Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 1 Aprile 2004

Sentenza 07 aprile 2003, n.17535

Cassazione Civile. Sentenza 7 aprile 2003, n. 17535.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 30 marzo 1998, G. V. conveniva davanti alla Corte di Appello di Catania M. O. R., chiedendo che venisse dichiarata l’efficacia, nel territorio dello Stato italiano, della sentenza emessa in data 11 aprile 1997 dal Tribunale ecclesiastico regionale siculo di Palermo, passata in giudicato, per mezzo della quale era stato dichiarato nullo, per difetto di consenso, il matrimonio concordatario celebrato l’11 agosto 1982 tra esso attore e la medesima R..
Quest’ultima, costituendosi, contestava la fondatezza della domanda, sostenendo che la pronuncia anzidetta non poteva essere dichiarata esecutiva in Italia siccome in contrasto con l’ordine pubblico ed, in subordine, chiedeva la corresponsione di una congrua indennità e degli alimenti dovuti ai sensi dell’art. 8, n. 2, della legge n. 121 del 1985.
La Corte adita, con sentenza del 22 ottobre/3 dicembre 1999, dichiarava esecutivi, agli effetti civili, la decisione sopra richiamata emessa dal Tribunale ecclesiastico regionale siculo di Palermo ed il decreto di ratifica del Tribunale ecclesiastico regionale campano di appello, disponendo in via provvisoria che il Vacirca corrispondesse alla
R. l’assegno mensile concordato tra le parti in sede di separazione consensuale.
Assumeva in particolare detto giudice:
a) che la richiesta di delibazione avanzata dal V. riguardasse una sentenza la quale aveva riconosciuto il difetto di consenso da parte dell’uomo, ma dichiarando espressamente che la donna era a conoscenza della mancanza di vera volontà matrimoniale dello sposo;
b) che pur valendo siffatta conclusione ad escludere la sussistenza degli elementi richiesti dall’art. 129-bis c.c. per il riconoscimento di una congrua indennità a favore del coniuge in buona fede ed a carico di quello responsabile della nullità del matrimonio, fosse assai dubbia la possibilità di far ricorso a simili elementi ai fini dell’adozione di provvedimenti economici provvisori, onde, per un verso, la relativa domanda di merito andava devoluta al giudice competente, laddove, per altro verso, pur nei limiti delle risultanze di causa, risultava evidente il pregiudizio che la R. ed il figlio con lei convivente avrebbero subito per effetto dell’improvvisa cessazione degli assegni di mantenimento concordati tra gli stessi coniugi in sede di separazione consensuale, apparendo così necessario conservare i suddetti emolumenti, pari a lire quattro milioni per la moglie e a lire tre milioni per il figlio.
Avverso tale sentenza, propone ricorso per cassazione la R., deducendo due motivi di gravame, cui resiste con controricorso il V. che, a propria volta, spiega ricorso incidentale affidato ad un solo motivo, al quale resiste la ricorrente principale con ulteriore controricorso:
ambo le parti hanno presentato memorie.

Motivi della decisione.

Deve innanzi tutto essere ordinata, ai sensi del combinato disposto degli artt. 333 e 335 c.p.c., la riunione di entrambi i ricorsi, siccome relativi ad altrettante impugnazioni separatamente proposte contro la stessa sentenza.
Con i due motivi di gravarne, del cui esame congiunto si palesa l’opportunità involgendo essi la trattazione di questioni strettamente connesse, se non addirittura identiche, la ricorrente principale denunzia quanto segue.
Con il primo motivo, lamenta violazione e/o errata interpretazione ed applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 1414, 2730 e 2697 c.c., in relazione agli artt. 112, 132 e 797 c.p.c. ed all’art. 8 della legge 25 marzo 1985, n. 121, assumendo:
a) che ha errato la Corte territoriale quando, recependo “in toto” il falso convincimento del Tribunale ecclesiastico regionale siculo, ha adottato il medesimo “iter” logico-deduttivo nel delibare la sentenza di quest’ultimo giudice pur in mancanza della prova della conoscibilità, in capo all’odierna ricorrente, dell’esclusione dell’indissolubilità del vincolo da parte del marito;
b) che la stessa Corte ha condotto una verifica meramente formale, giungendo a ritenere accertata la comune conoscenza dell’esclusione del vincolo di indissolubilità del matrimonio, che le parti andavano a contrarre, sulla base dell’inciso contenuto nella decisione sopra indicata, là dove si dice “La convenuta era a conoscenza della mancanza di vera volontà matrimoniale nello sposo”;
c) che non si comprende quale sia stata l’indagine condotta dalla Corte territoriale, dal momento che essa sembra fondarsi su mere presunzioni, piuttosto che in forza dell’accertamento richiesto e consentito, nell’ambito dello specifico procedimento “de quo”, circa la conoscenza o conoscibilità della riserva mentale dell’un coniuge da parte dell’altro, al fine di stabilire la contrarietà o meno della delibanda pronuncia all’ordine pubblico italiano in riferimento al principio di tutela dell’affidamento e della buona fede;
d) che, la motivazione adottata dalla Corte territoriale non mostra per nulla che il giudice italiano abbia compiuto il suo apprezzamento autonomo dei fatti accertati dalla sentenza ecclesiastica, ma denota piuttosto che tale indagine sia stata condotta in violazione od errata applicazione ed interpretazione dei precetti normativi di riferimento.
Con il secondo motivo di impugnazione, lamenta ancora la ricorrente principale omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., in relazione agli artt. 112, 132 e 797 c.p.c., nonché agli artt. 1414, 2730 e 2697 c.c. ed all’art. 8 della legge 25 marzo 1985, n. 121, deducendo:
a) che la Corte territoriale ha del tutto omesso di valutare diversi punti decisivi di tutta la controversia, con particolare riguardo all’inesistenza della comune riserva mentale circa l’indissolubilità del vincolo coniugale;
b) che le statuizioni della sentenza ecclesiastica e persino le affermazioni di alcuni testi della parte attrice nella sede anzidetta non sono state prese nella debita considerazione dai giudici di appello;
c) che, in difetto di prova della riserva mentale, il matrimonio, ancorché nullo o annullabile per l’ordinamento canonico, doveva restare valido nel foro esterno e la relativa pronuncia non poteva essere delibata, siccome in violazione della tutela della buona fede, intesa come espressione di ordine pubblico;
d) che la Corte territoriale ha sorvolato sulle riferite circostanze, non valutando come esse facevano ritenere non derogabile un’accurata ed autonoma indagine circa la mancata conoscenza o non conoscibilità in capo alla R. dell’esistenza di siffatta riserva mentale, non fornendo alcuna spiegazione del ragionamento adottato per giungere alla conclusione contraria e riportando al riguardo semplicemente un inciso della sentenza ecclesiastica, laddove la relativa espressione ivi adoperata, se lascia presumere un accertamento in tal senso ad opera di detto giudice, non mostra minimamente che quest’ultimo abbia compiuto il proprio prudente ed autonomo apprezzamento dei fatti di cui alla sentenza sopra indicata.

I due motivi non sono fondati.

Si osserva, al riguardo, che la declaratoria di esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico che abbia pronunciato la nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di uno solo dei coniugi, di uno
dei “bona matrimonii”, cioè per divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione, postula che tale divergenza sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questo in effetti conosciuta, ovvero che non gli sia stata nota esclusivamente a causa della sua negligenza, atteso che, qualora le menzionate situazioni non ricorrano, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà all’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va compreso il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole (Cass. 8 gennaio 2001, n. 198; Cass. 28 marzo 2001, n. 4457; Cass. 12 luglio 2002, n. 10143; Cass. 6 marzo 2003, n. 333), laddove, peraltro, se, da un lato, il giudice italiano è tenuto ad accecare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione anzidetta da parte dell’altro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profilo estraneo, in quanto irrilevante, al processo canonico, senza limitarsi al controllo di legittimità della pronuncia ecclesiastica di nullità, dall’altro lato la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alla pronuncia da delibare ed agli atti del processo medesimo
eventualmente acquisiti, opportunamente riesaminati e valutati, non essendovi luogo in fase di delibazione ad alcuna integrazione di attività istruttoria (Cass. 198/2001, cit.; Cass. 3339/2003, cit.), così che il convincimento del giudice di merito ai fini della decisione ed, in particolare, l’affermazione o l’esclusione, ad opera di quest’ultimo, che la riserva mentale di uno dei coniugi relativa ad uno dei “bona matrimonii” fosse conosciuta (o, comunque,
conoscibile con l’uso della normale diligenza) da parte dell’altro, costituisce, se motivata secondo un logico e corretto “iter” argomentativo, statuizione insindacabile in sede di legittimità (Cass. 2 settembre 1997, n. 8386; Cass. 4 luglio 1998, n. 6551).
Nella specie, giova notare come la Corte territoriale, chiamata ad esaminare l’eccezione della convenuta (odierna ricorrente principale) secondo cui la sentenza ecclesiastica da delibare sarebbe stata emessa in violazione dei principi di ordine pubblico risultando la pronuncia di nullità del matrimonio fondata sopra il “difetto di consenso da parte dell’uomo”, abbia ritenuto tale eccezione immeritevole di accoglimento, segnatamente assumendo:
a) che “la richiesta di delibazione avanzata dal V. riguarda una sentenza che ha riconosciuto il difetto di consenso ‘ex parte viri’, ma dichiarando espressamente, anche sulla base dell’esame di reciproche lettere (come si legge a pag. 4 della sentenza del Tribunale ecclesiastico siculo) che ‘la convenuta era a conoscenza della mancanza di vera volontà matrimoniale dello sposò”;
b) che “A pagina 28 della sentenza citata, infatti, dopo l’analisi delle deposizioni acquisite e delle lettere, specie della convenuta, si conclude espressamente per la esistenza di prove eclatanti, con valore di confessione extra giudiziale di entrambe le parti, circa il difetto di formazione del vero consenso matrimoniale”;
c) che “Anche limitandosi all’esame della sentenza delibanda…, non può non riconoscersi, quindi, che la R. era sicuramente e compiutamente a conoscenza della divergenza, nell’altro coniuge, tra volontà e dichiarazione, nel senso della esclusione di uno dei ‘bona matrimonii’, per cui… la chiesta delibazione non trova ostacolo nella asserita contrarietà con l’ordine pubblico italiano”.
Appare, dunque, palese da quanto precede come il relativo accertamento della Corte territoriale al riguardo, segnatamente per quel che attiene alla conoscenza appunto, da parte della R., “della mancanza di vera volontà matrimoniale dello sposo (ovvero) della divergenza, nell’altro coniuge, tra volontà e dichiarazione, nel senso della esclusione di uno dei ‘bona matrimonii…’ si basi esattamente sulle risultanze della sentenza ecclesiastica da delibare, le quali, correttamente richiamate in via esclusiva, senza cioè che la medesima Corte abbia fatto ricorso ad alcuna integrazione probatoria, risultano del tutto idonee a fondare il convincimento del giudice di merito, essendosi tradotte in un apprezzamento espresso con motivazione adeguata, immune da vizi logico-giuridici siccome condotta secondo un ragionevole e corretto ‘iter’ argomentativo, particolarmente significato attraverso lo specifico riferimento al contenuto della predetta sentenza quanto all”analisi delle deposizioni acquisite’ (ed all’) esame di reciproche lettere, specie della convenuta,… con valore di confessione extra giudiziale…”, ovvero ad elementi istruttori che, per la loro stessa efficacia anche nell’ordinamento interno, ben giustificano la conclusione, pure riportata nella sentenza impugnata, in ordine alla “esistenza di prove eclatanti-circa il difetto di formazione del vero consenso matrimoniale” e, quindi, in ordine al fatto “che la R. era sicuramente e compiutamente a conoscenza della divergenza, tra volontà e dichiarazione, nel senso della esclusione di uno dei ‘bona matrimonii'”.

Il ricorso principale, pertanto, deve essere rigettato.

Con l’unico motivo di impugnazione, lamenta il ricorrente incidentale illogicità di motivazione, violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360, nn. 2 (“rectius” 3) e 5, c.p.c., in relazione all’art. 8, n. 2, ultimo comma, della legge 25 marzo 1981,n. 121 e all’art. 129-bis c.c., deducendo:
a) che con siffatto motivo si censura la decisione della Corte di Appello di porre a suo carico una provvisionale in favore della R. di lire quattro milioni mensili;
b) che la facoltà di imporre una simile provvisionale a beneficio di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, riconosciuta alla medesima Corte dall’art. 8 come sopra richiamato, trova la sua giustificazione solo se posta in correlazione con il regime del matrimonio putativo, rinvenendosi in questo il fondamento della sua vigenza quale mezzo di anticipazione della decisione finale demandata al giudice del merito;
c) che si palesa perciò illogico ed erroneo l’esercizio della potestà, da parte della Corte delibante, di stabilire una provvisionale a vantaggio dell’altro coniuge, riconosciuto dalla stessa Corte in malafede ed escluso quindi dal beneficio dell’indennità di cui all’art. 129-bis c.c.
Il motivo è inammissibile.
Al riguardo, giova premettere come, nella specie, il quadro normativo di riferimento sia rappresentato:
a) dall’art. 129-bis, primo comma, c.c., a norma del quale “Il coniuge al quale sia imputabile la nullità del matrimonio è tenuto a corrispondere all’altro coniuge in buona fede, qualora il matrimonio sia annullato, una
congrua indennità, anche in mancanza di prova del danno sofferto.
L’indennità deve comunque comprendere una somma corrispondente al mantenimento per tre anni. È tenuto altresì a prestare gli alimenti al coniuge in buona fede, sempre che non vi siano altri obbligati”;
b) dall’art. 8, n. 2, ultimo comma, della legge 25 marzo 1985, n. 121 (ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato
lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede), il quale recita “La Corte d’appello potrà, nella sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza canonica, statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla materia”.
Dalla lettura congiunta delle norme sopra riportate, si ricava che, in sede di delibazione, la Corte territoriale competente ha il potere di disporre a beneficio del coniuge in buona fede, ricorrendo i menzionati presupposti, la corresponsione “provvisoria” di una congrua indennità, nonché, se del caso e sempre in via “provvisoria”, la corresponsione di alimenti.
In entrambe le ipotesi, quindi, i provvedimenti economici adottati dalla medesima Corte, a carico del coniuge cui risulti imputabile la causa di nullità del matrimonio, debbono avere, per esplicita previsione normativa, carattere “provvisorio”, rimanendo ferma la competenza a decidere secondo le norme processuali generali, in via “definitiva”, circa il diritto del coniuge in buona fede ad ottenere la congrua indennità e gli alimenti,nonché la determinazione della misura di ambedue gli emolumenti (Cass. 13 luglio 1992, n. 8477).
Gli anzidetti provvedimenti, indipendentemente dal richiamo analogico che si volesse fare all’art. 700 c.p.c., rientrano dunque a pieno titolo tra quelli aventi funzione “strumentale” e natura “anticipatoria”, essendo diretti ad
assicurare preventivamente la “fruttuosità pratica” della decisione definitiva, onde restano subordinati all’accertamento, da parte della Corte di merito, in via di delibazione sommaria, dei relativi presupposti, rispettivamente costituiti sia dal “fumus boni iuris”, ovvero dal diritto del richiedente al conseguimento degli accennati emolumenti, da apprezzare nei limiti della cognizione sopra indicati, senza possibilità di confondere
questi con quelli assegnati al giudice competente per la decisione finale, sia dal “periculum in mora”, ovvero dalla minaccia del pregiudizio che incomba sull’attuazione di un simile diritto durante il tempo occorrente a farlo valere in sede ordinaria (Cass. 25 luglio 1992, n. 8982; Cass. 17 marzo 1998, n. 2852).
Se tale è, quindi, la natura dei provvedimenti del genere di quello, qui censurato, adottato dalla Corte territoriale, appare palese come, nella specie, debba trovare applicazione il principio secondo cui il ricorso per cassazione, ancorché in via straordinaria ai sensi dell’art. 111 della Costituzione, è esperibile soltanto avverso provvedimenti
giurisdizionali che siano definitivi ed abbiano carattere decisorio, essendo cioè in grado di incidere con efficacia di giudicato è situazioni soggettive di natura sostanziale, onde non è ammissibile l’impugnazione con un mezzo siffatto di quelle decisioni (come appunto la statuizione, “in parte qua”, di detto giudice e, più in generale, le misure cautelari ex artt. 669-bis c.p.c. e seguenti) a carattere strumentale ed interinale che operano per il limitato
tempo del giudizio di merito e sino all’adozione delle determinazioni definitive all’esito di esso, come tali inidonee a conseguire efficacia di giudicato, sia dal punto di vista formale sia dal punto di vista sostanziale (Cass. 21 novembre 2001, n. 14669; Cass. 7 maggio 2002, n. 6519; Cass. 14 gennaio 2003, n. 441; Cass. ord. 19 febbraio 2003, n. 2505).
Deve, pertanto, essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso incidentale, restando in tal modo assorbiti gli ulteriori profili di inammissibilità di quest’ultimo dedotti dalla R. sotto la pagina 2 del controricorso al ricorso incidentale medesimo.
La reciproca soccombenza giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale, dichiara l’inammissibilità del ricorso incidentale e compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 7 aprile 2003.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 19 NOV. 2003