Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 19 Ottobre 2005

Sentenza 07 aprile 2005, n.7207

Corte di Cassazione. Sezione Civile. Sentenza 7 aprile 2005, n. 7207: “Licenziamento di un dipendente della Casa Internazionale del Clero: inapplicabilità dall’art. 4, comma 1 della legge 108/1990”.

(Omissis)

Svolgimento del processo

Con ricorso al giudice del lavoro di primo grado di Roma, P. N., premesso di essere dipendente, con mansioni di contabile, della Casa internazionale del clero (CIC), svolgente attività alberghiera, impugnava il licenziamento intimatole con atto del 30 maggio 1996, che assumeva essere discriminatorio e comunque illegittimo, perché licenziamento disciplinare non preceduto da regolare contestazione e in ogni caso privo di giusta causa e giustificato motivo.
Si costituiva in giudizio l’ente convenuto, il quale eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice italiano, deducendo la sussistenza di quella del giudice vaticano, contestava che il licenziamento avesse natura discriminatoria o disciplinare, deduceva l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo e, inoltre, assumeva che la Casa svolgeva un’attività non imprenditoriale e senza fini di lucro, strettamente inerente a quella di religione e di culto, sicché l’ente era qualificabile come un’organizzazione di tendenza, ai sensi dell’art. 4 l. n. 108/1990, con conseguente inapplicabilità dell’art. 18 l. n. 300/1970.
Il Tribunale, rigettata l’eccezione di difetto di giurisdizione, riteneva il licenziamento ingiustificato e, facendo applicazione della tutela obbligatoria, ordinava la riassunzione della lavoratrice o in difetto il pagamento di un’indennità pari a sei mesi di retribuzione.
Contro questa sentenza la N. proponeva appello, deducendo che erroneamente era stata negata la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro, in realtà dovendosi escludere che la datrice di lavoro fosse qualificabile come organizzazione di tendenza a norma dell’art. 4 l. n. 108/1990 (poiché aveva una struttura imprenditoriale, non svolgeva, né si svolgeva presso di essa, attività di natura religiosa, e non era assente il fine di lucro), e essendo il licenziamento di carattere discriminatorio.
La Corte d’appello preliminarmente rigettava l’eccezione di inammissibilità dell’appello, formulata dall’appellata, la quale aveva dedotto che la ricorrente aveva prestato acquiescenza alla pronuncia. Il giudice di secondo grado al riguardo osservava che la N. aveva accettato “in acconto” e “con espressa riserva di proporre appello” la somma liquidata in suo favore, con la sentenza di primo grado, a titolo di indennità pari a sei mensilità; doveva quindi escludersi che essa avesse rinunciato a proseguire il giudizio per ottenere la maggior tutela richiesta originariamente.
Tanto premesso, osservava che l’unica questione rimasta controversa e dedotta in appello riguardava l’applicabilità dell’art. 18 l. n. 300/1970 in relazione alle esclusioni previste dall’art. 4 l. n. 108/1990. Osservava peraltro che – stante la soluzione da darsi su questo punto – non era necessario approfondire la questione riproposta in subordine circa la sussistenza di un motivo illecito, sulla quale peraltro appariva condivisibile la valutazione espressa dal giudice di primo grado, stante l’insufficienza di elementi probatori sull’esistenza di una determinante motivazione fondata su un intento discriminatorio.
Riguardo alla questione ritenuta decisiva, la Corte di merito in linea procedurale riteneva ammissibile la produzione documentale della parte appellante, già richiesta nel corso del giudizio di primo grado e ribadita in appello, dato che il divieto di produzione di nuovi documenti di cui all’art. 427, secondo comma, c.p.c., si riferisce solo alle prove “costituende”, e non ai documenti già costituiti, conosciuti anche dall’altra parte, finalizzati, in presenza di allegazioni svolte nell’atto introduttivo – nella specie relative alla natura imprenditoriale dell’organizzazione – a riscontrare una tesi. Né in primo grado vi era stata l’assegnazione di un termine, disatteso dalla patte, e quindi la verificazione di una decadenza.
Nel merito, premetteva che dovevano ritenersi riconducibili alla nozione di “datori di lavoro che svolgono senza fini di lucro attività politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”, tutte quelle associazioni, istituzioni o comunità costituite per il raggiungimento di finalità dichiaratamente connotate da una particolare impostazione a cui membri venga richiesto, all’atto di ammissione, un’adesione totale e incondizionata ai principi e alle idee professate, e che operino al di fuori di qualsiasi finalità economica organizzata.
Tali criteri distintivi non erano rinvenibili nella situazione in esame. Era vero che la proprietà dell’immobile in cui si esercitava l’attività, e dei locali adibiti a negozi, era della APSA (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica), ma non era stata affatto contestata la copiosa documentazione dalla quale si evinceva che la struttura aveva carattere “alberghiero”, e ciò a prescindere dalla qualità degli ospiti (religiosi e non laici).
Rilevava che deponevano in tal senso la piramidale organizzazione delle “risorse umane” (direttore generale, vice-direttore, collegio sindacale), la presenza di numerosi dipendenti (23), tutti laici, addetti alle mansioni tipiche dei servizi alberghieri, il numero delle stanze (130, con 15 appartamenti), la prestazione non solo dei servizi relativi ai pasti, ma anche di quelli inerenti ad altre esigenze (consegna di giornali, riviste, lavanderia, guardaroba, ecc.), la differenziazione delle tariffe, variabili non in relazione alle possibilità dei singoli ospiti ma alla grandezza e alla qualità delle stanze, e diversificate secondo la stagione, oltre che per l’incidenza di molteplici “extra”.
Richiamava anche la relazione del collegio sindacale sul consuntivo del 1994, dalla quale emergeva un risultato utile pari a L. 302.282.503 e, soprattutto, erano esposte le linee programmatiche per l’anno 1995, accompagnate dal conto economico di previsione. Tali elementi, unitamente alle stesse mansioni della N. (contabilità di cassa, dei conti correnti, pagamenti a fornitori e utenze varie, contabilità del personale e rapporti con Inps e Inail, ecc.) facevano percepire l’esistenza di una realtà complessa e articolata tale da ricondurre la CIC alle imprese produttrici di servizi per categorie specifiche, attraverso la gestione di una struttura con modalità correlate a una finalità di lucro, intesa anche solo come finalità economicamente apprezzabile e non circoscritta al mero recupero delle spese vive.
In tale contesto, la circostanza che all’interno della struttura fossero presenti luoghi di incontro e di pratica religiosa non assumeva alcuna rilevanza decisiva, atteso che rifletteva solo un aspetto della vita e degli scopi dell’istituzione.
Contro questa sentenza la Casa internazionale del clero (in liquidazione) propone ricorso per Cassazione, affidato a tre motivi.
La N. resiste con controricorso. La Casa internazionale del clero ha depositato memoria.

Motivi della decisione

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 329 c.p.c..
Si ripropone la tesi secondo cui la N. aveva fatto acquiescenza alla sentenza di primo grado, osservando che essa aveva richiesto alla CIC e quindi ottenuto il pagamento dell’indennità di sei mensilità di retribuzione riconosciutale dal Tribunale. Poiché questa tutela era assolutamente diversa da quella reale, negata dal giudice di primo grado, la relativa richiesta era incompatibile con la riproposizione della domanda di reintegra nel posto di lavoro. Né era rilevante la riserva contenuta nella domanda di pagamento delle sei mensilità, non potendo l’interessata mettere nel nulla la manifestazione di volontà di ottenere qualcosa di completamente diverso e incompatibile rispetto alla tutela reale. La riserva poteva semmai ritenersi idonea al fine di richiedere un’indennità maggiore di quella liquidata.
Il motivo è infondato.
Come è noto, l’acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 c.p.c. (e configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame, atteso che successivamente è possibile solo una rinunzia espressa all’impugnazione, da effettuarsi nelle forme previste dalla legge) consiste nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, manifestazione che può avvenire in forma espressa o tacita; in quest’ultimo caso l’acquiescenza può ritenersisussistente soltanto quando l’interessato abbia posto in essere atti o comportamenti dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè gli atti stessi siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione (Cass., sez. un., 26 agosto 1998 n. 8453 e Cass. 19 aprile 2000 n. 5074). E’ stato anche precisato che l’acquiescenza tacita alla sentenza integra un negozio giuridico processuale, che presuppone, appunto, un’univoca volontà abdicativa della parte, sicché non è sufficiente una valutazione meramente oggettiva del comportamento ed è necessaria invece una specifica indagine sull’elemento soggettivo (Cass., sez. un., 13 ottobre 1993 n. 10112).
Alla luce di questi principi risulta evidente l’assoluta correttezza delle valutazioni effettuate sul punto dal giudice di merito, che ha dato rilievo all’espressa dichiarazione della parte di riservarsi la proposizione dell’appello, nel momento in cui ha chiesto e ottenuto, sulla base della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, il pagamento dell’indennità prevista, in caso di licenziamento ingiustificato, dalla legge n. 604/1966 – Peraltro neanche è ravvisabile quell’oggettiva incompatibilità tra tale comportamento e la riproposizione in appello della richiesta della più incisiva tutela assicurata dall’art. 18 l. n. 300/1970, e ciò sotto più profili. Innanzitutto, infatti, qualora la prestazione ricevuta in base alla sentenza provvisoriamente esecutiva di primo grado fosse risultata non più dovuta in base alla sentenza di secondo grado, avrebbe potuto precedersi alla sua restituzione. In secondo luogo, era prevedibile che la somma eventualmente riconosciuta in appello a titolo risarcimento del danno ex art. 18 sarebbe stata di ammontare superiore a quella riconosciuta a titolo indennitario dal giudice di primo grado.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c..
Si premette che la N. in appello ha depositato tre relazioni e consuntivi per gli anni 1991, 1992 e 1993, privi di qualsiasi autenticità o sottoscrizione e di alcun concreto riferimento sulla provenienza di detti dattiloscritti anonimi, e inoltre un quarto documento, consistente nella relazione del collegio sindacale per l’anno 1994. in fotocopia, e si precisa che tutti questi documenti erano stati contestati “dal punto di vista formale e sostanziale” nella comparsa di costituzione in appello.
Se ne deduce la inutilizzabilità di detti documenti.
Inoltre, si osserva che la produzione degli stessi documenti era già stata tentata in primo grado, all’udienza del 22.4.1999, ed era stata esclusa dal giudice per la sua tardività, e si sostiene che, quindi, al riguardo era maturata una vera e propria decadenza, preclusiva della reiterazione della produzione in appello. Peraltro lo stralcio dei documenti in primo grado non aveva formato oggetto di un motivo di appello, ma solo di un’irrituale ripetizione della produzione.
Nella specie, inoltre, stante il tenore dei documenti e delle difese dell’appellata, non poteva correttamente parlarsi di prove costituite diverse da quelle costituende.
Viene chiesto quindi che sia statuita l’inutilizzabilità dei suddetti documenti e disposto il loro stralcio.
Il terzo motivo denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi, in relazione alla valutazione della documentazione legittimamente acquisita e alle prove esperite; violazione e falsa applicazione dell’art. 181. n. 300/1970 e dell’art. 4 l. n. 108/1990, in relazione all’attività in concreto svolta dalla CIC ed erroneamente qualificata come a fine di lucro.
Innanzitutto si deduce che gli argomenti svolti dalla Corte di merito al fine di ritenere l’applicabilità dell’art. 18 stat. lav. vengono tratti quasi tutti dalla documentazione prodotta dalla N., priva di autenticità e formalmente contestata, e in particolare dagli atti consuntivi dal 1991 al 1993. Stralciati tali documenti, in accoglimento del secondo motivo, non vi è agli atti alcuna prova concreta circa la fondatezza della domanda.
Con riferimento alla relazione del collegio sindacale, ferme le precedenti contestazioni riguardo alla sua produzione e valutazione, si richiamano le circostanze e le osservazioni già dedotte inappello. E cioè l’essere l’Apsa proprietaria di tutto l’immobile in questione, compresi i locali a piano terra, dalla medesima amministrazione dati in locazione; l’esistenza di un versamento ogni anno da parte l’Apsa di un contributo per il sostentamento della CIC, in riferimento alla attività di accoglienza e ospitalità dei sacerdoti svolta dalla Casa, pari circa all’ammontare dei fitti dei locali al piano terra del palazzo; il non potersi sommare contabilmente detto contributo con i rimborsi spese versati per l’attività di accoglienza dei religiosi che svolgono attività in Curia o per visita ad limino; la natura di rappresentazione meramente cartolare e figurativa dell’esposizione di un utile nella relazione dei sindaci, tenuto presente detto ingente contributo e l’onere di manutenzione dell’immobile a carico della Casa, richiedente un accantonamento di circa 100 milioni, in conseguenza del quale il bilancio va in disavanzo o al massimo in pareggio, come confermatodal bilancio del 1993, evidenziante un utile di appena L. 20.785.070; l’irrilevanza dell’esistenza di un minimo di attivo di gestione per un ente ecclesiastico, essendo altri gli elementi della vera e propria attività imprenditoriale.
Si richiamano poi, sempre al fine di lamentare vizio di motivazione per la mancata considerazione delle relative circostanze, risultanze della prova per testi espletata in primo grado, circa la natura di rimborsi spese delle quote versate dagli ospiti, in relazione anche all’incidenza del contributo della Santa Sede; circa il carattere non inderogabile del contributo, applicato in relazione alle possibilità dei singoli; e circa l’esistenza di prestazioni di assistenza da parte del personale dipendente a favore degli ospiti bisognosi di cure perchè anziani o malati, in coerenza con l’attività assistenziale degli enti religiosi.
Si richiama anche lo svolgimento di concelebrazioni e altre pratiche di culto e la circostanza che, come emerso da testimonianze, la Casa era una famiglia e tutti sapevano dell’ora dei pasti senza che vi fossero disposizioni scritte al riguardo.
Circa la ritenuta applicabilità dell’art. 18 l. n. 300/1970, più particolarmente si deduce, da un lato, che l’esistenza di un utile marginale a fine gestione non costituisce elemento sufficiente a far classificare l’attività come commerciale o imprenditoriale, e si lamenta, dall’altro, la mancata considerazione che la CIC è un ente di tendenza, in quanto persegue finalità aventi una particolare impostazione: essa offre ospitalità esclusivamente a sacerdoti e prelati che lavorano in Curia o che vengono a visitare, soprattutto dall’estero, il Santo Padre (“visite ad limino”), cioè a religiosi che debbono soggiornare a Roma per motivi confessionali, come emergedalla certificazione della Segreteria di Stato in data 29.10.1998, non presa in considerazione da parte della Corte d’appello. Si tratta di finalità connesse con quelle istituzionali della Santa Sede, che sfuggono ad ogni identificazione, anche in via analogica, con quelle di prestazioni di servizi individuate dal giudice d’appello. In realtà la Casa del clero viene in considerazione quale ente svolgente un’attività di religione e di culto e non quale ente che gestisce con organizzazione di impresa (peraltro senza scopo di lucro) un’attività di accoglienza. Infatti l’attività economica non imprenditoriale svolta dalla Casa rientra esattamente nei fini della “tendenza”, e cioè nella particolare attività in favore dei religiosi, peraltro senza alcun inserimento sul mercato in concorrenza con soggetti svolgenti la stessa attività per fini commerciali.
Devono anche essere considerate le caratteristiche della vita svolta all’interno della Casa, con pratiche di pietà in comune e concelebrazioni tra i prelati. Nè l’attività ha natura alberghiera dal punto di visto strutturale, posto che la fornitura dei pasti è propria anche delle comunità religiose e si tratta di pasti semplici senza preventive ordinazioni e con distribuzione ad orari fissi.
Nè, infine, trovano riscontro nelle prove la prestazione di servizi speciali e la sussistenza di una “piramidale organizzazione delle risorse umane” (essendo esclusivamente la figura del Direttore della Casa).
In conclusione l’attività in questione è piuttosto inquadrabile tra quelle di tipo familiare prestate per la comunità che alloggia nell’immobile.
Il secondo e il terzo motivo sono esaminati congiuntamente, stante la loro connessione.
E’ opportuno preliminarmente ricordare che, in base alle modifiche (su alcuni punti incisive) apportate dalla legge 11 maggio 1990 n. 108 alla disciplina dei licenziamenti, l’applicabilità della tutela più ampia, prevista a favore del lavoratore dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 non presuppone più la natura imprenditoriale del soggetto datore di lavoro o, quanto meno, dell’attività dal medesimo esercitata, così come faceva la disciplina precedente, sulla base del tenore dell’art. 35 della legge n. 300/1970. Infatti il campo di applicazione dell’art. 18 è ora precisato da disposizioni nel medesimo inserite, che letteralmente pongono, ai fini in esame, sullo stesso piano, il “datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore”, peraltro dettando i medesimi requisiti dimensionali per entrambi i tipi di soggetti.
Pertanto il carattere imprenditoriale del soggetto o dell’attività è indispensabile al fine di assicurare l’applicabilità dell’art. 18, quando altrimenti opererebbe la norma dell’art. 4, comma 1, della legge n. 108/1990, che pone un’eccezione a tale applicabilità “nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”, per esempio l’accertamento della natura imprenditoriale dell’attività si presenta come rilevante in riferimento alle scuole private, potendo altrimenti avere valore decisivo lo svolgimento di un’attività di istruzione. In altri termini, il carattere imprenditoriale dell’attività è una condizione sufficiente (a prescindere dai requisiti dimensionali) ma non necessaria al fine di rendere applicabile l’art. 18. Correlativamente l’esclusione di tale carattere non ne giustifica la non applicazione se contemporaneamente non è allegato e provato che l’attività svolta (senza fine di lucro) dal datore di lavoro rientri in una delle previsioni della citata disposizione dell’art. 4 l. n. 108/1990. Peraltro, è coerente con la esposta ricognizione del quadro normativo l’impostazione del ricorso in esame, con il quale non soltanto è stato censurato l’accertamento del carattere imprenditoriale dell’attività in questione, ma anche si è lamentato il mancato accertamento che la Casa internazionale del clero è un ente cd. di tendenza, in quanto svolgente attività di religione e di culto.
Tanto premesso, si osserva che nella specie la ricorrente, mentre ha contestato e censurato l’accertamento compiuto dal giudice di appello, nella parte in cui esso ha ritenuto che la Casa internazionale del clero svolga un’attività di tipo imprenditoriale con prestazione di servizi di tipo alberghiero, in effetti non ha anche contestato che la sua attività consista nel fornire un alloggio (con una prestazione di servizi comprensiva quanto meno dell’erogazione dei pasti) ad ecclesiastici residenti a Roma o transitanti per Roma (sia pure precisando che si tratta di sacerdoti o prelati che lavorano presso la Curia o che vengono a visitare il Papa, soprattutto dall’estero, nell’ambito delle cd. visite ad limino). Essendo questo l’oggetto essenziale dell’attività del soggetto giuridico convenuto in giudizio, deve escludersi che la stessa possa essere qualificata “attività di religione” oppure “attività di culto”. Infatti a qualificarla in tal senso non puòritenersi sufficiente l’attività svolta in Roma dai vari ospiti, che rimane evidentemente esterna al servizio reso dalla Casa (nel ricorso stesso definito in termini di “attività economica non imprenditoriale”). A tal fine neanche può ritenersi rilevante che, in considerazione della qualità degli ospiti della Casa, la vita di quest’ultima sia improntata a regole consone a tale qualità e che gli stessi siano messi in grado di svolgere all’interno della Casa attività di culto. Infatti queste attività, che non sono rivolte al pubblico e che non è dedotto siano obbligatorie, non costituiscono l’oggetto in senso proprio dell’attività della Casa, e comunque l’oggetto principale e qualificante ai fini dell’operatività delle norma eccezionale di cui all’art. 41. n. 108/1990.
Deve anche rilevarsi che mancano nel ricorso (al riguardo in ogni caso non potendo assumere rilevanza la successiva memoria illustrativa) deduzioni (e tanto più il riferimento circostanziato -richiesto per il ricorso per Cassazione – alle determinanti risultanze probatorie che sarebbero state trascurate dal giudice di merito) circa l’obbligatorio svolgimento all’interno della Casa da parte dei vari ecclesiastici di una strutturata attività comune, tale da far ritenere che la Casa internazionale del clero integri una vera e propria comunità religiosa; del resto, il servizio di ospitalità è offerto anche ad ecclesiastici che si recano a Roma solo per un breve soggiorno. Deve quindi escludersi che lo svolgimento di “attività di religione” sia prospettabile sotto tale profilo, in termini analoghi a quelli invece postulabili riguardo alle comunità religiose di conventi, monasteri e analoghe istituzioni religiose.
I precedenti richiamati dalla ricorrente si riferiscono a fattispecie diverse; in particolare Cass. 11 luglio 2001 n. 9396 e Cass. 6 novembre 2001 n. 13721 riguardano l’ipotesi di svolgimento da partedi organizzazioni di tipo sindacale (e quindi sotto questo profilo indubbiamente qualificabili come “di tendenza” a norma dell’art. 4 l. n. 108/1990) di un’attività di prestazione di servizi a favore di propri associati e, eventualmente, di terzi. Peraltro, mentre tali due sentenze hanno ritenuto necessaria la offerta dei servizi anche a soggetti non iscritti all’associazione sindacale, al fine di qualificare la relativa attività come attività imprenditoriale esclusa dall’applicabilità dell’art. 4, la più recente sentenza Cass. 26 gennaio 2004 n. 1367 ha ritenuto non ostativa della qualificazione imprenditoriale l’offerta dei servizi solo agli associati.
Piuttosto, può essere opportuno sottolineare che, nel caso in esame, l’autonomia dell’attività di prestazione di servizi svolta dallaCasa internazionale del clero, rispetto alle attività ecclesiastiche cui, secondo le prospettazioni della ricorrente, essa è connessa in ragione delle finalità del soggiorno in Roma degli ospiti, risulta nettamente evidenziata dal suo affidamento ad un soggetto giuridico avente come scopo proprio il suo espletamento.
Quanto alla deduzione, appena accennata nel ricorso, della inquadrabilità dell’attività in questione tra quelle di tipo familiare, in quanto prestata per la comunità che alloggia nell’immobile, deve osservarsi che essa non appare espressione di una precisa censura alla sentenza impugnata, stante anche la mancanza di riferimenti normativi. Peraltro, un’eventuale allusione alla normativa applicabile al lavoro domestico sarebbe preclusa dal giudicato interno sull’applicabilità della legge n. 604/1966, oltreche palesemente incongrua rispetto alla fattispecie di causa.
E’ quindi confermato che l’attuale ricorrente è un datore di lavoro nei cui confronti, comunque, non può escludersi l’applicabilità dell’art. 18 della legge n. 300/1970 (nessuna contestazione sussistendo in ordine ai requisiti dimensionali). Anche il secondo e il terzo motivo devono pertanto essere rigettati, rimanendo in particolare assorbite (in quanto in concreto non concludenti) le varie censure del secondo motivo circa la ritualità della produzione di taluni documenti e la loro efficacia probatoria.
Le spese del giudizio vengono regolate in base al criterio della soccombenza (art. 91 c.p.c.).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla controparte le spese del giudizio, determinate in Euro 11, 00 oltre a Euro duemila per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.