Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 17 Settembre 2003

Sentenza 13 maggio 1965, n.39

Corte costituzionale. Sentenza 13 maggio 1965, n. 39: “Vilipendio della religione dello Stato (art. 402 c.p.)”.

(Ambrosini; Chiarelli)

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: prof. Gaspare AMBROSINI;

Giudici: prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO, prof. Antonino PAPALDO, prof. Nicola JAEGER, prof. Giovanni CASSANDRO, prof. Biagio PETROCELLI, dott. Antonio MANCA, prof. Aldo SANDULLI, prof. Giuseppe BRANCA, prof. Michele FRAGALI, prof. Costantino MORTATI, prof. Giuseppe CHIARELLI, dott. Giuseppe VERZÌ, dott. Giovanni Battista BENEDETTI, prof. Francesco Paolo BONIFACIO,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 402 del Codice penale, promosso con ordinanza emessa il 21 febbraio 1964 dal Tribunale di Cuneo nel procedimento penale a carico di Invernizzi Maria Francesca, iscritta al n. 44 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 91 dell’ 11 aprile 1964.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell’udienza pubblica del 20 gennaio 1965 la relazione del Giudice Giuseppe Chiarelli;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Raffaele Bronzini, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

(omissis)

Considerato in diritto

1. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 402 del Codice penale, in riferimento agli artt. 3, 8, 19 e 20 della Costituzione, non è fondata.

L’art. 3 della Costituzione, nello stabilire l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, esplicitamente esclude che la differenza di religione possa dar luogo a differenza di trattamento dei cittadini stessi.

Con questa fondamentale norma costituzionale non contrasta l’art. 402 del Codice penale, il cui precetto indistintamente si riferisce a tutti i destinatari della norma penale, qualunque sia la loro religione. È ovvia considerazione che il reato di vilipendio previsto da quell’articolo paò essere compiuto da chi appartiene a religione diversa dalla cattolica come da chi appartiene a quest’ultima, o a nessuna religione, non avendo alcuna rilevanza, nella identificazione del soggetto attivo del reato, la fede religiosa dell’agente.

Nè può dirsi che l’art. 402 violi l’eguaglianza giuridica dei cittadini in relazione al soggetto passivo del reato, in quanto crei una condizione di favore per coloro che professano la religione cattolica.

La norma dell’art. 402 non protegge la religione cattolica come bene individuale di coloro che vi appartengono, né attribuisce ad essi alcun personale vantaggio, giuridicamente tutelabile; il titolare dell’interesse protetto non è, pertanto, il singolo appartenente alla religione cattolica.

Deve quindi riconoscersi che la norma impugnata non incide sul principio dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, giacché non dà luogo a una distinzione nella loro posizione giuridica, basata sulla religione da ciascuno professata.

2. – L’art. 402 del Codice penale non viola neanche il principio dell’uguale libertà delle confessioni religiose, affermato nell’art. 8, primo comma, della Costituzione.

L’uguale protezione della libertà delle religioni, come tutela delle manifestazioni individuali o associate di fede religiosa, non esclude che l’ordinamento giuridico possa considerare differentemente le varie confessioni, in relazione alla loro diversa rilevanza nella comunità statale, sempre che la distinzione così posta non importi limitazione della libertà di ciascuna confessione o di alcune di esse. Ciò trova conferma nella stessa Costituzione, la quale, com’è ben noto, attribuisce una particolare posizione alla religione cattolica nel secondo e terzo comma dello stesso art. 8, oltre che nell’art. 7.

In particolare, l’uguale diritto alla libertà, riconosciuto a tutte le confessioni religiose, non significa diritto a una uguale tutela penale, giacché quest’ultima può essere disposta non solo a protezione della libertà di ciascuna confessione, ma anche a protezione del sentimento religioso della maggioranza dei cittadini, purché da ciò non derivi limitazione di quella libertà.

La maggiore ampiezza e intensità della tutela penale che l’ordinamento italiano assicura alla religione cattolica corrisponde, come questa Corte ha già rilevato (sentenza n. 125 del 1957 e n. 79 del 1958), alla maggiore ampiezza e intensità delle reazioni sociali che suscitano le offese ad essa, in quanto religione professata dalla maggior parte degli italiani. La rilevanza attribuita a questa circostanza, sia col considerare come reato il cosiddetto vilipendio non qualificato solo in relazione alla religione cattolica (art. 402), sia col disporre una diversa misura di pena per i reati di vilipendio contro persone o cose, secondo la loro appartenenza alla religione cattolica o ad altri culti (art. 406), non contrasta con l’art. 8, primo comma, della Costituzione. Essa infatti, mentre trova riscontro nella già ricordata posizione che la Costituzione riconosce alla Chiesa cattolica, non influisce sul libero svolgimento delle attività delle altre confessioni, né limita le manifestazioni di fede religiosa di coloro che non appartengono alla religione cattolica.

3. – L’incriminazione del vilipendio della religione cattolica non limita, infatti, il diritto, a tutti riconosciuto dall’art. 19 della Costituzione, di professare la propria fede religiosa in qualsiasi forma, di farne propaganda e di esercitarne il culto con riti non contrari al buon costume.

È fuori dubbio che il vilipendio della religione altrui non rientra in queste manifestazioni di fede religiosa, garantite dalla Costituzione; esso non è un modo di professare la propria fede, di farne propaganda, e meno che mai di esercitarne il culto. È vero che il diritto di professare una religione e farne propaganda implica il diritto, ugualmente garantito dalla Costituzione, di manifestare il proprio pensiero su religioni diverse dalla propria e di farne oggetto di discussione, ma questo diritto non comprende il poter vilipendere la religione altrui, recando ad essa grave offesa e facendola oggetto di pubblico dileggio.

L’illiceità penale del vilipendio, anche se stabilita soltanto in riferimento alla religione professata dalla maggioranza dei cittadini, non limita, perciò, diritti riconosciuti dall’art. 19 della Costituzione.

D’altra parte, questi diritti trovano tutela negli artt. 403-406 del Codice penale, i quali proteggono dal vilipendio le persone che professano una religione, le cose destinate all’esercizio del culto e gli atti in cui questo si manifesta.

4. – Le ragioni innanzi esposte valgono anche a escludere la violazione dell’art. 20 della Costituzione.

Quest’articolo vieta che possano essere stabilite speciali limitazioni legislative o imposti speciali gravami fiscali a carico di una associazione o di una istituzione, a causa del suo carattere ecclesiastico o del suo fine religioso.

Ma dall’art. 402 del Codice penale non deriva, nemmeno indirettamente, alcuna limitazione della sfera di capacità e di attività delle confessioni diverse dalla cattolica.

Né in esso, in quanto contiene una norma speciale di favore per la religione cattolica, può ravvisarsi un contrasto con l’art. 20 della Costituzione.

A parte che, cosi impostata, la questione di costituzionalità non troverebbe riscontro nell’art. 20, che esclude i trattamenti speciali restrittivi, ma rientrerebbe nella questione già esaminata a proposito dell’art. 8 della Costituzione, va considerato che l’art. 402 del Codice penale non tutela una sfera di capacità e di attività della Chiesa cattolica più vasta di quella tutelata per le altre confessioni religiose, giacché il bene da esso penalmente protetto non è la capacità giuridica e di agire della Chiesa cattolica, ma è, come si è innanzi rilevato, il sentimento religioso della maggioranza degli italiani.

Anche sotto questo riflesso, quindi, la proposta questione di legittimità costituzionale non ha fondamento.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 402 del Codice penale, in riferimento agli artt. 3, 8, 19 e 20 della Costituzione.

(omissis)