Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 5 Marzo 2004

Sentenza 11 gennaio 2002, n.34

Tribunale Civile di Pordenone. Sentenza 11 gennaio 2002, n. 34*.

Svolgimento del processo

Con il sopraddetto atto di citazione il Grassato evocava avanti il Tribunale la USL n.11 Pordenonese ora ASL n.6 Friuli Occidentale, per sentir condannare detta entita’ al risarcimento per i danni morali e biologici patiti a seguito delle trasfusioni di sangue. Queste erano occorse senza e contro il consenso di esso attore, nel corso di un ricovero presso l’Ospedale di Pordenone, a seguito di un grave incidente stradale. Sia in base ad un preciso documento del Grassato che a seguito dell’intervento della di lui moglie, dei figli e degli amici, era evidente che all’attore,Testimone di Geova, non doveva esser trasfuso sangue. E di un tanto i sanitari dell’Ospedale davano assicurazioni. Tuttavia, esso Grassato subiva trasfusioni ed intervento, di poi -dopo essser stato dimesso e dopo un certo punto- risultava colpito da epatite, tanto che doveva mutare lavoro: da cuoco ad altra attività, con danno evidente. L’Azienda sanitaria locale si costituiva ritualmente e contestava, assumendo la necessità indefettibile della terapia trasfusionale e connesso per salvare la vita del Grassato. E comunque dissenso dalla trasfusione del sangue non vi era stata da parte del Grassato, in via esplicita. Intervento vi era stato per altro, su autorizzazione della procura della Repubblica. Sull’aver il Grassato contratto l’epatite, cio’ non poteva essere dovuto alla trasfusione, visto che controlli ai donatorii di sangue erano stati effettuati in maniera compiuta e nulla di negativo si era riscontrato per tale verso. Comparse ritualmente le parti davanti al giudice istruttore, ciò accadeva. Veniva disposta CTU ad hoc: vi erano osservazioni e CTP. Viera assunzione testimoniale. Vi era documentazione agli atti. Dopo un tanto ed in peregrinando, la causa all’udienza del 20.6.2001 era del giudice monocratico predetto, su precise dichiarazioni delle parti, trattenuta a sentenza, concedendosi ad esse parti i termini di legge per le conclusionali e le memorie di replica, la causa passava in decisione.

Motivi Della Decisione

La presente causa pone la prima sua tematica sul precetto, insito a vari livelli, della indisponibilità della vita umana. Nel nostro ordinamento non si sta eludendo questo precetto a tutt’oggi lo stesso è ineludibile dal nostro sistema, almeno che non si vagheggi in predicozzi e risentimenti stremati dalla prurigine di sentirsi diversi a tutti i costi in spregio di una società statuale a cui apparteniamo comunque. Certe tendenze a normativa sono in atto in parecchi stati del mondo – e persino in paesi della Comunità Europea a cui aderiamo come comunità per altro e solo – e pure in certe lancinanti dichiarazioni di consensi dell’O.N.U. e della O.M.S. (organizzazione Mondiale della Sanità). Ma queste sono per l’Italia – lo Stato Italiano – mere attualità: non riguardano il nostro diritto scritto, quello che ci riguarda. Dal diritto alla salute fisica e psichica che riguarda la carnalità vivente della persona umana fino – adrem ipsam pertinens – alla normativa sulla pietà dei defunti, vi è il rispetto di questa carnalità vivente e pensante persino dopo la morte ovvero dopo la scomparsa della camalità vivente. In sostanza la corporalità come vita ed espressione della vita di una persona non è di per se disponibile. Tuttavia sono, per altro, da tenersi presente aspetti non eludibili.

a) La lettura della Carta, appresa non come “idola fori” ma luogo di regole sovraordinate di una comunità statale, offre una relazionalità umana che vive e si sviluppa nella libertà personale, pregna delle sue identità: da quella della religione a quelle della famiglia sessuata, della capacità di creare ed ideare, di circolare, di essere madri e padri e di poi delle varie forme della aututela e della tutela delle alterità. La lettura relazionata dei codici e delle varie norme offre, senza i rigori o meglio le angustie e le pastoie di una “lettura burocratese” o di “diritto sostanziale”, una considerazione più attenta dei comportamenti umani.

b) Alla luce di un tanto come ut supra apprezzato, si può porre un altro aspetto ovvero la con saputa sentenza della Corte Costituzionale di vetera memoria, la 184/1986, che in una sua parte così adduce (della cui evocazione a pensamento il qui giudicante non ha primizia, sed ubi maior minor cessat): “la vigente Costituzione, garantendo principalmente valori personali, svela che l’art. 2043 c.c. va posto soprattutto in correlazione agli articoli della Carta fondamentale (che tutelano i predetti valori) e che, pertanto, va letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli stessi valori subiscono a causa dell’illecito. L’art. 2043 c.c., correlato all’art.32 Cost., va necessariamente inteso fino a comprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana”.
A cui è prospettica conferma una sentenza di Cassazione emessa nell’ultima parte del precorso millennio: il di 18.11.1997 al n° 11432. A seguito di una tanta riflessione giuridica, l’art. 2043 c.c., relativo ad “alterum non laedere”, in una con l’art. 2 della Carta, si apposta a tutela dei diritti della personalità: la regula codicistica ripresa per tal verso e tal modalità si leva a momento significativo di protezione totale della complessiva entità (ontica – fisica) della persona, compreso il momento essenziale della “religio” rettamente intesa come l’adare ad rem recepire i momenti essenziali per il vivere.
Per il Grassato è il ricevere sangue la attualità negativa per la sua vera vita così interpretato. Atti, 15, pericopi 28 – 29 (e anche se, francamente, tale tesi appare piuttosto disorientare la tipicità cristiano–giudea nel discorso della lettera apostolica ivi richiamata, riferendosi piuttosto alle “leggi del kasher”, per cui il sangue viene eliminato e allontanato dalla persona con il metodo noto come “shechitah”, ma che tuttavia richiamano la buona condotta di vita come “mitzvah” ovvero l’unità pratica della “Torah”, e nel caso de quo appunto una buona condotta di vita del Grassato che viene inficiata).
Orbene cosa è concorso nel concreto per le trasfusioni, avendo presente le perizie tutte in atti ed i testi: a) potevano, i sanitari intervenire nei primi giorni e contenere le emorragie nei limiti accettabili, e non vi hanno provveduto e cosi’ operando no hanno rispettato almeno un po’ la identità del Grassato; b) non sono intervenuti che dopo tre giorni ed hanno interpellato una entita’ esterna ovvero la Procura della Repubblica, sia pur del tutto rispettabile e del tutto autorevole, dimostrandosi una mancanza di responsabilità e di capacità di rispettare di per se la persona come tale; c) di poi hanno praticato trasfusioni ultronee; d) così comportandosi non hanno tenuto il doveroso rispetto della tutela ineliminabile della persona di cui non si può(o non si dovrebbe, come molti ineliminabile della persona di cui non si può (o non si dovrebbe, come molti episodi recenti ci insegnano) poter disporre, senza porre in essere almanco quel minimo di rispetto della identità personale del Grassato, la cui sensibilità religiosa – fatto esistente ed esistenziale della identità della persona in parola – era conosciuta sia con la sua dichiarazione scritta (al presente ed al futuro ed in ogni occasione come dichiarazione rinvenibile, a meno che non si applichi una sorta di antigiuridico silenzio – assenso) sia per quanto detto dalla moglie e dalla figliolanza e dagli amici; d) quindi, se da un lato la indisponibilità della vita della persona non può essere discussa nel nostro sistema, tuttavia l’Ospedale di Pordenone poteva rispettare almeno in parte il Grassato ma non ha praticato questo e deve assumersi la responsabilità di un intervento che offende ed incide sull’esistenza di una persona e deve dare risarcitoria. Va precisato che tanto non può essere imputato ai sanitari ma alla struttura, che non ha predisposta una tutela su una realtà ben conosciuta da tempo nel nostro paese, per evidente difetto di apposti comportamenti, di cui alle direttive interne e delle autorita’ sovraordinate invero così prolisse in circolari, dianzi ad una realtà religiosa ormai diffusa nel nostro paese e sostanzialmente non estranea alla nostra civilta’ giuridica. Di quanto occorso e del qui considerato e’ emblematico e sintomatico il passare dei giorni inattivamente prima di decidere ed il ricorso ad autorita’ esterna per darsi competenza. Come dire: “lupus in fabula venit enim ad me”, ma il Grassato non e’ un “lupus” nemmanco “in fabula”: era ed e’ espressione di un fatto – persona prevedibile e che si poteva organizzare come struttura.
La risarcitoria andra’ valutata nella misura prudenziale ed emblematica – in mancanza per altro di sicuri parametri – del minimo non imputabile a tributi diretti nell’anno, mediamente calcolato nel tempo 1992 – 2002 pari a lire circa 5.000.000 per dieci anni circa e quindi arrotondandosi complessivamente nella somma di lire 50.000.000 (Euro 25.822,84) fino alla data di dimissione della presente sentenza ovvero il di’ 11 gennaio 2002 e di poi maggiorandosi la predetta somma da tale data del tasso annuo legale con correzione prudenziale in risarcitoria, tramite delatore Pil cautamente calcolato a base anno 2000, data certa, e cosi’ pari al 3,50% annuo fino al saldo.

La seconda tematica, di lite, è quella relativa alla causazione della epatite B al Grassato, a seguito delle trasfusioni. Di piu’ trasfusioni, non di una sola, evidentemente A tal proposito non convincono la tesi della convenuta sul momento rilevante che non via sia nesso eziologico tra trasfusione e la presenza di epatite B del Grassato, a cui si aggiunge la emocromatosi, a danno di questi. Si veda il perche’. In sequenza.
a) La temporalità adeguata come connessione tra un prius ed un post- trasfusione ed epatite B – adduce alla imputazione di un tanto all’Ospedale di Pordenone b) Le modalita’ di acquisizione della epatite B, che è quella trasfusionale. C) La escusione di colpevolezza in capo all’Ospedale e’ a carico dello stesso, escusione che non è stata provata: c1) non e’ stato registrato il numero identificativo sulla cartella per cui non e’ possibile escludere errori di corsia ed inverso il SIT indica l’assegnato e non il trasfuso; c2) la dichiarazione del SIT non è stata sottoposta in modo adeguato a verifica ne’ dal CTU ne’ della CTA; c3) non e’ sufficiente l’autodichiarazione degli addetti e collegati all’Ospedale; c4) il quantitativo di ferro immesso nel Grassato e’ del tutto ultroneo ed eccessivo e per tal causazione la emocromatsi non e’ di mera logica sconfessabile come negligenza dell’Ospedale; c4) quest’ultima causazione è sintomatica in modo inoppugnabile di una negligenza operativa complessiva dell’Ospedale. Va ulteriormente precisato che un tanto non puo’ essere imputato ai sanitari ma alla struttura, che non ha predisposta una precisa tutela su una forma infettiva che largamente e consaputamente colpisce molti trasfusi e ben conosciuta da tempo nel nostro paese, per evidente difetto di apposite prudenze al di la’ delle formali dichiarazioni autocertificative (e anche nel caso de quo vi appare lo schermo della Procura della Repubblica, che non può certamente coprire la negligenza dell’Ospedale la quale ben appare invero da tutto il complessivo comportamento).
Il danno biologico causato al Grassato e’ ben grave e dai dati in atti si puo’ quietamente appostarlo nel 30% (una situazione permanente in via fisiologica e psicologica, inerente e incidere alla e nella stessa corporalità).
Per anni 42 del Grassato e con l’uso delle Tabelle Trivenete anno 1999 – anche se pertinenti ad altre causazioni ma comunque utilizzabili come parametri, – si offre un nummario a risarcitoria di Lire 131.910.000 (4.397.000 x 30) e di Euro 68125,83 al 31.12.1999. Da tale data, sulla predetta capital somma, con il calcolo prudenziale di cui sopra, maturano frutti civili correnti del 4% annuo usque ad 11.1.2002 e di poi del 3,50% annuo fino al saldo.
Va aggiunto infine che la USL de quo ora ASL, come costituitasi e perdurante come tale in lite, risponderà di forma e di sostanza attraverso il rispettivo Commissario addetto. In caso contrario il suo comportamento processuale sarebbe alquanto discutibile.

Il tribunale deve quindi pronunciare la condanna, a risarcitoria morale-esistenziale e biologica, della U.S.L. n° 11 Pordenonese ora Azienda per i Servizi Sanitari n° 6 Friuli Occidentale a pagare, a mezzo del soggetto ad hoc previsto, al signor Gassato Mirco, rispettivamente, la somma di Euro 25.822,84 maggiorata del 3,50% annuo dal 11.1.2002 al saldo ed altresi’ la somma di Euro 68.125,83 maggiorata del 4% annuo dal 31.12.1999 al 11.1.2002 e di poi del 3,50% annuo fino al saldo.
Le spese di lite seguono la soccombenza.
La provvisoria esecuzione conseguente di diritto (art. 282 cpc).
Ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, condanna la U.S.L. n° 11 Pordenonese ora Azienda per i Servizi Sanitari n° 6 Friuli Occidentale a pagare, a mezzo del soggetto ad hoc previsto, al signor Grassato Mirco a risarcitoria morale-esistenziale e biologica, rispettivamente, la somma di Euro 25.822,84 maggiorata del 3,50% annuo dal 11.1.2002 al saldo ed altresi’ la somma di Euro 68.125,83 maggiorata del 4%annuo dal 31.12.1999 al 11.1.2002 e di poi del 3,50% fino al saldo; condanna al pagamento delle spese di lite nella somma complessiva di Euro 16.127,40 (gia’ lire 31.227.000), ivi compresi Euro 31.176,21 (gia’ lire 6.150.000) per competenze, Euro 11.103,82 (gia’ lire 21.500.000) per onorari di avvocato, Euro 1.428,00 (gia’ lire 2.765.000) per spese forfetarie 10% su competenze ed onorari, Euro 119,82 (gia’ lire 232.00) per spese imponibili ed Euro 299,55 (gia’ lire 580.000) per spese non imponibili, piu’ IVA e Cnap come per legge; ed altresi’ Euro 1.145,50 (gia’ lire 2.218.000) piu’ IVA e CP se dovute per spese CTU.

Clausola di esecutorieta’.

(omissis)

* COMPARSA CONCLUSIONALE

Attore: Mirko Grassato, con gli avv.ti Giampiero Mattei e Marco Marchi

Convenuta: Azienda per i servizi sanitari n. 6 “Friuli Occidentale”, con l’avv. Gustavo Montini
Causa civile sub n. r. g. 1335/92 – dott. Pellarini

Ultima Udienza 20 giugno 2001
Con atto di citazione di data 20 marzo 1992 Mirco Grassato chiamava in giudizio l’allora U.S.L. n. 11 “Pordenonese”, poi A.S.L. n. 6 “Friuli Occidentale”, per provocarne la condanna al risarcimento per i danni morali e biologici subiti a seguito di un ricovero presso l’Ospedale di Pordenone. Questi gli eventi: in data 17 gennaio 1990 ad ore 19.30 circa l’attore era rimasto vittima di un gravissimo sinistro stradale e, per tale motivo, veniva trasportato d’urgenza presso l’unità di rianimazione Dell’Ospedale di Pordenone. Il personale sanitario immediatamente avvisava la moglie di Mirco Grassato, Augusta Pirovano: il nome di quest’ultima era riportato sul retro dell’unico documento rimasto indosso all’attore, ovvero un tesserino con il Titolo “NIENTE SANGUE”. L’attore era in possesso di tale documento poiché, dato
che la sua confessione religiosa è quella dei Testimoni di Geova, i seguaci di tale Congregazione usano conservare sempre tale tesserino poiché in caso di emergenza tengono a manifestare immediatamente che la propria religione proibisce nel modo più assoluto trattamenti sanitari di tipo emotrasfusionale.
Presso l’Ospedale di Pordenone arrivava immediatamente la moglie di Mirco Grassato nonché i figli e, subito dopo, anche gli amici Gianni Borin e Paolo Bedin. Tutte queste persone avevano cura di ribadire più volte ai medici curanti contattati di non sottoporre Mirco Grassato a trasfusioni di sangue: tutti i sanitari più volte confermavano di avere capito tale esigenza e davano le più ampie assicurazioni che l’attore non sarebbe mai stato sottoposto a tale tipo di trattamento. Mirco Grassato, nei giorni successivi, subiva una serie di operazioni ed in data 16 febbraio 1990 veniva trasferito alla seconda divisione dell’Ospedale di Pordenone per essere curato dal dott.Cerutti, medico che garantiva l’adozione di tecniche operatorie che avrebbero escluso trasfusioni. In data 13 aprile 1990 Mirco Grassato veniva dimesso, ma le sue sofferenze non terminavano a questo punto: infatti al dolore relativo al decorso post operatorio si aggiungeva un altro malessere, che per un certo periodo di tempo rimase non identificato. Per tale motivo Mirco Grassato si sottoponeva ad un ciclo di analisi per meglio accertare se i disturbi fisici fossero stati da addebitare al suo infortunio stradale oppure ad altre cause: purtroppo si trattava della seconda ipotesi in quanto veniva rilevato che l’attore aveva contratto una forma di epatite da trasfusione.
All’inizio Mirco Grassato non poteva credere a tale risultato, ma anche le successive analisi altro non potevano fare se non confermare la precedente e tragica diagnosi. L’attore allora si faceva consegnare (dopo numerose tribolazioni) la propria cartella clinica dall’Ospedale di Pordenone ed immediatamente aveva contezza dei trattamenti terapeutici al medesimo somministrati: nonostante le numerose rassicurazioni dei medici ai parenti stretti ed agli amici dell’attore si riscontrava con drammatica chiarezza che in realtà Mirco Grassato era stato sottoposto a numerosi cicli trasfusionali. La vita dell’attore è repentinamente mutata: non solo, dal punto di vista fisico, il medesimo doveva lottare contro una grave patologia come l’epatite, ma anche, per ciò che riguarda la personalissima sfera morale, il medesimo subito capiva che gli era stata cagionata una ferita mai rimarginabile. Infatti per un aderente alla confessione dei Testimoni di Geova il precetto religioso riguardante il divieto di accettare nel proprio corpo sangue altrui rappresenta un dettame non derogabile: Mirco Grassato, in una parola, capiva che, suo malgrado, aveva perso l’originaria purezza in quanto, come frutto unico di una palese violenza privata da parte dei medici, egli aveva dovuto subire una terapia che mai avrebbe voluto accettare. Tutto questo gettava l’attore nel più profondo sconforto: egli, in poco tempo, era divenuto un soggetto infermo sia fisicamente (epatite) sia religiosamente (trasfusione di altrui sangue). Né assolutamente poteva importare che tutto ciò fosse stato il frutto di una evidentissima negligenza da parte dei sanitari che lo avevano in cura: ormai il danno era stato compiuto e non poteva più essere scorta una strada per trovare guarigione sia al corpo sia allo spirito.
Nei confronti di tali (drammatiche) argomentazioni la difesa dell’Azienda sanitaria locale opponeva una serie di argomentazioni che, prima facie, sono apparse tanto eleganti quanto vacue. In primo luogo veniva sostenuta la necessità assoluta della terapia emotrasfusionale che sarebbe stata l’unica cura possibile per evitare il decesso del Grassato (chiaramente quello fisico e non quello etico). Inoltre si faceva riferimento al fatto che l’attore, portato al pronto soccorso in stato di incoscienza, non aveva in realtà mai formulato un dissenso esplicito alle terapie somministrate: in ogni caso si faceva presente che i sanitari avevano operato su autorizzazione del Procuratore della Repubblica. Infine si diceva che la contrazione dell’epatite non poteva essere dovuta alle trasfusioni operate semplicemente perché i dovuti controlli ai donatori di sangue erano stati effettuati in maniera compiuta. Questa difesa contestava decisamente tutte queste presunte ragioni: una definitiva formulazione di esse sarà presentata nella parte successiva del presente atto.
Successivamente alla presentazione delle istanze istruttorie, all’udienza di data 14 dicembre 1994 il Giudice istruttore nominava il proprio c.t.u. al fine di accertare l’entità e la qualità delle lesioni riportate, la necessità di porre in atto la terapia trasfusionale, il nesso di causalità tra l’effettuazione della terapia e la malattia contratta da Mirko Grassato nonché l’effettività del dissenso del medesimo all’esecuzione delle cure con emotrasfusioni. Successivamente venivano depositate dalle parti le rituali osservazioni alla perizia redatta dal consulente d’ufficio e venivano integrate e precisate le richieste di prova.
Dopo lunga discussione sull’ammissibilità dei rispettivi mezzi istruttori, che ha comportato altresì una serie di rinvii, solamente in data 26 settembre 2000 si procedeva all’audizione testimoniale, continuata all’udienza di data 11 aprile 2001.
Precisate le conclusioni in data 20 giugno 2001 il presente procedimento giunge ora in decisione: alla luce di quanto dedotto in corso di causa nonché in virtù del materiale istruttorio acquisito agli atti, questa difesa vede le proprie argomentazioni ulteriormente corroborate e, a tale scopo, vengono formulate in questa sede le seguenti deduzioni difensive.

I) Libertà individuale nella scelta delle terapie
Prima di entrare nel merito della questione questa difesa ritiene assolutamente necessario discutere sul grado di libertà di cui ogni persona deve godere in materia di trattamento sanitario e, più in particolare, sulla liceità di interferenza del medico curante nelle scelte del medesimo paziente. Per trattare di questo argomento ci si deve riferire in via unica a quanto risulti dal dettato costituzionale, con specifico riferimento agli artt. 13 e 32. Nel punto in cui la suprema norma del nostro ordinamento sancisce che la libertà personale è inviolabile, sicuramente non ha inteso formulare una stereotipata clausola di stile, ad inutile ornamento del testo, bensì in tale dicitura è facilmente desumibile quello che è il principio primo dello stato di diritto. Ogni individuo, tutelato dallo Stato in quanto tale, è soggetto di diritto in prima istanza per ciò che riguarda l’assoluta libertà di autodeterminare le proprie azioni con la propria volontà. In tale quadro di principi deve anche desumersi che la libertà di un soggetto non si estrinseca solamente nella facoltà di un individuo di agire e pensare per suo astratto vantaggio, ma anche ad ipotetico suo detrimento. Ciò significa che un uomo, nella sua facoltà di autodeterminarsi, può anche volere rinunciare ad un’attività oppure ad una condotta, sua o di terzi, che secondo l’opinione comune potrebbe apportare un guadagno oppure una qualsiasi prestazione positiva. E questo è il caso anche del trattamento sanitario: appare ovvio e naturale che una qualsiasi attività medica nei confronti di un soggetto sia volta a garantire al medesimo un miglioramento dello stato di salute o, comunque, una diminuzione della sofferenza e del dolore che una determinata patologia comporta. Tuttavia non è del pari ovvio che una persona in ogni caso sia forzata a subire una terapia che, quando anche possa portare verso la guarigione, non sia voluta dal paziente medesimo. Infatti quello che può essere un evidente vantaggio fisico può non corrispondere ad un pari vantaggio morale: il soggetto, che viene sottoposto ad una terapia non voluta può anche migliorare di salute, ma peggiorare dal punto di vista mentale in quanto il suo pensiero, nell’ottica di una valutazione costi – benefici, può anche essere rivolto a preferire il permanere della patologia piuttosto che una imposta guarigione medica. Tale assunto trova precisa rispondenza nella Costituzione, che non forza assolutamente un soggetto a scegliere sempre la via dell’integrità fisica, bensì lascia sempre al medesimo la facoltà di optare almeno per due soluzioni, fra le quali, ovviamente, anche quella che conduce il paziente ad un aggravamento della patologia. Nello specifico, il principio di cui all’art. 13 Cost. è meglio esemplificato nel dettato di cui all’art. 32/2 Cost. che perentoriamente prescrive come nessuno possa essere sottoposto ad un trattamento sanitario contro la sua intenzione a meno che la legge, nel rispetto della persona umana, non lo imponga. Questo è un principio
di suprema civiltà, che rappresenta una delle fondamentali estrinsecazioni del diritto dello Stato liberale. Se è vero quanto i maggiori pensatori dell’illuminismo giuridico determinavano, e cioè il soggetto ha la facoltà di operare come piace nel rispetto della legge morale che ne ingiunge ad altri il pari rispetto (cfr. A. Rosmini, Filosofia del diritto, 1841 ed anche C. Cattaneo, Del diritto e della morale, 1853 nonché G.Audisio, Iuris naturae et gentium privati et publici fondamenta, 1853), è del pari conseguente che in ogni momento in cui una parte esterna forzi la morale altrui compie un attività non lecita in primo luogo secondo il diritto naturale. E quando il ius naturale venga trasfuso in diritto positivo, come è il caso dell’art. 32/2 Cost., non v’è dubbio che sussiste anche una chiara violazione della norma. La scelta di vita, o della qualità della vita, deve intendersi come opzione esercitabile unicamente dal soggetto interessato e non da altri: pertanto, qualora un uomo rifiuti una cura che astrattamente potrebbe essere utile, non può, in assenza. di specifiche disposizioni di legge contrarie, essere costretto a subire il trattamento in quanto una persona non è solamente composta dalla parte fisica, bensì anche da quella mentale e proprio questa dimensione può essere irrimediabilmente distrutta nel caso in cui vi sia un qualsiasi tipo di costrizione. La Costituzione, nel garantire il diritto alla salute, non ha stabilito alcuna cogenza: non è stato imposto che in ogni caso l’individuo abbia l’obbligo di scegliere ciò che è meglio per la sua salute fisica. Qualora l’individuo ricerchi la guarigione lo Stato deve fornirgli tutti i supporti necessari, ma quando un uomo si autodetermini alla prosecuzione del proprio stato patologico non v’è alcun caso in cui altri soggetti possano a forza operare in senso contrario. In poche parole, la Costituzione ha inteso conferire il massimo grado di personale responsabilità all’individuo.
A una tale impostazione ha fatto sicuramente riferimento il Tribunale di Milano, che in una famosa pronuncia (4 dicembre 1997) ha sancito che “nel diritto di ogni persona di disporre della propria salute ed integrità personale, pur nei limiti previsto dal nostro ordinamento, deve essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure mediche” con ciò significando che la libertà di volizione di un individuo può andare anche oltre la più facile, spontanea ed istintiva scelta possibile.
Il tutto si può ridurre ad un semplice sillogismo: se è rimesso alla volontà della persona tutto quello che la norma non regola e non esiste alcuna legge che impone un trattamento sanitario, allora deve concludersi che l’interessato deve essere libero di scegliere l’ipotesi che al medesimo sembri migliore. Riportando un tale ragionamento al caso di Mirco Grassato, le conseguenze sono ovvie. L’attore, a mezzo della propria libera volontà resa con dichiarazione scritta, ha affermato di non volere un trattamento sanitario di tipo emotrasfusionale e tale intenzione è stata successivamente confermata dalle testimonianze di moglie, figli ed amici accorsi all’Ospedale di Pordenone. Nonostante tale volizione, espressa in multiforme maniera, i medici hanno operato in modo difforme, rendendo assolutamente vana la scelta dell’attore, che tutto era fuorché indeterminata. Inoltre, nell’ipotesi di cui al presente procedimento, appare chiaro che non esisteva all’epoca delle cure somministrate a Mirco Grassato alcuna legge che imponesse di effettuare emotrasfusioni al medesimo né, ma di questo si parlerà dopo, che sussistesse uno stato di necessità talmente grave da rendere indispensabile il trattamento operato. E dunque, almeno per quanto si è trattato sino ad ora, appare evidente che all’attore è stato negato il diritto di scegliere le proprie cure così come determinato dall’art. 32/2 Cost. Deve anche essere detto, in conclusione del presente paragrafo, che la più autorevole dottrina in materia concorda pienamente con quanto sostenuto da questa difesa. Secondo quanto sostenuto dal Caravita (in Crisafulli V. – Paladin L., Commentario breve alla costituzione, Padova, 1990) `per quanto riguarda le emotrasfusioni la mancanza di apposita legge che le preveda spinge la dottrina a ritenere che non possano essere imposte”: un tale prestigioso parere si creda non abbia bisogno di commento così come quanto sostenuto da altri importanti esponenti della critica costituzionale, che arrivano altresì a dubitare della costituzionalità di una legge che, al pari del trattamento manicomiali, possa rendere obbligatorie le terapie con emoderivati (a tale scopo cfr. Crisafulli V., La Costituzione e le sue disposizioni di principio nonché Sandulli in D. soc. 1978, p. 517 che parla del diritto a non farsi curare).

2) Insussistenza di qualsivoglia assenso al trattamento emotrasfusionale
E’ circostanza ormai pacifica, per quanto visto e sentito in causa nonché per quanto risulta dalla comune conoscenza di ognuno, che la religione, che viene professata dall’attore Mirco Grassato e dai Testimoni di Geova, è caratterizzata da un incrollabile ed immodificabile precetto: secondo l’interpretazione dei testi sacri compiuta dai Testimoni di Geova, la volontà di Dio esclude che una persona umana possa vivere attraverso il sangue di altro uomo. Ciò non viene concepito in virtù di uno specifico passo biblico (Atti 15:28,29) che lapidariamente recita: “Astenetevi dal sangue!”. In virtù di tale fondamentale dettame spirituale ogni Testimone di Geova reca sempre con sé, come ha fatto Mirco Grassato, un tesserino in cui si richiede al medico, che dovesse curare il paziente in uno stato di emergenza, di non somministrare sangue altrui, bensì solamente preparati non ematici. Una tale volontà, come specificato nel documento, rappresenta un’intenzione immodificabile in quanto l’adesione alla confessione dei Testimoni di Geova comporta necessariamente anche il rispetto del precetto di cui sopra: in ogni caso, come è bene puntualizzato nel tesserino, il titolare avvisa espressamente che qualora venga trovato dai sanitari in stato di incoscienza i congiunti ed i Testimoni indicati sono abilitati a manifestare la perdurante volontà del soggetto.
Il problema giuridico che si pone nel caso di Mirco Grassato è duplice e può essere scomposto come segue:

1) può dirsi valido il dissenso alle terapie emotrasfusionali espresso nel documento di volontà portato sempre indosso e, soprattutto, in caso di emergenza può il congiunto (come la moglie) esprimere il perdurare di tale volizione?

2) Nel caso di specie, Mirco Grassato ha disposto intorno ad un diritto indisponibile (cfr. il successivo §)?

Per ciò che riguarda il primo problema la risposta deve considerarsi affermativa. Il consenso dell’avente diritto, anche per ciò che riguarda la più moderna dottrina penalistica (cfr. Mantovani F., Diritto penale, Padova, 2001, p.266), non rileva solamente quando è reale, ossia quando venga versato espressamente o tacitamente nell’attualità dell’evento, ma anche quando è presunto. Una tale implicita manifestazione di volontà deve essere intesa in questo modo: sussiste il consenso quando vi sia una ragionevole e concreta possibilità dell’espressione di volontà affermativa da parte del soggetto nonché l’interesse del medesimo deve essere superiore a quello sacrificato.
Non v’è nessun dubbio che il caso de quo presenta in se i requisiti elencati. Il fatto che un soggetto, come testimonianza della propria incrollabile fede religiosa, porti sempre indosso, nella previsione di possibili emergenze (purtroppo verificatesi come nell’evento di cui si tratta), un tesserino con la chiara indicazione del rifiuto del sangue altrui, altro non è che la dimostrazione di una perdurante volizione volta unilateralmente a manifestare all’esterno non solo il proprio credo, ma anche la propria volontà. E, in più, il fatto che la moglie di Mirco Grassato nonché i confratelli che accorsero presso il servizio di pronto soccorso dell’Ospedale di Pordenone abbiano ribadito le intenzioni dell’interessato non può che chiaramente dimostrare come l’intenzione dell’odierno attore fosse talmente chiara e decisa che anche altri soggetti ne erano perfettamente a conoscenza. D’altra parte deve anche dirsi che l’insistenza dei familiari e degli amici di Mirco Grassato si era placata solamente in quanto tutti i medici e sanitari interpellati avevano dato ampie rassicurazioni sul fatto che non sarebbero state realizzate terapie a base di emoderivati: in caso contrario è assolutamente certo che gli ulteriori ammonimenti nei confronti dei curanti si sarebbero immediatamente e nuovamente levati.
Una fede vissuta così intensamente, e così si arriva a trattare del secondo requisito, non può che dimostrare che il Testimone di Geova Grassato, nello scegliere questa Confessione religiosa (discutibile finché si vuole, ma liberamente voluta), era bene consapevole che durante tutta la sua vita non avrebbe dovuto fruire del sangue altrui: la scelta era già stata fatta ed è continuata ogni giorno dell’esistenza dell’attore sino al 17 gennaio 1990 e dunque non è nemmeno da porsi la questione intorno al bene che il Grassato ha inteso sacrificare per mantenere il ben più alto valore della purezza spirituale.
In ogni caso, per verificare l’effettività del consenso si deve notare un altro importantissimo particolare: sempre con riferimento al tesserino con la dicitura “NIENTE SANGUE” si nota che la dichiarazione di volontà è stata redatta in data 11 Gennaio 1990, ovvero a soli sei giorni dalla data dell’incidente. I Testimoni di Geova, infatti, periodicamente e costantemente aggiornano tale documento in quanto vogliono rendere edotti i medici che la loro intenzione di rifiutare terapie emotrasfusionali perdura: non basta infatti che un soggetto, abbracciando la fede, rediga e sottoscriva una sola volta nella sua vita il tesserino. A cadenza annuale (per aggiornare l’età nonché gli anni di fedeltà alla confessione di Geova) il documento viene rinnovato e, parallelamente, per il religioso si rafforza sempre di più la convinzione di non accettare il sangue altrui. E quindi, nel caso di Mirco Grassato, si tratta molto di più di un consenso presunto: si ha la certezza che qualora l’attore non fosse stato trasportato all’ospedale in coma avrebbe sicuramente rifiutato qualsiasi trasfusione. E ciò a maggior ragione in presenza di una dichiarazione compiuta e liberamente intesa a meno di una settimana dal tragico incidente nel quale lo stesso è
stato coinvolto.
Nonostante tutto questo i medici dell’Ospedale di Pordenone hanno comunque compiuto terapie con sangue altrui: contro il volere di Mirco Grassato, della moglie, dei figli e dei confratelli accorsi presso il nosocomio. Ed inoltre, per essere sicuri che, malgrado ciò, non vi sarebbero stati problemi di natura legale che cosa hanno fatto i medici? Hanno chiesto al Procuratore della Repubblica di ricevere autorizzazione per operare trasfusioni e ciò sulla base delle uniche informazioni dai medesimi fornite! Questo evento ha del grottesco: è stata prevaricata in una sola volta l’intenzione del soggetto interessato e delle persone che più gli erano vicine demandando la difficile scelta ad una Autorità pubblica che, per quanto importante, certamente non può sostituirsi con il proprio volere alla decisione del diretto interessato in quanto il singolo uomo è solamente sottoposto alla legge e non al volere di altra persona,
seppure socialmente più rilevante. Ed è inammissibile che i medici, per dirimere la questione, abbiano ritenuto che la panacea di tutti i mali fosse il Procuratore della Repubblica, assolutamente estraneo alle vicende personali e morali di Mirco Grassato, nonché totalmente digiuno di cognizioni mediche. E perché, deve dirsi, i medici hanno sentito il bisogno di sentire il parere di un soggetto esterno? La risposta è semplice: perché anche essi hanno sentito che il
volere di Mirco Grassato era cogente, intenso ed umanamente pressante. Qualora i sanitari avessero subito pensato all’irrilevanza del volere di un soggetto in coma, di certo avrebbero immediatamente trasfuso il sangue: ed invece così non è stato in quanto la questione è stata posta ed era sicuramente seria. La soluzione a tale problema, tuttavia, non la poteva dare il procuratore della Repubblica, bensì la Costituzione: nessun soggetto può essere obbligato a subire un trattamento non voluto. Ed allora bene i medici avrebbero dovuto capire che le terapie si sarebbero dovute orientare in altro senso. E ciò anche perché un’eventuale procedura di autorizzazione si sarebbe dovuta svolgere in altra maniera poiché, in questo caso, Mirco Grassato in realtà non è stato altro che il soggetto passivo del volere di un terzo, che comunque non aveva alcuna conoscenza medica e che, aspetto fondamentale, non aveva alcun titolo né per essere interpellato né per rispondere e statuire. Come può un uomo disporre dell’integrità fisica di un altro uomo? A questa tragica domanda la perentoria risposta è sottintesa.

3) Insussistenza dello stato di necessità

Dal momento che si è dimostrato che il volere di Mirco Grassato era assolutamente espresso e chiaro, si deve valutare del pari se il medesimo avesse voluto rinunciare ad un bene non disponibile come la vita. A questo tema si collega necessariamente la valutazione sullo stato di necessità: sussisteva effettivamente la circostanza di cui all’art. 54 c.p., ovvero un pericolo di vita del paziente in virtù di un fatto non volontariamente causato dagli stessi agenti? La risposta è negativa e l’evidenza dei fatti contribuirà a dimostrare ciò. Si noti un dato semplicissimo da valutare: la prima trasfusione è stata realizzata in data 20 gennaio 1990 alle ore 14.00 circa. Ciò significa che il primo trattamento con emoderivati è avvenuto a quasi tre giorni di distanza dall’incidente (di data, si ripete, 17 gennaio 1990). Perché, domanda che un soggetto ignaro dei principi fondamentali dell’arte medica, la necessità di sangue si è
manifestata con così deciso distacco temporale? La risposta viene data in maniera più che chiara dal testo della c.t.p. a firma prof. Angeloni di data 23 giugno 1994, nonché dalle successive osservazioni del medesimo consulente: all’arrivo di Mirco Grassato presso il Pronto Soccorso i medici curanti hanno compiuto una serie di errori di cui è
bene avere contezza. In primo luogo, nonostante l’attore avesse subito presentato una perdita di sangue come donseguenza del politraumatismo, non è stata effettuata alcuna terapia di emostasi. Ciò appare essere stata una mancanza sicuramente grossolana: invece che frenare (come era possibile compiere) l’emorragia in corso, i medici hanno lasciato che Mirco Grassato perdesse sangue per dopo effettuare una successiva compensazione sanguigna a mezzo di trasfusione. Ma di certo non si può dire che i risultati delle due terapie possano essere considerati equivalenti. Infatti, sempre secondo quanto autorevolmente sostiene il prof. Angeloni, è molto più efficace la cura emostatica in quanto i rischi collegati alle trasfusioni sono i seguenti:
a) le difese immunitarie vengono depresse;
b) si aiutano gli agenti infettivi a penetrare nell’organismo;
c) viene introdotto nel corpo del malato sangue che viene mantenuto fluido a mezzo di anticoagulante, con conseguente danno alle piastrine.
Non sembra che la differenza sia di poco conto: in ogni caso si ritiene che anche il quivis de populo riesca a capire che è meglio conservare il proprio sangue piuttosto che fare ricorso a materiale ematico altrui. Sorprendentemente questa difesa deve fare notare che una tale circostanza è stata completamente taciuta dal c.t.u.: sembra davvero difficile pensare che un così chiaro accademico come il prof. Cortivo non si sia potuto accorgere di un evento così drammaticamente importante. I medici dell’Ospedale di Pordenone non hanno minimamente rilevato, durante i primissimi giorni di ricovero, che la situazione emocoagulativa stava precipitando: in poche parole, Mirco Grassato si stava progressivamente dissanguando e nessuno ha fatto nulla per evitare il peggioramento di questo stato (cosa che poi, purtroppo, si è verificata). Ed allora non è vero che l’unica terapia attuabile fosse stata quella trasfusionale poiché tale conclusione confligge apertamente con la realtà. Le trasfusioni si sono rese necessarie solamente per un motivo: dopo appena tre giorni di degenza Mirco Grassato aveva perso circa 7 unità di sangue, ovvero sette grammi percentuale di emoglobina (si tratta di più di due litri di sangue!). Perché si è aspettato che l’attore perdesse questa grande quantità di sangue? Perché il primo trattamento emostatico è stato effettuato a sei giorni di distanza, addirittura due giorni dopo la prima trasfusione? Perché, quesito insolubile, i medici hanno aspettato il momento in cui la trasfusione si è resa necessaria invece che adottare prima e tempestivamente una terapia volta a conservare il sangue già in circolo nel corpo dell’attore? La risposta è unica e prende il nome di colpa gravissima ed inescusabile.
Dunque deve essere osservato che, qualora Mirco Grassato fosse stato efficacemente curato, non vi sarebbe stato alcun bisogno di ricorrere alla terapia emotrasfusionale. Tutto questo ha un preciso senso giuridico: non potrà mai essere invocata dalla controparte la circostanza dello stato di necessità. L’Amministrazione sanitaria non potrà mai obiettare alle argomentazioni dell’attore che le trasfusioni sarebbero state l’unica terapia possibile in quanto ne esistevano altre alternative che non avrebbero importato utilizzo di emoderivati, contro il volere di Mirco Grassato. Anzi, lo stato di necessità è stato creato gli stessi medici per la gravissima mancanza consistita nel non aver effettuato alcuna terapia emostatica ed aver lasciato dissanguare l’attore nei primi giorni di ricovero. La norma dello stato di necessità è chiara: il pericolo di vita non deve essere stato causato dall’agente. Nel nostro caso, invece, si tratta di un diverso evento: nel presunto stato di necessità i medici curanti sono giunti in virtù di un proprio colpevole e previo comportamento, non accorgendosi della necessità di un tempestivo intervento di emostasi. Ed ancora il medesimo errore è stato ripetuto in quanto il colpevole attendismo si è protratto sino al 22 gennaio 1990,
data in cui è stata iniziata la prima terapia per arginare le emorragie in corso. Se si pensa che la prima trasfusione è stata compiuta il giorno 20 gennaio 1990 è singolare ciò che si può dedurre: da un lato si trasfondeva sangue nel corpo di Mirco Grassato, ma dall’altra non si pensava (non era difficile) che fino a quando non si fosse compiuta alcuna emostasia il materiale ematico sarebbe continuato a fuoriuscire. Il risultato di tutto ciò è bene condensato, ancora una volta, negli scritti del prof. Angeloni: la perdita complessiva di dieci unità di sangue non solo ha rappresentato l’insorgere di una inutile complicazione, ma anche ha esposto l’attore ad un particolare rischio di epatoma. Questa difesa tragicamente sospetta che gli eventi si possano essere svolti in questo modo: al terzo giorno di degenza i medici avevano già ravvisato il loro grave errore e, non avendo più altro modo per porvi riparo se non a mezzo di trasfusione ed essendo ben consapevoli del rifiuto del Grassato, hanno tentato di cercare una giustificazione al loro futuro operato usando il Procuratore della Repubblica come riparo ai loro sbagli. Altrimenti non si spiega tutto ciò che è accaduto: la situazione di emergenza si è manifestata sicuramente appena dopo il ricovero presso il pronto soccorso, ma all’epoca non v’era bisogno di sangue in quanto le emorragie di Mirco Grassato erano contenute. Solamente tre giorni dopo, quando all’attore non era stata applicata alcuna emostasi, si è manifestata l’urgenza di trasfusione. Ma questa non si può chiamare stato di necessità, bensì conseguenza di una grave negligenza! Inoltre deve dirsi che il Procuratore della Repubblica, nel suo simulacro di concessione, non ha assolutamente ritenuto che le trasfusioni fossero necessarie e come tali meritevoli di autorizzazione, in quanto si è solo pronunciato in materia di consenso. Sulle trasfusioni non è stato deciso nulla, ma comunque i medici hanno ritenuto di effettuare tale terapia in quanto, dopo tutti gli errori commessi, una tale superflua cura si era resa necessaria. Si ripete, con il prof. Angeloni, che le trasfusioni potevano essere evitate “con una tempestiva emostasi medica e soprattutto chirurgica dei vasi lacerati nelle zone di frattura”. E’ chiaro che dopo aver colpevolmente lasciato fuoriuscire dal corpo di Mirco Grassato una quantità di circa due litri di sangue era necessario ricostituire la riserva sanguigna: ma questo non può essere definito come stato di necessità ex artt. 54 c.p. e 2045 c.c. in quanto il pericolo di danno grave alla persona di Mirco Grassato è stato causato per fatto proprio dei sanitari.
Questo è il punto (fondamentale nel procedimento de quo) che il c.t.u. prof Cortivo dimentica di sottolineare, ma che comunque emerge in tutta la sua evidenza: colui che contribuisce a provocare lo stato di necessità dopo non può invocare il medesimo a scusante. Un tale principio è ribadito da copiosa giurisprudenza che, in questa sede, si cita brevemente. Ad esempio, in Cass. Pen., IV, 9213/1988 si esclude l’operatività dell’esimente in questione anche nel caso di comportamento colposo: “In tema di reati colposi la scriminante prevista dall’art. 54 c .p. è configurabile solo quando il soggetto non abbia concorso, con un precedente comportamento colposo, a creare la situazione di pericolo”. Nel nostro caso è evidente che il negligente comportamento dei medici ha poi provocato la necessità di ricorrere in ultima istanza alle trasfusioni, che al momento del ricovero non erano necessarie. Le medesime conclusioni possono essere ritrovate anche all’interno di pronunce in materia civile, fra le quali, assume fondamentale importanza Cass. 2660/1971 (la prima) nel punto in cui si parla di presupposizione nell’autore del danno di “una condotta non solo cosciente e volontaria, ma anche contraria ad una norma di legge o di comune prudenza”. E, ci si domanda, quale più grave imprudenza di aver lasciato che Mirco Grassato fosse andato progressivamente dissanguandosi? Dunque, in conclusione, si vede che nel caso de quo è impossibile parlare di stato di necessità.
E si deve anche aggiungere, come ulteriore nota, che in ogni caso non tutte le trasfusioni eseguite di forza sul corpo dell’attore erano necessarie. Come anche acclarato dal c.t.u., i trattamenti operati successivamente alla data del 31 gennaio 1990 potevano benissimo essere sostituiti con altre terapie non a base di emoderivati in quanto comunque doveva ritenersi fugato ogni pericolo di vita. Questa circostanza non è di poco conto e contribuisce ad accrescere, se ciò ancora sia possibile, la responsabilità dei sanitari dell’Ospedale di Pordenone. I quali, avendo dimenticato da
tempo ogni esigenza del paziente ed avendo più volte calpestato le scelte del medesimo, hanno proseguito con le cure non volute anche in un periodo in cui queste apparivano superflue. Una tale circostanza ha altresì contribuito ad aumentare i rischi di contagio da epatite in quanto, omettendo le necessarie cautele, si è continuato a trasfondere sangue senza alcuna cura di salvaguardare il sistema immunitario di Mirco Grassato già abbondantemente debilitato.
E dunque gli errori si sono moltiplicati:
a) è stato procurato uno stato di necessità per gravi negligenze consistite nel non aver applicato alcun trattamento emostatico se non al sesto giorno successivo al ricovero;
b) le trasfusioni sono durate oltre il periodo strettamente necessario.

La difesa dell’attore non può che ribadire che una tale condotta deve definirsi abnorme: in prima istanza i medici dell’Ospedale di Pordenone non hanno compiuto le cure necessarie e, in un successivo momento, hanno effettuato terapie superflue. Il tutto al di fuori della circostanza giuridica dello stato di necessità.

4) Sussistenza del nesso di causalità tra trasfusioni effettuate e contrazione di epatite

Si deve cominciare la trattazione intorno a questo tema con un semplice rilievo: Mirco Grassato prima del grave infortunio di data 17 gennaio 1990 era un soggetto assolutamente sano, ma dopo le trasfusioni egli ha accertato di avere contratto una forma di epatite. Successivamente può affermarsi ogni tipo di argomentazione, ma questo è un dato di fatto, in partenza, che sicuramente il Giudice adito non potrà non considerare. La prova che impossibilmente il Grassato poteva avere contratto l’epatite in epoca antecedente il sinistro si crede già sufficientemente data: l’attore, nella sua vita, non ha mai accettato trasfusioni di sangue né si è mai sottoposto a terapie con emoderivati onde non può assolutamente constare che il medesimo avesse avuto nemmeno la minima attitudine al contagio. Ciò si è verificato solamente dopo il ricovero all’Ospedale di Pordenone. La primaria difesa dell’Azienda sanitaria convenuta si basa sul fatto relativo ai controlli che sarebbero stati compiuti sui donatori. Il primo aspetto da accertare è questo: quale è stato l’ente che ha certificato lo stato di buona salute dei donatori? La risposta è chiara: la stessa Amministrazione sanitaria. Come bene si vede, allora, sussiste una situazione particolare: parte convenuta vorrebbe avvalersi di una prova a proprio favore, che la medesima ha costituito integralmente. Una risultanza istruttoria completamente formata da una parte non può giovare alla stessa, proprio perché manca quel necessario riscontro di obiettività che un qualsiasi documento deve avere. Come se, per fare un esempio, un soggetto ponesse per iscritto di essere creditore nei confronti di altro e quest’ultimo venisse condannato al pagamento sulla base dello scritto formato: la medesima assurdità riscontrabile in questo caso è la stessa che è data trovare nel caso di Mirco Grassato. Chi dice che i donatori erano sani? La stessa parte che ha precipuo interesse a che venga acclarata una tale circostanza. E dunque si deve dire che sia sotto il profilo giuridico sia sotto il profilo logico ed ontologico non può ritenersi utilizzabile una tale prova in quanto è assolutamente certo che da parte dell’Amministrazione sanitaria non poteva essere fornita una dimostrazione differente. Una prova senza obiettività non è prova, bensì solamente
interpretazione di parte, che non deve trovare luogo all’interno di un giudizio instaurato al fine di cercare la verità. In ogni caso si deve dire che l’attività trasfusionale forzatamente rientra nel novero delle attività pericolose: non v’è dubbio infatti che così deve definirsi una qualsiasi opera che presenti in sé un particolare rischio intrinseco (cfr. Cass. 8069/1993). Nel nostro caso è evidente che nell’effettuazione di terapie emotrasfusionali, quando anche le medesime siano praticate in maniera diffusa, non può essere taciuto che tali cure presentano un particolare pericolo per il paziente in quanto la serie di complicazioni che possono derivare da una tale attività sono sicuramente numerose. L’intrinseca pericolosità che deriva da tali terapie costituisce l’in sé della modalità di cura: non viene introdotto nel corpo del paziente un qualunque farmaco, bensì sangue altrui, che è materiale biologico e non il risultato di una artificiale sintesi chimica. Per tale motivo il soggetto che trasfonde materiale ematico deve essere assolutamente sicuro dell’innocuità del medesimo in quanto, in caso contrario, i danni che possono essere procurati sono di assoluta intensità. Ed è bene considerare altresì, come prova a contrario della pericolosità dell’attività trasfusionale, che la giurisprudenza ha qualificato come rischiose una serie di attività apparentemente dotate di minore potenzialità offensiva come il lancio di bandiere (Trib. Siena, 23.8.1989), organizzazione di incontri di calcio (Trib. Ascoli, 13.5.1989), gestione di piscine scoperte (Trib. Milano, 5.9.1966), creazione di piste da bob per gare non (!) competitive (Cass. 7571/1990). Si crede che la possibilità di riportare lesioni sia ben maggiore nel caso di chi venga trattato con emoderivati, rispetto a chi assista allo spettacolo degli sbandieratori delle contrade oppure a chi voglia fare un giro con un bob non da gara. E quindi, sulla base di ciò, il corollario giuridico è notevole importanza con riguardo al sistema probatorio: il soggetto responsabile deve provare di avere adottato tutte le misure per evitare il danno, in quanto tale presunzione di colpa altro non è che là conseguenza della forma aggravata di reponsabilità di cui all’art. 2050 c.c.. L’attore ha dimostrato il mero nesso causale: prima dell’entrata all’Ospedale di Pordenone egli non soffriva di epatite, al contrario del periodo successivo. L’Azienda sanitaria, per contro, non ha provato di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno in quanto comunque il controllo dei donatori (circostanza comunque non obiettivamente dimostrata) non può essere ritenuto sufficiente. Ciò per una semplice ragione: trattandosi di attività che, se compiuta in maniera imperfetta, può provocare gravi danni al paziente non basta il controllo preventivo prima della donazione del sangue, bensì occorre che la struttura sanitaria, al momento della trasfusione, sia assolutamente sicura che quanto si inietta nelle vene del malato non possa generare alcuna complicazione patologica. E’ questo il punto principale della vicenda: l’Amministrazione sanitaria può essere sicura che, ad esempio, il glomo 20 gennaio 1990 il sangue trasfuso a Mirco
Grassato non avesse contenuto il virus dell’epatite? Sicuramente no: ed è in base, appunto, a tale ignoranza che l’attore ha contratto la patologia de qua. Il c.t.u., nell’affermare l’impossibilità di stabilire il nesso di causalità tra infezione contratta e sottoposizione a trasfusioni, si è basato unicamente sulla documentazione fornita dagli stessi responsabili dei servizi emotrasfusionali degli Ospedali di Pordenone e Portogruaro: oltre a ribadire l’inefficacia di tali documenti in qualità di prova nonché in ogni caso il dovere di dimostrare con ogni mezzo possibile l’impossibilità di evitare il danno che grava sull’esercente di attività pericolosa, deve essere aggiunto anche quanto segue. Il fatto che tutti i donatori fossero stati sani è argomento che il c.t.u. non ha mai acclarato, in quanto è stata utilizzata solo la documentazione di parte convenuta né assolutamente, in mancanza di uno specifico accertamento, può essere concepita come valida dimostrazione la certificazione (sempre proveniente dall’avversaria) di immunità dei donatori ( e non, si badi bene, di non infezione). D’altra parte non può costituire prova a vantaggio della controparte il ragionamento secondo cui, dal momento che tutti i soggetti hanno continuato a donare sangue, sicuramente essi non sono mai stati infettivi. Questa, più che prova, è un’assurdità logica e scientifica. La reale dimostrazione di perfetta sanità dei donatori sarebbe stata possibile solamente nel modo seguente (che il c.t.p. prof. Angeloni non ha mancato di evidenziare). Quando al termine del decorso patologico dell’epatite il virus viene debellato, rimangono tuttavia due anticorpi, ovvero
a) l’anticorpo di superficie
b) l’anticore
Per considerare se un soggetto sia totalmente esente di infezione è assolutamente necessario che venga testato sulla presenza di anticore poiché il solo accertamento intorno all’anticorpo di superficie può unicamente mostrare che il soggetto è stato efficacemente vaccinato: senza, tuttavia, sapere se vi sia o meno l’anticore non si raggiunge la verità in quanto l’unico segno di una pregressa epatite è dato dalla contemporanea sussistenza di tutti e due gli anticorpi: come si vede la situazione è molto diversa. Dunque la sola certezza della non infettività di un donatore, come viene praticato in alcuni centri trasfusionali italiani, può essere data dall’esame associato intorno all’anticorpo di superficie ed all’anticore: l’accertamento compiuto solamente sul primo non può essere ritenuto sufficiente. La prova sugli anticore, pur richiesta da questa difesa anche a mezzo della sola consultazione dei registri, sarebbe stata l’unica che avrebbe potuto stabilire un sufficiente avvicinamento alla verità: ma la convenuta ha sempre formulato opposizione, così tentando di celare una parte di realtà (favorevole o, come questa difesa pensa, sfavorevole). Ma tale mancato accertamento sicuramente, dato il regime probatorio sopra descritto, certo non arreca detrimento all’attore, bensì porta danno all’opposta Amministrazione sanitaria, la quale non è stata in grado di fornire alcuna prova utile, in quanto non si ritengono utilizzabili le sostanziali autocertificazioni, per dimostrare che la stessa ha efficacemente svolto ogni controllo per evitare che in favore di Mirco Grassato potesse essere stornato il rischio di contrarre alcuna patologia. E preme ricordare che l’attore, prima del 1990, lavorava come cuoco e che da ogni accertamento sanitario (particolarmente rigoroso data la peculiarità della professione) sono sempre state escluse malattie di rilievo. Se consideriamo, poi, che sicuramente mai prima del 1990 Mirco Grassato si è mai sottoposto ad emotrasfusioni, bene si vede che non v’era alcuna possibilità che questi potesse avere corso qualsivoglia rischio di contagio. Per tutte queste ragioni, allora, si crede che il nesso di causalità tra trasfusioni effettuate dall’Ospedale di Pordenone e contrazione della malattia possa essere ritenuto sussistente con grandi probabilità di certezza.

5) Sulla quantificazione dei danni

Le conseguenze negative che l’attore ha dovuto subire successivamente al ricovero presso l’Ospedale di Pordenone sono di inusitata gravità. Per una volta si deve dare assoluta precedenza al danno non patrimoniale, il quale è forse il detrimento più imponente che il Grassato ha dovuto subire. E ciò in quanto il medesimo è stato vittima del reato di violenza privata. A mente del dettato di cui all’art. 610 c.p. il delitto de quo si perfeziona nel caso in cui uno o più soggetti, mediante violenza, costringono il soggetto passivo a tollerare qualche cosa: è questa l’ipotesi del presente procedimento. In virtù dei precedenti ed evidenti errori terapeutici commessi dai medici durante i primi tre giorni di degenza di Mirco Grassato, i medesimi subito realizzarono che, per fare fronte alle difficoltà dai medesimi
causate, la soluzione di cura doveva consistere nella sottoposizione del paziente a terapie emotrasfusionali. Ma facendo ciò bene i sanitari sapevano di andare contro la volontà dell’attore, della moglie e degli amici più vicini (all’uopo delegati dallo stesso Grassato per testimoniare la sua intenzione). Nonostante ciò hanno comunque deciso di fare subire all’attore un’attività dal medesimo ripudiata ed assolutamente non voluta. Per fare ciò e per cercare di dissimulare il reato che veniva compiuto, si è cercata la giustificazione costituita dall’assenso del Procuratore della Repubblica. Venivano dimenticati, tuttavia, diritti di rilevanza costituzionale ed i sanitari cadevano in una vistosa contraddizione: si è considerata non valida una volizione scritta di pugno dallo stesso attore ed invece si è creduta efficace la volizione di un soggetto terzo ed esterno come il Procuratore della Repubblica che, come un Leviatano o come il principio primo di un superiore logos, è stato investito d’ufficio del compito di dirimere una scelta tragica. Ed allora, secondo i medici di Pordenone, la volontà del diretto interessato era poca cosa di fronte a quella sovrana ed astrattamente incontestabile dell’autorità pubblica. Questo evento, ogni volta che se ne parla, si fa sempre più insopportabile: l’intenzione di Mirco Grassato non poteva in nessun modo essere stravolta in quanto assolutamente valida, libera e ribadita da molti testimoni: la violenza privata sussiste e per questo si richiede fermamente al Giudice adito di stimare un congruo ristoro economico, anche superiore alla cifra indicata in conclusioni (comunque sempre indicativa), in quanto le conseguenze psicologiche della violenza dei sanitari permangono ancora vive nella mente di Mirco Grassato.
Si tratta, infatti, di una ferita ancora aperta. E tale ferita non corrisponde tanto ad un oltraggio rivolto verso la confessione dei Testimoni di Geova, quanto ad un insulto verso la libertà di autodeterminazione, che deve essere garantita ad ogni individuo. Ogni persona umana deve essere lasciata totalmente libera nelle scelte della propria vita: qualora un soggetto propenda per un’opzione che possa anche mettere in pericolo la sua stessa esistenza, ma che comunque sia cosciente e voluta non si può mettere in discussione alcunché. Questo è anche il motivo, per fare un esempio, per il quale nel nostro diritto penale, a differenza di altri ordinamenti passati e presenti, si è scelto di non punire il suicidio con pene persecutive contro il cadavere o con pene contro il patrimonio in caso di morte. Il suicidio, anche se certamente non accettato moralmente dal sistema penale, comunque è tollerato in quanto comunque espressione della volontà dell’individuo: sono comunque puniti i soggetti che forzano l’intenzione dell’interessato, come gli istigatori in quanto è ritenuto fatto antisociale l’avere determinato un individuo con violenza, fisica o psichica, a commettere un atto che in realtà non voleva. Da ciò si traggano le necessarie conclusioni.

Si parli, ora, del danno alla persona: anche queste lesioni sono di particolare intensità. L’epatite è certamente una malattia grave e capace di condizionare l’esistenza di un soggetto: le cure per tale patologia sono lunghe, difficili ed anche dolorose. La stima compiuta dal consulente d’ufficio e di parte configura l’esistenza­ di un danno biologico che si assesta nella misura dei dieci punti percentuali. Si può bene vedere, anche alla luce delle recenti innovazioni legislative in materia, che tale invalidità non rientra nella categoria inferiore delle micropermanenti, onde il risarcimento dovrà essere quantificato e corrisposto in misura “piena”, avendo riguardo per la liquidazione alle tabelle elaborate dalla giurisprudenza. In ogni caso si deve puntualizzare che non può convincere la tesi espressa dal c.t.u. nel punto in cui il perito non ha ravvisato alcun danno in materia di diminuzione della capacità lavorativa specifica. Questa argomentazione è ampiamente controvertita dal dati di fatto che hanno visto Mirco Grassato praticamente costretto ad abbandonare un lavoro, quale quello di cuoco, che era occupazione che lo soddisfaceva appieno. Allo stesso tempo l’attore ha potuto trovare nuovi lavori solo in virtù dell’inserimento nelle specie delle categorie protette: quando anche si tratti sempre di una attività retribuita, è chiaro parimenti che le possibilità di avanzare soddisfacentemente in carriera sono assolutamente precluse. Mentre prima dell’incidente Mirco Grassato avrebbe avuto la possibilità di accrescere sempre di più la propria professionalità ed essere sempre più rinomato ed apprezzato nel lavoro che, secondo sua libera scelta aveva preferito, ad un tratto il medesimo si è trovato con la vita radicalmente cambiata anche sul piano delle proprie attività. Questo danno dovrà trovare risarcimento, anche in via equitativa: e ciò altresì perché, in virtù della patologia contratta, Mirco Grassato non avrà più la possibilità di ritornare all’antica professione e ciò sicuramente rappresenta una ulteriore sofferenza dipesa dall’atteggiamento negligente e prevaricatore dei medici dell’Ospedale di Pordenone. In ogni caso questa difesa tiene a sottolineare che il ristoro economico, in qualsiasi misura in cui il Giudice adito lo vorrà quantificare, rappresenterà per Mirco Grassato solamente un modesto soddisfacimento: si sta trattando, infatti, di un evento di danno nei confronti della libertà di un soggetto, bene che non può avere prezzo. E si crede che qualsiasi uomo (cristiano, Testimone di Geova, buddista…) abbia il diritto di godere appieno della sua facoltà di autodeterminazione, poiché questa è l’unica ed
immodificabile ricchezza di cui realmente ogni soggetto è titolare. Tutto ciò premesso, la difesa dell’attore insiste per l’accoglimento delle già precisate conclusioni.

Trento – Pordenone, 1 ottobre 2001

avv. Giampiero Mattei
avv. Marco Marchi