Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 23 Dicembre 2013

Sentenza 07 novembre 2013

Corte di Giustizia. Sentenza 7 novembre 2013, cause riunite C-199/12, C-200/12, C-201/12: "X, Y, Z / Minister voor Immigratie en Asiel".

Nelle cause riunite da C‑199/12 a C‑201/12,

aventi ad oggetto alcune domande di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 TFUE, presentate dal Raad van State (Paesi Bassi), con decisioni del 18 aprile 2012, pervenute in cancelleria il 27 aprile 2012, nei procedimenti

Minister voor Immigratie en Asiel

contro

X (C‑199/12),

Y (C‑200/12),

e

Z

contro

Minister voor Immigratie en Asiel (C‑201/12),

con l’intervento di:

Hoog Commissariaat van de Verenigde Naties voor de Vluchtelingen (da C‑199/12 a C‑201/12),

LA CORTE (Quarta Sezione),

composta da L. Bay Larsen (relatore), presidente di Sezione, K. Lenaerts, vicepresidente della Corte, facente funzione di giudice della Quarta Sezione, M. Safjan, J. Malenovský e A. Prechal, giudici,

avvocato generale: E. Sharpston

cancelliere: V. Tourrès, amministratore

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza dell’11 aprile 2013,

considerate le osservazioni presentate:

–        per X, da H. M. Pot e C.S. Huijbers, advocaten;

–        per Y, da J. M. Walls, advocaat;

–        per Z, da S. Sewnath e P. Brochet, advocaten, assistiti da K. Monaghan e J. Grierson, barristers;

–        per lo Hoog Commissariaat van de Verenigde Naties voor de Vluchtelingen, da P. Moreau, in qualità di agente, assistita da M.‑E. Demetriou, barrister;

–        per il governo dei Paesi Bassi, da B. Koopman, C. S. Schillemans, C. Wissels e M. Noort, in qualità di agenti;

–        per il governo tedesco, da T. Henze, N. Graf Vitzthum e A. Wiedmann, in qualità di agenti;

–        per il governo ellenico, da G. Papagianni e M. Michelogiannaki, in qualità di agenti;

–        per il governo francese, da G. de Bergues e S. Menez, in qualità di agenti;

–        per il governo del Regno Unito, da L. Christie, in qualità di agente, assistito da S. Lee, barrister;

–        per la Commissione europea, da M. Condou-Durande e R. Troosters, in qualità di agenti,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza dell’11 luglio 2013,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1        Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (GU L 304, pag. 12) (in prosieguo: la «direttiva»), in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 2, lettera c), della direttiva, nonché del suo articolo 10, paragrafo 1, lettera d).

2        Tali domande sono state presentate nell’ambito delle controversie pendenti, da un lato, nelle cause C‑199/12 e C‑200/12, tra il Minister voor Immigratie en Asiel (ministro per l’Immigrazione e l’Asilo) (in prosieguo: il «Minister»), e X e Y, cittadini rispettivamente della Sierra Leone e dell’Uganda, e, dall’altro, nella causa C‑201/12, tra Z, cittadino del Senegal, e il Minister, in merito al rigetto, da parte di quest’ultimo, delle domande di detti cittadini tese ad ottenere un permesso di soggiorno temporaneo (asilo) nei Paesi Bassi.

 Contesto normativo

 Diritto internazionale

 La Convenzione relativa allo status dei rifugiati

3        La Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil des traités des Nations Unies, vol. 189, pag. 150, n. 2545 (1954)], è entrata in vigore il 22 aprile 1954. Essa è stata completata dal protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967, entrato in vigore il 4 ottobre 1967 (in prosieguo: la «convenzione di Ginevra»).

4        Ai sensi dell’articolo 1, sezione A, paragrafo 2, primo comma, della convenzione di Ginevra, il termine «rifugiato» è applicabile a chiunque «nel giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi».

 La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali

5        L’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), intitolato «Diritto al rispetto della vita privata e familiare», prevede quanto segue:

«1.      Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.

2.      Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».

6        L’articolo 14 della CEDU, intitolato «Divieto di discriminazione», così dispone:

«Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione».

7        L’articolo 15 della CEDU, intitolato «Deroga in caso di stato d’urgenza», recita come segue:

«1.      In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale.

2.      La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo 2[, intitolato “Diritto alla vita”], salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3[, intitolato “Proibizione della tortura”], 4 § 1[, intitolato “Proibizione della schiavitù e del lavoro forzato”] e 7[, intitolato “Nulla poena sine lege”].

(…)».

 Diritto dell’Unione

 La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

8        I diritti che non possono costituire oggetto di deroga ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU sono sanciti agli articoli 2, 4, 5, paragrafo 1, e 49, paragrafi 1 e 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).

 La direttiva

9        Ai sensi del considerando 3 della direttiva, la convenzione di Ginevra costituisce la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati.

10      Come emerge dal considerando 10 della direttiva, letto alla luce dell’articolo 6, paragrafo 1, TUE, quest’ultima rispetta i diritti, le libertà ed i principi enunciati nella Carta. Essa mira in particolare ad assicurare, sulla base degli articoli 1 e 18 della Carta, il pieno rispetto della dignità umana e il diritto di asilo dei richiedenti asilo.

11      I considerando 16 e 17 della direttiva sono così formulati:

«(16)      Dovrebbero essere stabilite norme minime per la definizione ed il contenuto dello status di rifugiato, al fine di orientare le competenti autorità nazionali degli Stati membri nell’applicazione della convenzione di Ginevra.

(17)      È necessario introdurre dei criteri comuni per l’attribuzione ai richiedenti asilo, della qualifica di rifugiati ai sensi dell’articolo 1 della convenzione di Ginevra».

12      Ai sensi del suo articolo 1, la direttiva ha lo scopo di stabilire norme minime, da un lato, sull’attribuzione ai cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di beneficiario di protezione internazionale e, dall’altro, sul contenuto della protezione riconosciuta.

13      Ai sensi dell’articolo 2, lettere c) e k), della direttiva, ai fini della stessa, si intende per:

«c)      “rifugiato”: cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese (…);

(…)

k)      “paese di origine”: il paese o i paesi di cui il richiedente è cittadino o, per un apolide, in cui aveva precedentemente la dimora abituale».

14      L’articolo 4 della direttiva verte sull’esame dei fatti e delle circostanze e, al suo paragrafo 3, dispone quanto segue:

«L’esame della domanda di protezione internazionale deve essere effettuato su base individuale e prevede la valutazione:

a)      di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del paese d’origine e relative modalità di applicazione;

b)      della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche render noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni (…);

c)      della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione (…);

(…)».

15      A norma dell’articolo 4, paragrafo 4, della direttiva, il fatto che un richiedente abbia già subito persecuzioni o minacce dirette di siffatte persecuzioni costituisce un «serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni» a meno che vi siano buoni motivi per ritenere che tali persecuzioni non si ripeteranno.

16      L’articolo 9 della direttiva, ai suoi paragrafi 1 e 2, definisce gli atti di persecuzione, disponendo quanto segue:

«1.      Gli atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1 [sezione] A della convenzione di Ginevra devono:

a)      essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della [CEDU]; oppure

b)      costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a).

2.      Gli atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l’altro, assumere la forma di:

(…)

c)      azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie;

(…)».

17      L’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva richiede che esista un collegamento tra i motivi di persecuzione di cui all’articolo 10 della medesima e tali atti di persecuzione.

18      L’articolo 10 della direttiva, intitolato «Motivi di persecuzione», così recita:

«1.      Nel valutare i motivi di persecuzione, gli Stati membri tengono conto dei seguenti elementi:

(…)

d)      si considera che un gruppo costituisce un particolare gruppo sociale in particolare quando:

–        i membri di tale gruppo condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, e

–        tale gruppo possiede un’identità distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante.

In funzione delle circostanze nel paese d’origine, un particolare gruppo sociale può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell’orientamento sessuale. L’interpretazione dell’espressione “orientamento sessuale” non può includere atti penalmente rilevanti ai sensi del diritto interno degli Stati membri. (…)

(…)».

19      Ai sensi dell’articolo 13 della direttiva, lo Stato membro riconosce lo status di rifugiato al richiedente che soddisfa, in particolare, i requisiti previsti dai suoi articoli 9 e 10.

 Il diritto olandese

20      L’articolo 28, paragrafo 1, lettera a), della legge del 2000 sugli stranieri (Vreemdelingenwet 2000, Stb. 2000, n. 495) autorizza il Minister ad accogliere, a respingere o a scartare senza esaminarla la domanda di «permesso di soggiorno temporaneo».

21      Conformemente all’articolo 29, paragrafo 1, lettera a), di tale legge del 2000, un permesso di soggiorno temporaneo, come quello di cui al citato articolo 28, può essere concesso allo straniero «che sia un rifugiato ai sensi della convenzione [di Ginevra]».

22      La circolare del 2000 sugli stranieri (Vreemdelingencirculaire 2000), nella sua versione in vigore alla data di deposito delle domande di cui trattasi, al suo punto C2/2.10.2 dispone quanto segue:

«Allorché un richiedente asilo faccia valere di aver avuto problemi a causa del suo orientamento sessuale, ciò, in determinate circostanze, può giustificare la conclusione che l’interessato è un rifugiato ai sensi della convenzione [di Ginevra]. (…)

Nel caso in cui una sanzione penale sia irrogata in forza di una norma che riguarda soltanto gli omosessuali, si è in presenza di un atto di persecuzione. Ciò avviene, ad esempio, allorché siano perseguibili l’essere omosessuale o la manifestazione di sentimenti specificamente omosessuali. Per consentire di concludere che l’interessato ha la qualifica di rifugiato, è necessario che si tratti di una misura repressiva di una certa gravità. Pertanto una mera sanzione pecuniaria sarà in genere insufficiente per poter giustificare la qualifica di rifugiato.

Tuttavia, il semplice qualificare come reato l’omosessualità o gli atti omosessuali in un paese non giustifica senz’altro la conclusione che un omosessuale di tale paese sia un rifugiato. Il richiedente asilo deve provare (se possibile sulla base di documenti) di avere personalmente un fondato motivo di temere una persecuzione.

Non si può pretendere che le persone con tendenze omosessuali nascondano il loro orientamento sessuale al rientro nel loro paese d’origine

(…)».

 Cause principali e questioni pregiudiziali

23      X, Y e Z, nati rispettivamente nel 1987, nel 1990 e nel 1982, hanno presentato domande di permesso di soggiorno temporaneo (asilo) nei Paesi Bassi il 1° luglio 2009, il 27 aprile 2011 e il 25 luglio 2010.

24      A sostegno delle loro domande hanno fatto valere che lo status di rifugiato dev’essere loro riconosciuto per il fatto che essi hanno ragione di temere una persecuzione nei loro rispettivi paesi d’origine a causa della propria omosessualità.

25      Essi hanno, in particolare, affermato di essere stati oggetto, sotto diversi profili, a causa del loro orientamento sessuale, di reazioni violente da parte delle loro famiglie e dei loro rispettivi ambienti sociali o di atti di repressione da parte delle autorità dei loro rispettivi paesi d’origine.

26      Dalle decisioni di rinvio risulta che, nei paesi d’origine di X, Y e Z, l’omosessualità è perseguita penalmente. Così in Sierra Leone (causa C‑199/12), ai sensi dell’articolo 61 della legge del 1861 sui reati contro la persona (Offences against the Person Act 1861), gli atti omosessuali sono soggetti ad una pena detentiva da un minimo di dieci anni all’ergastolo. In Uganda (causa C‑200/12), ai sensi dell’articolo 145 del codice penale del 1950 (Penal Code Act 1950), chi è giudicato colpevole di un reato descritto come «conoscenza carnale contro le leggi di natura» è punito con una pena detentiva che può arrivare all’ergastolo. In Senegal (causa C‑201/12), ai sensi dell’articolo 319.3 del codice penale (Code pénal) senegalese, una persona riconosciuta colpevole di atti omosessuali dev’essere condannata ad una pena detentiva da uno a cinque anni e ad una sanzione pecuniaria compresa tra 100 000 franchi CFA (BCEAO) (XOF) e 1 500 000 XOF (all’incirca tra EUR 150 e EUR 2 000).

27      Con decisioni del 18 marzo 2010, del 10 maggio 2011 e del 12 gennaio 2011, il Minister ha rifiutato di concedere a X, Y e Z un permesso di soggiorno temporaneo (asilo).

28      Secondo il Minister, sebbene l’orientamento sessuale dei suddetti richiedenti sia credibile, essi non hanno provato in maniera sufficiente i fatti e le circostanze invocati e non hanno quindi dimostrato la sussistenza, una volta fatto ritorno nei loro rispettivi paesi d’origine, di un fondato timore di persecuzione a causa della loro appartenenza ad un determinato gruppo sociale.

29      In seguito al rigetto delle loro domande di permesso di soggiorno temporaneo (asilo), X e Z hanno proposto ricorso dinanzi al Rechtbank ’s-Gravenhage. Y ha presentato domanda di provvedimenti provvisori dinanzi al medesimo giudice.

30      Con sentenze pronunciate il 23 novembre 2010 e il 9 giugno 2011, il Rechtbank ’s-Gravenhage ha accolto il ricorso di X e la domanda di Y. Tale giudice ha considerato in particolare che, sebbene il Minister avesse potuto ragionevolmente ritenere che i fatti esposti nelle domande di X e di Y non fossero credibili, esso non aveva tuttavia sufficientemente motivato, in ciascuna delle due cause, la questione se, con particolare riguardo al fatto che nei paesi d’origine di cui trattasi gli atti omosessuali sono qualificati come reato, il timore di persecuzione di X e di Y a causa della loro omosessualità fosse fondato.

31      Con sentenza del 15 agosto 2011, il Rechtbank ’s-Gravenhage ha respinto il ricorso proposto da Z. Esso ha considerato che non solo il Minister aveva potuto ragionevolmente ritenere che i fatti esposti da Z non fossero credibili, ma anche che dalle informazioni e dai documenti prodotti da Z non risultava che avesse luogo in generale in Senegal una persecuzione delle persone omosessuali.

32      Il Minister ha presentato appello dinanzi al Raad van State avverso le due sentenze che hanno annullato le sue decisioni di respingere le domande presentate da X e Y.

33      Z ha presentato appello, dinanzi al medesimo giudice, contro la sentenza che aveva respinto il suo ricorso avverso la decisione del Minister recante rigetto della sua domanda.

34      Il Raad van State ha precisato che, nei tre procedimenti principali, non si contestano in appello né l’orientamento sessuale dei richiedenti né il fatto che il Minister abbia potuto ragionevolmente ritenere che i fatti esposti in tali domande di asilo non fossero credibili.

35      Tale giudice ha peraltro precisato che il Minister ha in particolare fatto valere che, sebbene esso, conformemente alla politica di cui al punto C2/2.10.2 della circolare del 2000 sugli stranieri, non esiga che i richiedenti tengano nascosto il loro orientamento sessuale nei loro rispettivi paesi d’origine, ciò non implica che essi debbano necessariamente essere liberi di esprimere pubblicamente tale orientamento, come potrebbero fare nei Paesi Bassi.

36      Il Raad van State ha inoltre rilevato che le parti nel procedimento principale non concordano sulla questione in che misura gli articoli 9 e 10 della direttiva tutelino il fatto di vivere pienamente un orientamento sessuale come quello condiviso da X, Y e Z.

37      Alla luce di quanto sopra, il Raad van State ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali, formulate in termini pressoché identici in ciascuno dei procedimenti principali:

«1)      Se gli stranieri di orientamento omosessuale costituiscano un particolare gruppo sociale ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della [direttiva].

2)      In caso di risposta affermativa alla prima questione, quali atti omosessuali rientrino nell’ambito di applicazione della direttiva e, nel caso di persecuzione di siffatti atti e ove siano soddisfatti gli ulteriori requisiti, se ciò possa determinare il riconoscimento dello status di rifugiato. Questa domanda comprende le seguenti sottoquestioni:

a)      Se si possa esigere da stranieri di orientamento omosessuale che tengano segreta per tutti nel [rispettivo] paese di origine la loro tendenza, al fine di evitare la persecuzione.

b)      In caso di risposta negativa alla questione che precede, se, ed eventualmente in che misura, si possa esigere dagli stranieri di orientamento omosessuale che mantengano un atteggiamento riservato riguardo a tale orientamento nel paese di origine al fine di evitare la persecuzione. Se al riguardo ciò si possa esigere in maggior misura dagli omosessuali che dagli eterosessuali.

c)      Nell’ipotesi in cui, a questo riguardo, si possa operare una distinzione tra forme di manifestazione che riguardano il nucleo essenziale dell’orientamento e forme di manifestazione che non lo riguardano, cosa si intenda per “nucleo essenziale” dell’orientamento omosessuale e in che modo esso possa essere individuato.

3)      Se il mero fatto di qualificare come reati gli atti omosessuali e la comminatoria di una pena detentiva in relazione ai medesimi, come stabilito [nell’Offences against the Person Act del 1861 della Sierra Leone (causa C‑199/12), nel Penal Code Act del 1950 dell’Uganda (causa C‑200/12) e nel Code Pénal del Senegal (causa C‑201/12)] costituiscano un atto di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 2, lettera c), della direttiva. In caso negativo, in che circostanze ciò si configuri».

38      Con ordinanza del presidente della Corte del 19 giugno 2012, le cause da C‑199/12 a C‑201/12 sono state riunite ai fini delle fasi scritta ed orale del procedimento, nonché della sentenza.

 Sulle questioni pregiudiziali

 Osservazioni preliminari

39      Dai considerando 3, 16 e 17 della direttiva risulta che la convenzione di Ginevra costituisce la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati e che le disposizioni della direttiva relative alle condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato nonché al contenuto del medesimo status sono state adottate al fine di aiutare le autorità competenti degli Stati membri ad applicare detta convenzione basandosi su nozioni e criteri comuni (sentenza del 5 settembre 2012, Y e Z, C‑71/11 e C‑99/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 47, nonché giurisprudenza ivi citata).

40      L’interpretazione delle disposizioni della direttiva deve pertanto essere effettuata alla luce dell’impianto sistematico e della finalità di quest’ultima, nel rispetto della convenzione di Ginevra e degli altri trattati pertinenti di cui all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE. Tale interpretazione deve pertanto essere effettuata, come emerge dal considerando 10 della direttiva, nel rispetto dei diritti riconosciuti dalla Carta (sentenza del 19 dicembre 2012, Abed El Karem El Kott e a., C‑364/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 43, nonché giurisprudenza ivi citata).

 Sulla prima questione

41      Con la sua prima questione sollevata in ciascuno dei procedimenti principali, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva debba essere interpretato nel senso che sia possibile ritenere che, ai fini della valutazione dei motivi di persecuzione invocati a sostegno di una domanda volta ad ottenere lo status di rifugiato, le persone omosessuali costituiscano un determinato gruppo sociale.

42      Al fine di rispondere a tale questione va ricordato che, secondo il dettato dell’articolo 2, lettera c), della direttiva, il rifugiato è, in particolare, un cittadino di un paese terzo che si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese.

43      Il cittadino in questione deve quindi, a causa delle circostanze esistenti nel suo paese d’origine e del comportamento dei responsabili delle persecuzioni, trovarsi di fronte al fondato timore di una persecuzione contro la sua persona per almeno uno dei cinque motivi elencati nella direttiva e nella convenzione di Ginevra, tra i quali si annovera l’«appartenenza ad un determinato gruppo sociale».

44      L’articolo 10, paragrafo 1, della direttiva definisce ciò che costituisce un determinato gruppo sociale, l’appartenenza al quale può dar luogo ad un fondato timore di persecuzione.

45      Ai sensi di tale definizione, un gruppo è considerato un «determinato gruppo sociale» qualora siano soddisfatte, in particolare, due condizioni cumulative. Da un lato, i membri del gruppo devono condividere una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi. Dall’altro, tale gruppo deve avere la propria identità, nel paese terzo di cui trattasi, perché vi è percepito dalla società circostante come diverso.

46      Per quanto riguarda la prima di tali condizioni, è pacifico che l’orientamento sessuale di una persona costituisce una caratteristica così fondamentale per la sua identità che essa non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi. Tale interpretazione è confermata dall’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), secondo comma, della direttiva, da cui risulta che, in funzione delle circostanze esistenti nel paese d’origine, un particolare gruppo sociale può essere un gruppo i cui membri hanno come caratteristica comune un determinato orientamento sessuale.

47      La seconda condizione presuppone che, nel paese d’origine interessato, il gruppo i cui membri condividono lo stesso orientamento sessuale abbia la propria identità perché vi è percepito dalla società circostante come diverso.

48      A tale riguardo si deve ammettere che l’esistenza di una legislazione penale come quelle di cui trattasi in ciascuno dei procedimenti principali, che riguarda in modo specifico le persone omosessuali, consente di affermare che tali persone costituiscono un gruppo a parte che è percepito dalla società circostante come diverso.

49      Occorre pertanto rispondere alla prima questione sollevata in ciascuno dei procedimenti principali dichiarando che l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva dev’essere interpretato nel senso che l’esistenza di una legislazione penale come quelle di cui trattasi in ciascuno dei procedimenti principali, che riguarda in modo specifico le persone omosessuali, consente di affermare che tali persone devono essere considerate costituire un determinato gruppo sociale.

 Sulla terza questione

50      Con la sua terza questione sollevata in ciascuno dei procedimenti principali, che occorre esaminare prima della seconda questione, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 2, lettera c), della medesima, debba essere interpretato nel senso che il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali e la comminatoria di una pena detentiva in relazione ai medesimi costituiscono un atto di persecuzione. In caso di risposta negativa, detto giudice chiede in quali circostanze si configuri la qualificazione come atto di persecuzione.

51      Per rispondere a tale questione occorre ricordare che l’articolo 9 della direttiva definisce gli elementi che consentono di qualificare taluni atti come atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, sezione A, della convenzione di Ginevra. A tale riguardo, l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva, richiamato dal giudice del rinvio, precisa che gli atti pertinenti devono essere sufficientemente gravi, per la loro natura o la loro reiterazione, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti assoluti per i quali, in forza dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU, non è ammessa deroga.

52      Peraltro, l’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), della direttiva precisa che dev’essere considerata una persecuzione anche la somma di diverse misure, comprese le violazioni dei diritti umani, che sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello indicato all’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva.

53      Da tali disposizioni risulta che, affinché una violazione dei diritti fondamentali costituisca una persecuzione ai sensi dell’articolo 1, sezione A, della convenzione di Ginevra, essa deve raggiungere un determinato livello di gravità. Non tutte le violazioni dei diritti fondamentali di un richiedente asilo omosessuale raggiungeranno pertanto necessariamente tale livello di gravità.

54      A tale riguardo si deve anzitutto constatare che i diritti fondamentali specificamente legati all’orientamento sessuale, di cui trattasi in ciascuno dei procedimenti principali, quali il diritto al rispetto della vita privata e familiare, che è tutelato dall’articolo 8 della CEDU, cui corrisponde l’articolo 7 della Carta, se del caso in combinato disposto con l’articolo 14 della CEDU, cui s’ispira l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, non figurano tra i diritti umani fondamentali inderogabili.

55      Ciò considerato, la mera esistenza di una legislazione che qualifica come reato gli atti omosessuali non può essere ritenuta un atto che incide sul richiedente in maniera così rilevante da raggiungere il livello di gravità necessario per ritenere che detta qualificazione penale costituisca una persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva.

56      La pena detentiva comminata da una disposizione legislativa che, come quelle di cui ai procedimenti principali, sanziona gli atti omosessuali può invece, di per sé, costituire un atto di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva, purché essa trovi effettivamente applicazione nel paese d’origine che ha adottato una simile legislazione.

57      Una pena siffatta viola infatti l’articolo 8 della CEDU, cui corrisponde l’articolo 7 della Carta, e costituisce una sanzione sproporzionata o discriminatoria ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera c), della direttiva.

58      Alla luce di tali considerazioni, qualora un richiedente asilo si avvalga, come avviene in ciascuno dei procedimenti principali, dell’esistenza nel proprio paese d’origine di una legislazione che qualifica come reato taluni atti omosessuali, spetta alle autorità nazionali procedere, nell’ambito del loro esame dei fatti e delle circostanze ai sensi dell’articolo 4 della direttiva, ad un esame di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del paese d’origine e relative modalità di applicazione, come previsto dall’articolo 4, paragrafo 3, lettera a), della direttiva.

59      Nell’ambito di tale esame spetta, in particolare, a dette autorità determinare se, nel paese d’origine del richiedente, la pena detentiva prevista da una siffatta legislazione trovi applicazione nella prassi.

60      È sulla base di tali elementi che spetta alle autorità nazionali decidere se si debba ritenere che effettivamente il richiedente abbia ragione di temere, una volta rientrato nel proprio paese d’origine, una persecuzione ai sensi dell’articolo 2, lettera c), della direttiva, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 3, della medesima.

61      Tenuto conto del complesso delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla terza questione sollevata in ciascuno dei procedimenti principali dichiarando che l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 2, lettera c), della medesima, dev’essere interpretato nel senso che il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali non costituisce, di per sé, un atto di persecuzione. Invece, una pena detentiva che sanzioni taluni atti omosessuali e che effettivamente trovi applicazione nel paese d’origine che ha adottato una siffatta legislazione dev’essere considerata una sanzione sproporzionata o discriminatoria e costituisce pertanto un atto di persecuzione.

 Sulla seconda questione

 Osservazioni preliminari

62      Con la sua seconda questione sollevata in ciascuno dei procedimenti principali, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se, nel caso in cui si debba ritenere che un richiedente omosessuale appartenga ad un determinato gruppo sociale ai fini dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva, occorra operare una distinzione tra gli atti omosessuali che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva e quelli che non vi rientrano e non possono pertanto dar luogo al riconoscimento dello status di rifugiato.

63      Per rispondere a tale questione, che il giudice del rinvio ha suddiviso in diverse sottoquestioni, è necessario osservare che essa riguarda una situazione in cui, come nel caso dei procedimenti principali, il richiedente non ha dimostrato di avere già subito una persecuzione o di essere già stato oggetto di minacce dirette di persecuzione per il fatto di appartenere ad uno specifico gruppo sociale i cui membri condividono lo stesso orientamento sessuale.

64      La mancanza di un siffatto serio indizio della fondatezza del timore dei richiedenti ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 4, della direttiva spiega la necessità del giudice del rinvio di sapere in che misura, qualora il richiedente non possa fondare il proprio timore su una persecuzione già subita a causa della propria appartenenza al suddetto gruppo, si possa esigere che egli, una volta rientrato nel proprio paese d’origine, continui ad evitare il rischio di persecuzione nascondendo la propria omosessualità o, quanto meno, dando prova di riservatezza nell’esprimere il proprio orientamento sessuale.

 Sulla seconda questione, lettere a) e b)

65      Con la sua seconda questione, lettere a) e b), sollevata in ciascuno dei procedimenti principali, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva, in combinato disposto con l’articolo 2, lettera c), della medesima, debba essere interpretato nel senso che non è ragionevole attendersi che, per evitare la persecuzione, un richiedente asilo nasconda la propria omosessualità nel suo paese d’origine o dia prova di riservatezza nell’esprimere tale orientamento sessuale. Tale giudice chiede inoltre se, eventualmente, tale riservatezza debba essere maggiore rispetto a quella di una persona di orientamento eterosessuale.

66      A tale riguardo occorre anzitutto precisare che, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva, non si può ritenere che l’orientamento sessuale includa atti penalmente rilevanti ai sensi del diritto interno degli Stati membri.

67      Al di fuori di tali atti penalmente rilevanti ai sensi del diritto interno degli Stati membri, nulla, nel tenore letterale dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), indica che il legislatore dell’Unione abbia inteso escludere dall’ambito di applicazione di tale disposizione taluni altri tipi di atti o di espressioni legati all’orientamento sessuale.

68      In tal senso, l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva non prevede limitazioni quanto all’atteggiamento che i membri dello specifico gruppo sociale possono adottare relativamente alla loro identità o ai comportamenti rientranti o meno nella nozione di orientamento sessuale ai fini di tale disposizione.

69      Il mero fatto che dall’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva risulti espressamente che il termine «religione» include anche la partecipazione a riti di culto celebrati in privato o in pubblico non consente di concludere che il termine «orientamento sessuale», cui fa riferimento l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), di tale direttiva, debba includere solo atti connessi alla sfera della vita privata della persona interessata e non anche atti della sua vita pubblica.

70      A tale riguardo occorre constatare che il fatto di esigere dai membri di un gruppo sociale che condividono lo stesso orientamento sessuale che nascondano tale orientamento è contrario al riconoscimento stesso di una caratteristica così fondamentale per l’identità che gli interessati non dovrebbero essere costretti a rinunciarvi.

71      Non è pertanto lecito attendersi che, per evitare la persecuzione, un richiedente asilo nasconda la propria omosessualità nel suo paese d’origine.

72      Per quanto riguarda la riservatezza di cui la persona dovrebbe dar prova, nel sistema istituito dalla direttiva, quando le autorità competenti valutano se il timore del richiedente di essere perseguitato sia fondato, esse cercano di appurare se le circostanze accertate rappresentino o meno una minaccia tale da far fondatamente temere alla persona interessata, alla luce della sua situazione individuale, di essere effettivamente oggetto di atti di persecuzione (v., in tal senso, sentenza Y et Z, cit., punto 76).

73      Questa valutazione dell’entità del rischio, che deve essere operata in tutti i casi con vigilanza e prudenza (sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a., C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, Racc. pag. I‑1493, punto 90), è fondata unicamente sull’esame concreto dei fatti e delle circostanze conformemente alle disposizioni figuranti, segnatamente, all’articolo 4 della direttiva (sentenza Y e Z, cit., punto 77).

74      Da nessuna di tali norme risulta che, nel valutare l’entità del rischio di subire effettivamente atti di persecuzione in un determinato contesto, occorrerebbe prendere in considerazione la possibilità che il richiedente avrebbe di evitare un rischio di persecuzione, in particolare dando prova di riservatezza nell’esprimere un orientamento sessuale che egli vive in quanto membro di uno specifico gruppo sociale (v., per analogia, sentenza Y e Z, cit., punto 78).

75      Ne consegue che all’interessato dovrà essere riconosciuto lo status di rifugiato, conformemente all’articolo 13 della direttiva, qualora sia accertato che, una volta fatto ritorno al proprio paese d’origine, la sua omosessualità lo esporrà ad un concreto rischio di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva. A tale riguardo, non si deve tener conto del fatto che egli potrebbe evitare il rischio dando prova, nell’esprimere il proprio orientamento sessuale, di maggiore riservatezza rispetto ad una persona eterosessuale.

76      Alla luce dei suesposti rilievi, occorre rispondere alla seconda questione, lettere a) e b), sollevata in ciascuno dei tre procedimenti principali, dichiarando che l’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva, in combinato disposto con l’articolo 2, lettera c), della medesima, dev’essere interpretato nel senso che solo gli atti omosessuali penalmente rilevanti ai sensi del diritto interno degli Stati membri sono esclusi dal suo ambito di applicazione. In sede di valutazione di una domanda diretta ad ottenere lo status di rifugiato, le autorità competenti non possono ragionevolmente attendersi che, per evitare il rischio di persecuzione, il richiedente asilo nasconda la propria omosessualità nel suo paese d’origine o dia prova di riservatezza nell’esprimere il proprio orientamento sessuale.

 Sulla seconda questione, lettera c)

77      Tenuto conto della risposta fornita alla seconda questione, lettere a) e b), non occorre risolvere la seconda questione, lettera c).

78      Occorre tuttavia ricordare che, al fine di determinare quali siano in concreto gli atti che possono essere considerati una persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva, non è pertinente distinguere tra gli atti che potrebbero pregiudicare un nucleo essenziale dell’espressione di un orientamento sessuale, ammesso che sia possibile identificarne uno, e quelli che non riguarderebbero tale asserito nucleo essenziale (v., per analogia, sentenza Y e Z, cit., punto 72).

 Sulle spese

79      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara:

1)      L’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, dev’essere interpretato nel senso che l’esistenza di una legislazione penale come quelle di cui trattasi in ciascuno dei procedimenti principali, che riguarda in modo specifico le persone omosessuali, consente di affermare che tali persone devono essere considerate costituire un determinato gruppo sociale.

2)      L’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2004/83, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 2, lettera c), della medesima, dev’essere interpretato nel senso che il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali non costituisce, di per sé, un atto di persecuzione. Invece, una pena detentiva che sanzioni taluni atti omosessuali e che effettivamente trovi applicazione nel paese d’origine che ha adottato una siffatta legislazione dev’essere considerata una sanzione sproporzionata o discriminatoria e costituisce pertanto un atto di persecuzione.

3)      L’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2004/83, in combinato disposto con l’articolo 2, lettera c), della medesima, dev’essere interpretato nel senso che solo gli atti omosessuali penalmente rilevanti ai sensi del diritto interno degli Stati membri sono esclusi dal suo ambito di applicazione. In sede di valutazione di una domanda diretta ad ottenere lo status di rifugiato, le autorità competenti non possono ragionevolmente attendersi che, per evitare il rischio di persecuzione, il richiedente asilo nasconda la propria omosessualità nel suo paese d’origine o dia prova di riservatezza nell’esprimere il proprio orientamento sessuale.