dalla definizione che si rinviene nell’art. 1 della Convenzione di New York del 7 marzo 1966, resa esecutiva in Italia con la legge n. 654/1975, secondo cui (nel testo italiano), “l’espressione discriminazione razziale sta ad indicare ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica”; definizione, questa, che risulta poi ripresa, pressoché alla lettera, dall’art. 43, comma 1, del T.U. sull’immigrazione emanato con D.L.vo 25 giugno 1998 n. 286 e successive modificazione, il quale fa ad essa seguire, al comma 2, una serie di esemplificazioni che alla stessa definizione comunque si attaglino, senza in alcun modo modificarne il contenuto;

– che, nella specie, non può dirsi che ai suddetti principi si sia ispirato il giudice di merito, avendo esso ritenuto, come si rileva dal passo motivazionale sopra riportato in narrativa, che bastasse a rendere configurabile l’aggravante in questione il solo fatto che l’ “aggressione” (termine già poco confacente alla natura del reato di ingiurie, cui la detta aggravante si riferiva), fosse stata “motivata da intolleranza e risentimento razziale”, per quindi apoditticamente affermare che l’uso dispregiativo del termine “negre”, accompagnato da “altri epiteti ingiuriosi”, avrebbe rivelato “il reale pensiero degli aggressori, mosso da finalità di odio razziale e/o etnico”, laddove si sarebbe dovuto invece dimostrare, alla stregua dei sopra illustrati criteri di interpretazione della norma, come e perché non “il pensiero”, ma la condotta ingiuriosa addebitata all’imputato fosse da ritenere consapevolmente finalizzata e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile e suscitare in altri proprio quel sentimento di odio (e non altri di diversa natura o intensità quali la semplice avversione, l’antipatia, il disprezzo e simili), ovvero a dar luogo al concreto pericolo di immediati o futuri comportamenti discriminatori basati sulla differenza di razza e specificamente riconducibili alla surriportata definizione normativa di “discriminazione”;

– che, pertanto, l’impugnata sentenza non può che essere annullata, nel capo oggetto di ricorso, con rinvio, per nuovo esame, ad altra sezione della corte d’appello di Trieste la quale, in assoluta libertà di valutazione degli elementi di fatto acquisiti o che ritenesse di dover acquisire, dovrà tuttavia attenersi ai principi di diritto dianzi illustrati;

P. Q. M.

la Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di ingiuria, in relazione alla contestata aggravante, con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Trieste per nuovo esame.