Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 17 Aprile 2007

Sentenza 12 marzo 2007

Corte d’Appello di Catania. Sentenza 12 marzo 2007: “Beni parrocchiali e legittimazione ad agire in giudizio”.

CORTE D’APPELLO DI CATANIA – SEZIONE SPECIALIZZATA AGRARIA

composta da:

1) Dr. PIRRONE Santi – Presidente –
2) Dr. FRANCOLA Tommaso – Consigliere –
3) Dr. LENTANO Francesco – Consigliere Rel. –
4) Dr. VINCIGUERRA Salvatore – Esperto –
5) Dr. LI DESTRI NICOSIA Giovanni – Esperto –

ha pronunciato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo all’udienza del 26/2/2007, la seguente

SENTENZA

nella causa vertente

TRA

– PARROCCHIA xxx, con sede in Pedara (CT), in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in Catania, presso lo studio dell’avv. A.C., che la rappresenta e difende per mandato a margine dell’atto di appello;
APPELLANTE

E

L.G. elettivamente domiciliata in Catania, presso lo studio dell’avv. V.G.L.R., che la rappresenta e difende per mandato a margine della comparsa di costituzione in appello;
APPELLATA

OGGETTO: Risoluzione contratto di mezzadria e rilascio fondo rustico

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato in data 20/10/1997 la PARROCCHIA xxx, esponeva di essere proprietaria del fondo rustico denominato “xxx” sito in Pedara, in catasto al foglio xxx, particelle xxx; di aver concesso in mezzadria il fondo in questione a D.L.; di aver più volte chiesto il rilascio nei confronti di C.F. e G.L., eredi del defunto contraente originario; di aver già esperito il prescritto tentativo di conciliazione, senza risultato. Concludeva chiedendo che il tribunale di Catania, sezione specializzata agraria dichiarasse risolto il contratto alla fine dell’annata agraria 1992 – 1993, ed ordinasse il rilascio del fondo.

Costituitesi, la F. e la L. eccepivano in primo luogo il difetto di legittimazione attiva della Parrocchia; rilevavano poi che il contratto, iniziato nel 1950, si era convertito in affitto, continuando con le eredi del contraente, e che attraverso le proroghe tacite, doveva ritenersi ancora vigente, non essendo intervenuta disdetta prima della fine della annata agraria 2002 – 2003, con conseguente rinnovazione per altri quindici anni a far data dalla scadenza indicata dalla ricorrente.

Il giudice di primo grado, vista la questione preliminare di difetto di legittimazione attiva, invitava le parti alla discussione e, con sentenza resa in data 16/12/1998, accoglieva l’eccezione. Riteneva in particolare che, venuti meno i benefici parrocchiali con la nuova legge sui beni ecclesiastici, successiva alla revisione del concordato, unico legittimato attivo ad agire fosse l’Istituto per il sostentamento del clero, eretto nella provincia di Catania in data anteriore alla proposizione del giudizio.

La Parrocchia proponeva appello con ricorso depositato il 17/5/1999, insistendo nella domanda di primo grado, e precisando che il fondo oggetto di causa non era di proprietà del beneficio parrocchiale, ma della parrocchia stessa.

Si costituiva la appellata G.L., essendo intervenuto, nelle more, il decesso di C.F.

Il giudizio di appello veniva dichiarato interrotto e riassunto nei confronti della sola G.L., quale unica erede della madre (oltre che del padre originario contraente).

In mancanza di istanze istruttorie, le parti discutevano la causa riportandosi agli scritti introduttivi; il Collegio decideva dando lettura del dispositivo all’udienza del 25/2/2007.

Motivi della decisione

La sentenza è errata e va riformata.

Il giudice di primo grado, in accoglimento della eccezione dei convenuti, ha ritenuto che i terreni amministrati dalla Parrocchia xxx facessero parte del beneficio parrocchiale; ed ha applicato la legge 20 maggio 1985, n. 222 (“Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi”). L’art. 28 stabilisce che, con il decreto di erezione di ciascun istituto diocesano per il sostentamento del clero, “sono contestualmente estinti la mensa vescovile, i benefìci capitolari, parrocchiali, vicariali curati o comunque denominati, esistenti nella diocesi, e i loro patrimoni sono trasferiti di diritto all’istituto stesso”.

Verificato che, alla data della domanda, presso la diocesi di Catania era già stato istituito l’istituto per il sostentamento del clero, il Tribunale ha ritenuto che ad esso fossero stati trasferiti tutti i rapporti attivi e passivi dei benefici estinti.

Il fulcro della questione è però quello di stabilire se i terreni oggetto di causa facessero parte del patrimonio della Parrocchia, o di quello del beneficio parrocchiale.

Solo nel secondo caso, infatti, l’estinzione dei benefici comporta l’acquisizione del bene al patrimonio dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero, con conseguente legittimazione esclusiva di quest’ultimo ad agire. Questa distinzione, non esaminata nella sentenza di primo grado, e ampiamente sviluppata nell’atto di appello, trova il suo fondamento nella natura stessa dell’istituto del beneficio parrocchiale.

Si tratta di un istituto di diritto canonico (canone 1409 del codice vigente all’epoca dei fatti), la cui origine storica risiede nella esigenza di garantire al clero un reddito stabile, che consentisse il libero e dignitoso esercizio della attività religiosa. Il parroco aveva dunque l’usufrutto dei beni del beneficio; e quest’ultimo aveva una propria personalità giuridica, distinta da quella della Chiesa parrocchiale.

Recentemente, la giurisprudenza si è occupata di questo istituto prevalentemente per questioni attinenti al regime tributario. Si veda il seguente estratto dalla motivazione di Cass. 381/2006:

“Come in altri casi che concernono i rapporti tra Stato e Chiesa, anche qui l’ordinamento giuridico italiano non propone una propria definizione del “beneficio ecclesiastico”, rinviando alla nozione che ne prospetta l’ordinamento canonico. Facendo, quindi, riferimento al canone 1409 del codice di diritto canonico del 1917 – il sistema beneficiale è stato, infatti, abolito a seguito del nuovo codex del 1983 e della (quasi contestuale) conclusione del processo di revisione dei Patti Lateranensi (L. n. 121/1985 e L. n. 222/1985) – “beneficium ecclesiasticum est ens iuridicum a competente ecclesiastica auctoritate in perpetuum contitutum seu erectum, costans officio sacro et iure percipiendi reditus ex dote officio adnexos”.

I due elementi costitutivi dell’ente, giuridicamente eretto dalla competente autorità, definibile “beneficio ecclesiastico” sono, pertanto, da identificare, da un lato, nell’ufficio sacro (elemento spirituale), e, dall’altro, nel diritto (del titolare dell’ufficio sacro) di percepire i redditi annessi per dote a quell’ufficio (elemento temporale): ci si trova, in buona sostanza, di fronte ad un patrimonio di scopo (…).

In conseguenza di siffatta natura, il “beneficio” è una fondazione, cioè una persona giuridica non collegiale, in particolare una persona giuridica non collegiale ecclesiastica, consistendo lo scopo, cui il patrimonio dell’ente è funzionale, nel sostentamento del titolare di un ufficio ecclesiastico (ad esempio, il parroco, nel qual caso di parla di “beneficio parrocchiale”, o il vescovo, nel qual caso si parla di “mensa vescovile”, o altri ancora)”.

Per stabilire se l’estinzione dei benefici parrocchiali abbia fatto venir meno la legittimazione attiva della Parrocchia, occorre stabilire chi sia il proprietario dei terreni.

L’ente religioso, a supporto della propria domanda, ha prodotto un certificato catastale, da cui risulta che il fondo è intestato alla Chiesa parrocchiale di Pedara; e una nota di trascrizione, risalente all’anno 1987, da cui risulta che il medesimo bene, come altri, era intestato, nei registri immobiliari, alla chiesa parrocchiale di Pedara; e, dopo la legge del 1985 (che fece sorgere il nuovo soggetto giuridico denominato “Parrocchia”, in luogo di quello denominato “Chiesa parrocchiale”), è stato intestato alla odierna attrice, cioè alla Parrocchia.

Tali risultanze documentali appaiono sufficienti per dimostrare la proprietà del bene.

La giurisprudenza della Suprema Corte è orientata nel senso che la nota di trascrizione sia insufficiente a provare la proprietà del bene in una azione di rivendica (Cass. 11605/1997), ma possa essere liberamente valutata dal giudice, unitamente agli altri elementi che la confermano, in ogni altro tipo di domanda (Cass. 8695/2002, 10064/2001).

Nel caso di specie, ritiene questa Corte che la predetta documentazione fornisca piena prova della proprietà alla luce della circostanza che mai, nemmeno nel vigore del rapporto, le parti hanno sollevato questioni sulla titolarità del bene; ed anche l’eccezione processuale è stata formulata in termini generici, senza chiarire su quali basi i convenuti ritenessero di attribuire la proprietà del bene al beneficio parrocchiale anziché alla parrocchia.

Inoltre, alla documentazione amministrativa costituita dal certificato catastale e dalla nota di trascrizione, i convenuti contrappongono solo un documento, costituito da un manoscritto redatto nel 1929 dal parroco dell’epoca, e contenente una serie di risposte a quesiti provenienti da un organo religioso superiore. Tra le risposte ve ne è una in cui si afferma che la Parrocchia ha un beneficio; poi vi è la minuziosa elencazione dei beni, che include anche il fondo oggetto di causa. Il documento in questione, risalendo ad epoca assai remota, nulla ci dice circa le successive vicende del terreno (che potrebbe anche essere stato usucapito dalla Parrocchia in danno del beneficio parrocchiale, vista la distinzione giuridica tra i due soggetti). Inoltre non è nemmeno certo che l’estensore dello scritto, nel dichiarare che la Parrocchia avesse un beneficio, abbia inteso usare il termine nel senso proprio che il diritto canonico gli attribuisce, o nella accezione atecnica di bene “appartenente” in senso lato alla Chiesa.

La copiosa giurisprudenza prodotta dall’appellata all’udienza di discussione si riferisce ad altro problema, che è quello relativo alla individuazione del soggetto legittimato ad agire per ciò che concerne i beni originariamente facenti parte del beneficio; problema su cui la Suprema corte ha avuto modo più volte di pronunciare. Però la questione oggetto del presente giudizio è del tutto diversa, e riguarda non l’identificazione del soggetto oggi legittimato ad amministrare i beni del disciolto beneficio, ma lo stabilire chi abbia l’onere della prova relativo alla dimostrazione della proprietà del bene religioso, quando sia in discussione la sua natura di bene proprio della parrocchia, o di bene beneficiale.

Sul punto non si rinvengono precedenti nella giurisprudenza di legittimità; sicché la risposta va trovata negli ordinari principi in materia di onere della prova, relativamente al diritto di proprietà.

La sentenza va dunque riformata, nel senso che non sussiste il difetto di legittimazione attiva della parte attrice, avendo essa fornito prova sufficiente del proprio diritto di proprietà, da cui consegue la legittimazione ad agire.

Occorre a questo punto esaminare nel merito le richieste della Parrocchia.

Sebbene l’originale del contratto di mezzadria non sia stato prodotto, è incontestato che il rapporto di mezzadria abbia avuto luogo e che più volte, nel 1994 e nel 1997, la Parrocchia abbia chiesto la restituzione del bene.

A tale richiesta, gli eredi del mezzadro contrappongono la pretesa conversione del contratto in affitto di fondo rustico, ai sensi della L. 203/1982.

Tale legge, come è noto, ha disciplinato la conversione in affitto dei preesistenti rapporti di mezzadria, colonia parziaria, compartecipazione agraria e soccida; ma la conversione non avviene automaticamente, necessitando invece una serie di condizioni.

In particolare, l’art. 25 della legge prevedeva in primo luogo che la conversione avvenisse su richiesta di una delle parti; richiesta di cui, nel caso di specie, non vi è traccia. La disciplina del contratto non convertito si rinviene nell’art. 34, che ne regolamenta la durata massima; ma nel caso di specie risulta applicabile anche la norma finale dell’art. 49 ultimo comma, secondo cui, in caso di morte del mezzadro, il contratto si scioglie alla fine dell’annata agraria in corso, salvo che tra gli eredi vi sia persona che abbia esercitato e continui ad esercitare attività agricola in qualità di coltivatore diretto o di imprenditore a titoli principale.

Ne consegue che il contratto di mezzadria non si è mai convertito in affitto; e che, in mancanza di effettiva contestazione circa la sua durata ed il suo regime, esso deve ritenersi risolto alla data indicata dal ricorrente (annata agraria 2002 – 2003).

Infine, del tutto nuovo rispetto al giudizio di primo grado, e comunque indimostrato, è il motivo dedotto dalla appellata, secondo cui il contratto originario sarebbe nullo per mancata autorizzazione da parte della autorità religiosa sovraordinata alla Parrocchia.

La domanda dell’appellante va dunque accolta; ne consegue l’obbligo, per l’unica erede G.L., di rilasciare il fondo alla fine della annata agraria in corso, ai sensi dell’art. 47 L. 203/1982, e cioè alla data del 10/11/2007.

Sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite, tenendo conto della complessità della causa, coinvolgente anche questioni di diritto ecclesiastico, e della circostanza che la stessa parte attrice ha sviluppato solo nell’atto di appello le proprie argomentazioni relative alla distinzione tra beni parrocchiali e beni del beneficio parrocchiale, mentre in primo grado non aveva in alcun modo contrastato l’eccezione preliminare dei convenuti.

P.Q.M.

La Corte, definitivamente pronunciando, accoglie l’appello e, per l’effetto, dichiara cessato alla fine della annata agraria 1992 – 1993, il rapporto di mezzadria intercorso tra CHIESA PARROCCHIALE xxx e L.D., e condanna L.G., quale erede dell’originario contraente, nonché di F.C., al rilascio del fondo oggetto di causa, per la fine dell’annata agraria in corso.

Compensa tra le parti le spese processuali.

Così deciso in Catania il 26 febbraio 2007.
Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2007.