Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 17 Ottobre 2007

Sentenza 19 febbraio 1965, n.9

Corte costituzionale. Sentenza 19 febbraio 1965, n. 9. Concetto di “buon costume”.

La Corte Costituzionale

composta dai signori Giudici:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente;

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO; Prof. ANTONINO PAPALDO; Prof. NICOLA JAEGER; Prof. GIOVANNI CASSANDRO; Prof. BIAGIO PETROCELLI; Dott. ANTONIO MANCA; Prof. ALDO SANDULLI; Prof. GIUSEPPE BRANCA; Prof. MICHELE FRAGALI; Prof. COSTANTINO MORTATI; Prof. GIUSEPPE CHIARELLI; Dott. GIUSEPPE VERZÌ; Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI; Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

ha pronunciato la seguente
Sentenza

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell’art. 553 del codice penale e dell’art. 112 del T.U. delle leggi di P.S. approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 3 febbraio 1964 dal pretore di Lendinara nel procedimento penale a carico di Matteotti Giancarlo, iscritta al n. 42 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 91 dell’11 aprile 1964;
2) ordinanza emessa il 23 maggio 1964 dal Pretore di Firenze nel procedimento penale a carico di De Marchi Luigi, iscritta al n. 111 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 169 dell’11 luglio 1964.
Visti l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e gli atti di costituzione in giudizio di Matteotti Giancarlo e di De Marchi Luigi;
udita nell’udienza pubblica del 2 dicembre 1964 la relazione del Giudice Giovanni Cassandro;
uditi gli avvocati Renato Sansone, Giorgio Moscon, Paolo Barile e Leopoldo Piccardi, per Matteotti e De Marchi, ed il vice avvocato generale dello Stato Dario Foligno, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Svolgimento del processo e motivi della decisione

1. Tanto l’ordinanza del pretore di Lendinara, quanto quella del pretore di Firenze sollevano la questione di legittimità costituzionale dell’art. 553 del codice penale; ma la prima pro pone altresì quella relativa all’art. 112 del T.U. delle leggi di P.S., R.D. 18 giugno 1931, n.773. Tuttavia i due giudizi possono essere decisi con un’unica sentenza, dato lo stretto legame che unisce le due questioni fino a farne una sola e medesima.

2. Occorre preliminarmente sgombrare il campo da una tesi, che si può definire pregiudiziale, della difesa delle parti private, giusta la quale l’illegittimità delle norme impugnate deriverebbe immediatamente dalla circostanza che le norme stesse sarebbero state emanate a presidio della politica demografica del cessato regime, che si esprimeva sinteticamente nel motto “il numero è potenza”; esse sarebbero state poste, cioè, a tu tela di un bene che non è tra quelli riconosciuti dalla Costituzione e che sono i soli, poi, che possono giustificare limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero.
La tesi non può essere condivisa. È confortato da tutta la giurisprudenza della Corte il principio che la legittimità o illegittimità di una norma in un sistema giuridico che si estende nel tempo al di qua e al di là della promulgazione della Carta costituzionale e che la Costituzione della Repubblica ha profondamente modificato e rigidamente condizionato, ma non posto nel nulla -, dipende non già dal fine o dall’occasione che la fece nascere, ma dalla sua obiettiva conformità o difformità dalla legge fondamentale dello Stato. Da che discende che ciascuna norma di legge ordinaria deve essere esaminata nella sua propria struttura obiettiva e in questi termini confrontata col precetto costituzionale che da essa si assume violato. E del resto, quando nel T.U. delle leggi di P.S. 6 novembre 1926, n. 1848, comparve il divieto di diffondere scritti o disegni che divulgassero i mezzi di impedire la fecondazione o di interrompere la gravidanza o ne illustrassero l’impiego, il bene che si volle protetto fu quello della morale e del buon costume, quegli scritti e disegni essendo stati qualificati appunto come “offensivi della morale e del buon costume” (artt. 112 e 113). E la norma impugnata del codice penale (art. 553) prese posto nel titolo X del libro II, che s’intitola ai delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe, accanto ad altre ipotesi delittuose (artt. 545-551: aborto; art. 552: procurata impotenza alla procreazione; art. 554: contagio di sifilide e di blenorragia), il rapporto delle quali con la politica di potenza demografica perseguita dal passato regime e, quanto meno, soltanto indiretto.

3. La libertà di manifestazione del pensiero è tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione, una di quelle anzi che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com’è del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale. Ne consegue che limitazioni sostanziali di questa libertà non possono essere poste se non per legge (riserva assoluta di legge) e devono trovate fondamento in precetti e principi costituzionali, si rinvengano essi esplicitamente enunciati nella Carta costituzionale o si possano, invece, trarre da questa mediante la rigorosa applicazione delle regole dell’interpretazione giuridica. E poiché non può dubitarsi che la previsione dell’art. 553 del codice penale si traduca in una limitazione sostanziale della libera manifestazione del pensiero, occorre vedere se tale limitazione possa trovare giustificazione in un precetto o principio costituzionale.

4. La Corte ritiene che il precetto costituzionale, che può essere richiamato in primo luogo per proteggere la norma impugnata da una pronunzia di illegittimità, sia contenuto nel medesimo art. 21 della Costituzione, il quale, riconoscendo a tutti nel suo primo comma, il diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e con ogni altro mezzo di diffusione, aggiunge, nell’ultimo, che “sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”, e riserva alla legge di stabilire “i provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.
Ora, non è dubbio che l’art. 553 del codice penale, interpretato nell’ambito del sistema giuridico vigente, abbia ad oggetto la tutela del buon costume. Ciò che la norma contenuta in quel l’articolo vieta e, infatti, la pubblica propaganda e il pubblico incitamento a “pratiche contro la procreazione”: il che significa che la figura del reato previsto dalla norma impugnata, si verifica quando l’azione del soggetto, che consiste nell’incitare o fare propaganda, illustrandone l’uso, di “pratiche”, vale a dire di operazioni meccaniche ed esterne contro la procreazione, si compia pubblicamente cioè in luogo pubblico o aperto al pubblico -, e viola per ciò stesso gravemente il naturale riserbo o pudore del quale vanno circondate le cose del sesso e non rispetta l’intimità dei rapporti sessuali, la moralità giovanile e la dignità della persona umana, per la parte che si collega a questi rapporti.

5. Le parti hanno a lungo disputato sul contenuto e l’estensione del concetto di buon costume, e segnatamente sul punto se il “buon costume” che compare nell’art. 21 della Costituzione debba essere ricondotto a quello che si può costruire sulla base delle norme del diritto penale, limitatamente a quelle tra esse che tutelano il pudore, l’onore e la libertà sessuale, ovvero, più estensivamente, sulla base anche di quelle che tutelano la pubblica decenza e il comune sentimento morale, o se, invece, si debba costruire di esso una nozione costituzionale più ampia o comunque diversa da quella penalistica. Tuttavia ai fini della decisione non è necessario che la Corte affronti e risolva i contrasti e le divergenze d’opinione, dottrinali e giurisprudenziali, che si sono manifestati a questo proposito, né che dia una definizione puntuale ed esauriente del buon costume. In questa sede è sufficiente affermare che il buon costume non può essere fatto coincidere, come è stato adombrato dall’Avvocatura dello Stato, con la morale o con la coscienza etica, concetti che non tollerano determinazioni quantitative del genere di quelle espresse dal termine “morale media” di un popolo, “etica comune” di un gruppo e altre analoghe. La legge morale vive nella coscienza individuale e cosi intesa non può formare oggetto di un regolamento legislativo. Quando la legge parla di morale, vuole riferirsi alla moralità pubblica, a regole, cioè, di convivenza e di comportamento che devono essere osservate in una società civile. Non diversamente il buon costume risulta da un insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei quali comporta in particolare la violazione del pudore sessuale, sia fuori sia soprattutto nell’ambito della famiglia, della dignità personale che con esso si congiunge, e del sentimento morale dei giovani, ed apre la via al contrario del buon costume, al mal costume e, come è stato anche detto, può comportare la perversione dei costumi, il prevalere, cioè, di regole e di comportamenti contrari ed opposti. Il che è sufficiente per concludere che l’azione prevista dalla norma impugnata violi il buon costume e richiami giustificatamente la disposta repressione penale.

6. Non può nemmeno essere accolta la tesi che l’art. 553 si riduca a vietare la generica propaganda anticoncezionale, laddove le offese al buon costume, che questa propaganda può eventualmente comportare, sarebbero punite da altre norme. La norma dell’art. 553 ha, nella sua configurazione obiettiva, una sua autonomia e non può essere ritenuta una duplicazione degli artt. 527 (atti osceni), 528 (pubblicazioni e spettacoli osceni), 725 (commercio di scritti, disegni e altri oggetti contrari alla pubblica decenza) e 726 (atti contrari alla pubblica decenza, turpiloquio) del codice penale, come si può ricavare facilmente dal confronto di queste disposizioni tra loro.
Né l’incitamento e la propaganda di pratiche dirette a provocare e favorire l’aborto, che pur rientrano nella previsione dell’art. 553, possono ritenersi coperti dalla norma dell’art. 414 del codice penale, che punisce l’istigazione a delinquere, perché l’incitamento e più ancora la propaganda non sono riconducibili all’istigazione, rappresentando, quelle, ipotesi di reato meno gravi e comunque diversamente considerate e punite dal legislatore penale.

7. Discende da quanto si è detto che l’art. 553 del codice penale non vieta la propaganda che genericamente miri a convincere dell’utilità e necessità in un determinato momento storico e in un particolare contesto economico-sociale, di limitare le nascite e di porre regole al ritmo della vita; e che propugni una politica di controllo dell’aumento della popolazione, mediante una legislazione che consenta, in determinate forme e modi, e sempre che siano tutelati fondamentali beni sociali, al di fuori di una indiscriminata pubblica propaganda, la diffusione della conoscenza di pratiche anticoncezionali.
Tanto meno, poi, vuol limitare la libertà di manifestazione del pensiero scientifico la quale, lungi dal poter essere parificata all’incitamento e alla propaganda contemplati dall’art. 553 del codice penale, gode di una tutela costituzionale rafforzata (art. 33, primo comma) rispetto a quella di cui gode la manifestazione del pensiero in generale, alla quale fa riferimento l’art. 21 della Costituzione. La preoccupazione espressa dalla difesa delle parti private che la norma impugnata vieti ogni e qualsiasi discussione pubblica su questa materia della limitazione delle nascite e voglia chiudere la bocca finanche a moralisti, economisti e scienziati in generale, è perciò infondata e si ispira al fine di comprovare, mediante un artificioso ragionamento e un’arbitraria estensione della portata della disposizione legislativa della legittimità della quale si controverte, una violazione della libertà di manifestare il proprio pensiero che, in realtà, non sussiste.

8. Gli stessi motivi valgono ad escludere la illegittimità della norma contenuta nell’art. 112 del T.U. delle leggi di P.S., R.D. 18 giugno 1931, n. 773, nella parte impugnata, che è quella che vieta di mettere in circolazione scritti o disegni “che divulgano, anche in modo indiretto o simulato o sotto pretesto terapeutico e scientifico, i mezzi rivolti a impedire la procreazione … o che illustrano l’impiego dei mezzi stessi”, dovendo essa interpretarsi nel senso che il divieto è rivolto a scritti e disegni che per il modo come sono redatti offendano il buon costume. Stabilire quale sia il rapporto che sul piano penale intercorre tra le due norme impugnate si ponga, cioè, oppure non, un concorso materiale di reati -, non è competenza della Corte Costituzionale.

9. Una volta dimostrato quale sia il rapporto che passa tra le norme impugnate e l’art. 21 della Costituzione non è necessario che la Corte si proponga il quesito se esse possano trovare giustificazione nella difesa dell’ordine pubblico, o nella tutela del matrimonio e della famiglia o della salute pubblica (artt. 30, 31 e 32 della Costituzione), precetti o principi costituzionali ai quali le difese delle parti hanno fatto variamente riferimento

P.Q.M.

La Corte Costituzionale

dichiara non fondate, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, le questioni sollevate con ordinanza 3 febbraio 1964 del pretore di Lendinara e ordinanza 23 maggio 1964 del pretore di Firenze, sulla legittimità costituzionale delle norme contenute nell’art. 553 del codice penale e nell’art. 112 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza R.D. 18 giugno 1931, n. 773, in riferimento all’art. 21, primo comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 febbraio 1965.