Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 18 Gennaio 2007

Sentenza 20 luglio 1988, n.4700

Corte di Cassazione. Sezioni Unite.
Sentenza 20 luglio 1988, n. 4700

La Corte Suprema di Cassazione
Sezioni Unite

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott.Antonio BRANCACCIO Primo Presidente
Dott. Renato GRANATA Presidente di Sezione
Dott. Franco BILE Presidente di Sezione
Dott. Domenico MALTESE Consigliere
Dott. Vincenzo DI CIÒ Consigliere
Dott. Onofrio FANELLI Consigliere
Dott. Mario CORDA Consigliere
Dott. Giuseppe CATURANI Consigliere
Dott. Alfio FINOCCHIARO Relatore Consigliere

ha pronunciato la seguente

Sentenza

sul ricorso iscritto al n. 6881-84 del R.G.AA.CC., proposto da:

C.G.E.V.C., nato a Milano il 10.10.1953, elettivamente domiciliato in Roma, Via Magalotti n. 2 presso lo studio dell’Avv. Carlo Tricerri, che lo rappresenta e difende unitamente all’Avv. Achille Colombo, giusta delega in calce al ricorso – Ricorrente

contro

R.C. – intimata e

PROCURATORE GENERALE presso la Corte d’appello di Milano – Intimato

Avverso la ordinanza della Corte d’appello di Milano depositata il 28.5.1984;

Udita nella pubblica udienza, tenutasi il giorno 28 Aprile 1988, la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Finocchiaro;
Udito l’Avv. Tricerri;
Udito il Pubblico Ministero, nella persona del Dr. Mario Caristo – Avvocato Generale presso la Corte Suprema di Cassazione, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Fatto

La Corte d’appello di Milano, con ordinanza 18.28 Maggio 1984 rigettava l’istanza di esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico regionale lombardo, in data 23 dicembre 1982, ratificata dal tribunale ecclesiastico regionale ligure in Genova, in data 15 giugno 1983, con la quale veniva dichiarata la nullità del matrimonio contratto in Milano il 16 dicembre 1978 da C.G.E.V.C.e da R.C. a causa dell’esclusione dell’indissolubilità da parte di quest’ultima.
A sostegno della pronuncia, e per la parte che interessa l’odierno ricorso per cassazione, la Corte rilevava che, pure ammettendosi l’astratta delibabilità della sentenza ecclesiastica posto che dalla stessa si ricavava, senza possibilità di equivoci, che la C., prima del matrimonio, aveva chiaramente espresso le sue idee, da convinta divorzista, in ordine alla soluzione del vincolo una volta venuto meno l’amore reciproco, tale delibabilità doveva essere in concreto negata in considerazione della sostanziale differenza esistente fra l’ordinamento italiano e quello canonico, dal momento che nel primo l’azione di impugnazione del matrimonio non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione di questo ovvero nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima, laddove, invece, nel secondo, l’esperimento dell’azione di nullità non soffre di limiti temporali.
“La decadenza derivante dal decorso di un anno dalla celebrazione del matrimonio oppure dell’avere i contraenti convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione dello stesso, sottratta come è alla disponibilità delle parti, ed afferendo, peraltro, a materia di stato, coinvolge un interesse pubblico primario ed è, posta a tutela di un principio fondamentale in materia di matrimonio quello volto ad assicurare la stabilità della comunione spirituale e morale instaurata tra i paciscenti, e ad evitare che resti sospesa, oltre il tempo strettamente necessario, la validità del matrimonio”.
Nella specie, invece, i coniugi avevano convissuto come marito e moglie per circa un anno e mezzo chiaramente denunziando di avere intensamente voluto la comunione dalla quale deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e della coabitazione, mentre il marito aveva presentato il libello introduttivo avanti al tribunale ecclesiastico dopo oltre un anno dalla celebrazione del matrimonio, sicché non poteva pronunziarsi la deliberazione della sentenza ecclesiastica.
Avverso questa ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, articolato su un unico motivo C.G.E.V.C.
Non hanno svolto attività difensiva in questa sede le altre parti.

Diritto

1. Con l’unico complesso motivo di ricorso si lamenta che la corte d’appello abbia ritenuto che la diversità di disciplina del matrimonio canonico rispetto a quello civile in ordine al termine entro il quale fare valere la nullità dei due matrimoni sia così grave e profonda da produrre violazione dei principi di ordine pubblico dell’ordinamento statuale, dando quindi luogo all’applicazione ostativa dell’art. 797 n. 7 c.p.c. ai fini della delibazione di sentenza straniere, senza tener presente: a) che il principio di restringere l’esercizio di diritto di impugnativa del matrimonio civile entro il termine prefissato era già presente nella disciplina del codice civile del 1942 e che “nei circa quattro decenni di vigenza di dette norme, nessuno temette mai che contro di queste urtasse la previsione canonica in materia di nullità del matrimonio”; b) che solo il diritto alla tutela giurisdizionale si colloca -ai sensi della sentenza della corte costituzionale n. 18 del 1982 -al dichiarato livello di principio supremo solo nel suo nucleo più ristretto ed essenziale, mentre tale qualifica non può estendersi ai vari istituti che disciplinano i termini per fare valere i vizi del matrimonio che si collocano ad un minore livello nel quale opera la copertura costituzionale; c) che l’esigenza di assicurare la stabilità della famiglia e di evitare incertezza sulla validità del matrimonio non deve trovare tutela soltanto in tema di simulazione del consenso, passando attraverso il termine di decadenza dell’art. 123 c.c., mentre la stessa stabilità non verrebbe messa a repentaglio dalla assenza di termine che caratterizza il procedimento di divorzio nel quale è consentito ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti del matrimonio, in qualunque tempo senza limite nè iniziale, nè finale; d) che la limitata rilevabilità nel tempo dei vizi matrimoniali non costituisce principio generale di ordine pubblico tanto caratterizzante del nostro ordinamento da impedire la dichiarazione di esecutività di una sentenza ecclesiastica che tale limite non rispetti.

2. Il motivo di ricorso ripropone a questa Corte la questione se, in ipotesi di sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio per esclusione da parte di un coniuge di uno dei bona matrimonii, non rimasta nella sfera psichica del suo autore, ma manifestata all’altro coniuge, tanto se costui si sia limitato a prendere atto, quanto se abbia positivamente consentito a tale difformità tra volontà e dichiarazione, possa essere dichiarata esecutiva in Italia, qualora la relativa azione di nullità sia stata proposta dopo il decorso di un anno dalla celebrazione del matrimonio o comunque dopo che i contraenti hanno convissuto come coniugi a prescindere dalla durata di tale convivenza.
La causa è stata rimessa a questa Sezioni Unite per la composizione del contrasto di giurisprudenza verificatosi nell’ambito della 1 sezione civile della Corte di cassazione sul problema della delibabilità della pronuncia ecclesiastica, non tanto nell’ipotesi in cui l’azione di nullità sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione del matrimonio, in ordine alla quale la giurisprudenza di legittimità è costante nel dare risposta affermativa al quesito, quanto nella fattispecie in cui, successivamente alla celebrazione, i contraenti abbiano convissuto come coniugi.
Il quesito deve essere affrontato e risolto alla stregua della disciplina di cui agli art. 1 l. 27 maggio 1929 n. 810 e 17 l. 27 maggio 1929 n. 847, nel testo risultante a seguito della dichiarazione di parziale incostituzionalità pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 18 del 1982, nella parte in cui non prevedono, fra l’altro, che alla Corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la nullità del matrimonio, spetta accertare che tale sentenza non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano e cioè “alle regole poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società”.
Non sono infatti applicabili alla presente controversia le modificazioni al Concordato con la Santa Sede, introdotte dagli Accordi di Roma del 18 febbraio 1984, ratificati e resi esecutivi con l. 25 marzo 1985, data dello scambio degli strumenti di ratifica, i quali operano solo per i procedimenti deliberativi instaurati successivamente a tale data (Cass. 5 novembre 1987 n. 8151).
A seguito della richiamata pronuncia della Corte costituzionale, questa Corte -al fine di individuare i limiti entro i quali fosse possibile deliberare le sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale -è partita da un criterio fondamentale enunciato nella sentenza di queste Sezioni Unite del 1 ottobre 1982 n. 5026 e cioè che “la dichiarazione di esecutività può essere negata solo in presenza di una contrarietà ai canoni essenziali cui si ispira in un determinato momento storico il diritto dello Stato ed alle regole fondamentali che definiscono la struttura dell’istituto matrimoniale, così accennata da superare il margine di maggiore disponibilità che l’ordinamento statuale si è imposto rispetto all’ordinamento canonico”, e da tale criterio ha fatto derivare – per la parte che interessa la presente controversia – un corollario, e cioè che una pur rilevante diversità di disciplina fra le cause di nullità del matrimonio considerate negli ordinamenti statuale e canonico non ha portata impeditiva ai fini della dichiarazione di esecutività della sentenza ecclesiastica, in quanto tale differenza trova giustificazione nel livello di maggiore disponibilità che caratterizza i rapporti fra Stato e Chiesa cattolica.
In applicazione di tali principi si sono quindi ritenute delibabili le sentenze ecclesiastiche che avranno pronunciato la nullità di matrimoni concordatari in ipotesi in cui l’azione di nullità era stata proposta dopo che erano decorsi i termini fissati dalla legge civile per fare valere analoghe nullità, riportando cioè la naturale perpetuità dell’azione di nullità del matrimonio canonico nell’ambito della mera diversità di disciplina e senza distinguere fra le diverse ipotesi contenute nell’ambito dell’art. 123, comma 2, c.c. (cfr., fra le tante, Cass. 3 maggio 1984 n. 2677; Cass. 13 giugno 1984 n. 3535; Cass. 21 gennaio 1985 n. 192; Cass. 18 febbraio 1985 n. 1376; Cass. 10 aprile 1985 n. 2370; Cass. 16 ottobre 1985 n. 5077; Cass. 15 novembre 1985 n. 5601; Cass. 4 dicembre 1985 n. 6064; Cass. 6 dicembre 1985 n. 6134; Cass. 7 maggio 1986 n. 3057; Cass. 7 maggio 1986 n. 3064; Cass. 31 luglio 1986 n. 4897; Cass. 1 agosto 1986 n. 4916; Cass. 15 gennaio 1987 n. 241).
A tale indirizzo si sono motivatamente opposte quattro più recenti decisioni, le quali, chiamate a decidere sulla compatibilità, sotto il profilo dell’ordine pubblico, tra norme canoniche che prevedono la possibilità di dedurre le cause di invalidità del matrimonio senza limiti di tempo (can. 1092 n. 2 cod. iur. can.) e norme statuali che invece fissano limiti ben precisi, hanno distinto, nell’ambito dell’art. 123 c.c., che disciplina l’impugnazione del matrimonio da parte dei coniugi, quando gli stessi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti, due diverse regole di improponibilità della domanda: la prima derivante dal decorso del tempo (“L’azione non può essere proposta decorso un anno dalla celebrazione del matrimonio”); la seconda conseguente alla instaurazione di una convivenza a prescindere dalla sua durata ((L’azione non può essere proposta) “nel caso in cui i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione medesima”).
Ricorrendo la prima ipotesi, è stato ritenuto non ragionevole negare la dichiarazione di esecutività delle sentenze ecclesiastiche, perché la differenza tra l’ordinamento canonico e quello civile non implica contrarietà all’ordine pubblico della decisione ecclesiastica, in conformità, quindi, alla sopra richiamata giurisprudenza; ricorrendo la seconda si è invece esclusa la possibilità di ogni deliberazione, sulla base del rilievo che l’instaurazione del matrimonio-rapporto, con la pienezza della convivenza morale e materiale dei coniugi, quale ragione preclusiva ad ogni possibilità di far valere vizi simulatori del matrimonio-atto, va annoverata nell’ambito delle regole e principi essenziali dell’ordinamento statuale (Cass. 18 giugno n. 5354; Cass. 18 giugno 1987 n. 5358; Cass. 3 luglio 1987 n. 5823; Cass. 14 gennaio 1988 n. 192).

3. Le decisioni da ultimo richiamate, caratterizzate – pur nella identità della soluzione adottata – da rilevanti diversità di impostazioni argomentative, sono tese a dimostrare che la instaurata convivenza dei coniugi, successivamente alla celebrazione del matrimonio, ostativa all’impugnazione dell’atto c.d. simulato, costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento tale da non poter essere vulnerato attraverso la deliberazione di una sentenza ecclesiastica che, da tale situazione fattuale prescindendo, dichiari ugualmente la nullità del matrimonio.
Siffatto principio -enunciato in termini più ampi anche da autorevole dottrina – viene ad essere giustificato da una molteplicità di argomenti, diversamente approfonditi e trattati nelle varie pronunce, che si muovono sostanzialmente su una duplicità di piani, reciprocamente interferenti: da una parte l’esame delle norme costituzionali e dall’altra la ricostruzione della struttura e della natura del matrimonio civile condotta alla stregua della legislazione ordinaria, tenendo altresì presenti i diversi principi che ispirano il matrimonio canonico. Tali argomenti vengono poi unitariamente considerati al fine della dimostrazione della tesi sostenuta.
Sulla base degli art. 2 e 29 cost. si osserva che i diritti della famiglia sono riconosciuti perché appartengono ad una società naturale fondata sul matrimonio, società rientrante “nelle formazioni sociali” contemplate dall’art. 2 cost., ove si svolge la personalità del singolo, i cui diritti inviolabili sono garantiti dalla Repubblica (Cass. n. 5354-87; Cass. n. 192-88), argomentati da tale formulazione che le anzidette norme considerano il matrimonio come titolo indispensabile ma non sufficiente per l’esistenza della famiglia, abbisognante del supporto “naturale”, del comportamento “societario” dei suoi componenti (Cass. n. 5358-87), con la conseguenza che il matrimonio non è solo riconducibile nella figura dell’atto negoziale in quanto l’attuazione degli impegni assunti assurge a fatto costitutivo della famiglia, quale entità cardinale dell’assetto sociale, fondata su una piena comunanza di vita, spirituale e materiale, dei soggetti che la compongono (Cass. n. 5358-87) e con l’ulteriore conseguenza che le richiamate norme tutelano la stabilità della comunanza di vita, spirituale e materiale, fra i coniugi e salvaguardando, cioè, l’istituto del matrimonio concepito nel suo momento sociale e dinamico, e l’unità della famiglia stessa, come società naturale su di esso fondata (Cass. n. 5354-87).
Questa interpretazione delle norme costituzionali viene ad essere giustificata soprattutto sulla base delle legislazione ordinaria quale si è venuta evolvendo a seguito dell’introduzione del principio della dissolubilità del matrimonio e della riforma del diritto di famiglia, che ha privilegiato il fatto della convivenza -qualificata -dei coniugi, anche sdin presenza di determinati vizi dell’atto che ne costituisce la fonte, dando così prevalenza al matrimonio-rapporto, rispetto al matrimonio-atto, e alla rinnovazione del consenso dato dai coniugi, nonostante il vizio, con l’instaurazione del consorzio coniugale (Cass. n. 192-88).
Prescindendo dalla normativa costituzionale e sulla base della legislazione ordinaria si è osservato che l’ordinamento tutela la stabilità della comunanza di vita spirituale fra i coniugi e salvaguardia l’istituto del matrimonio concepito nel suo momento sociale e dinamico e che ciò si trova enunciato oltre che nell’art. 123 c.c., anche in tutte le regole relative ad altre ipotesi di vizi inerenti alla costituzione del rapporto che prevedono la sua preservazione se vi è stata convivenza dopo il venire meno della causa che abbia influito sulla volontà degli sposi, senza essere contraddetto da quelle disposizioni che consentono l’impugnazione del vincolo malgrado l’instaurata convivenza, dal momento che in queste ipotesi -e non anche nelle altre -vi è, per motivi etico sociali, il ripudio da parte dell’ordinamento del matrimonio-rapporto tra congiunti o tra persone già sposate con altri soggetti (Cass. n. 5823-87; Cass. 5354-87).
Si è inoltre aggiunto che per l’organizzazione sociale, per la comunità, per lo Stato il matrimonio non riguarda solo gli sposi ma tutta la comunità e quando vi è una formale dichiarazione degli sposi di volere una famiglia fondata sul matrimonio e a tale formale dichiarazione ha fatto seguito la realizzazione di fatta della comunione familiare, la collettività deve poter contare sulla validità di quel rapporto, fondato sulla celebrazione e sulla convivenza, sicché è inammissibile attribuire una persistente rilevanza agli elementi del matrimonio-atto, dopo che la fondazione reale del matrimonio-rapporto ha convalidato l’affidamento che la società ha sulla esistenza di quel matrimonio, il quale può venire solo attraverso una pronuncia di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso (Cass. n. 5823-87).
L’art. 123, comma 2, c.c., “nella parte in cui dopo avere previsto la nullità del matrimonio per una simulazione che investa l’atto celebrativo lasciando fuori diritti e doveri essenziali, nega la deducibilità della relativa invalidità ove sia sopravvenuta la convivenza, esprime due puntuali e speculari applicazioni dell’indicata caratteristica fondamentale dell’istituto, in quanto dà rilievo al vizio del consenso del matrimonio-atto solo a condizione che non sia superato e travolto dal consenso pieno del matrimonio-rapporto, evidenziato della instaurazione della convivenza”, in quanto quest’ultima non configura una mera convalida di un negozio annullabile, ma “ha la consistenza di una realtà, giuridica e fattuale, che rimuove radicalmente ed inderogabilmente la controdichiarazione afferente al momento celebrativo, nel senso che il diritto interno le attribuisce tassativamente l’effetto di escludere la denunciabilità del precedente vizio, in considerazione dell’inesistenza del vizio stesso in una società coniugale effettivamente realizzatasi in tutti i suoi elementi” (Cass. 5358-87).
Sulla base di queste premesse si è tratta la conseguenza che “la regola canonica della perdurante possibilità di dichiarare l’invalidità dell’atto non è solo estranea al nostro ordinamento, ma è decisamente contrastante con quella, a sua volta espressione di un principio fondamentale della disciplina italiana del matrimonio, della impossibilità di valutare ed eventualmente sanzionare la nullità del matrimonio-atto quando si sia costituito, vitale, il matrimonio-rapporto” (Cass. n. 5358-87 e sostanzialmente nello stesso senso anche le altre sentenze).
La “maggiore disponibilità” dello Stato verso la Chiesa si traduce nell’impegno del primo a non considerare ostativa alla deliberazione della pronuncia ecclesiastica l’applicazione di una norma canonica che risponda ad esigenze diverse od estranee all’ordinamento interno, ma non anche l’applicazione di un norma in posizione di conflitto con l’ordine pubblico, dal momento che un impegno in quest’ultimo senso richiederebbe non una mera disponibilità, ma una vera e propria rinuncia dello Stato a far valere i propri principi fondamentali, non ravvisabile nei patti concordatari (Cass. n. 5358-87; Cass. n. 5823-87; Cass. n. 5354-87).

4. Ritengono queste Sezioni Unite che il contrasto vada composto affermando la non contrarietà all’ordine pubblico della sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità di un matrimonio religioso, per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, ove tale esclusione sia stata manifestata all’altro coniuge, anche se vi sia stata convivenza fra i coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio o l’azione di nullità sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione del matrimonio stesso e ciò sulla base delle considerazioni che seguono.

5. Il ricorso è stato rimesso a queste Sezioni Unite per la composizione del contrasto già in precedenza evidenziato, ma è necessario esaminare il problema nella sua interezza, così come è stato prospettato con il motivo di ricorso, con il quale si deduce anche il profilo relativo al decorso dell’anno dalla celebrazione del matrimonio simulato come ulteriore ragione non ostativa alla deliberazione della sentenza ecclesiastica che la nullità del matrimonio abbia pronunciato.
Le sentenze ecclesiastiche dichiarative della nullità del matrimonio religioso sono delibabili quando non sono contrarie all’ordine pubblico e cioè – come si è detto in precedenza – quando non siano contrarie ai canoni essenziali cui si ispira in un determinato momento storico il diritto dello Stato ed alle regole fondamentali che definiscono la struttura dell’istituto matrimoniale così accentuato da superare il margine di maggiore disponibilità che l’ordinamento statuale si è imposto rispetto all’ordinamento canonico.
Il concetto così accettato di ordine pubblico non è dato da un ordine pubblico di tipo costituzionale o comunque speciale e più ristretto, ma dallo stesso ordine pubblico che si configura baluardo generale ad ogni rapporto con gli altri ordinamenti e che, in materia delibativa, viene espressamente richiamato dall’art. 797 n. 7 c.p.c. (Cass. n. 5358-87).
L’affermata maggiore disponibilità verso l’ordinamento canonico non costituisce- come pure è stato sostenuto in dottrina – enunciazione di un ordine pubblico concordatario diverso da quello generale, ma espressione ellittica per indicare la necessità di tener conto- al fine di formulare il giudizio sulla conformità o meno della sentenza delibanda all’ordine pubblico – del fatto che attraverso lo strumento concordatario, prima, e con la legge di ratifica ed esecuzione, poi, lo Stato italiano ha dapprima riconosciuto e poi recepito nell’ordinamento il sistema matrimoniale canonico, comprensivo non solo delle norme che disciplinano la costituzione del vincolo, ma anche di quelle che ne regolano il venir meno.
L’inserzione di tale normativa nell’ordinamento interno comporta, da una parte, l’impossibilità di far valere come causa ostativa alla delibabilità la circostanza che una sentenza ecclesiastica abbia dichiarato la nullità di un matrimonio canonico in violazione di norme sono state derogate e superate proprio dallo strumento concordatario, e, dall’altra la legittimità del rifiuto di delibazione quando la sentenza ecclesiastica, oltre a essere contraria ad una norma imperativa, relativa alla disciplina del matrimonio civile, sia contraria all’ordine pubblico nel senso innanzi precisato.
Si deve infatti ritenere che- in difetto di particolari esplicite eccezioni- lo Stato, nei rapporti interordimentali, non deroghi e non possa derogare a quelle che sono “le regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti in cui si articoli l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società” (C.cost. n. 18-82), che costituiscono, come è stato esattamente rilevato da Cass. n. 5354-87, controlimitazioni alle limitazioni legittimamente apponibili dallo Stato alla propria sovranità.
Di quanto precede deriva, quindi, che non è contraria all’ordine pubblico italiano e può essere delibata la sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità di un matrimonio religioso per simulazione unilaterale, ove la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno dalla celebrazione.
Seppure la disposizione canonica che consente l’impugnativa del matrimonio in ogni tempo è contraria al principio imperativo contenuto nel nostro ordinamento che rende impossibile l’impugnazione del matrimonio civile simulato dopo il decorso di un certo periodo di tempo dalla celebrazione, non vi è alcuna contrarietà all’ordine pubblico in tale pronuncia, non costituendo il principio della decadenza dall’impugnazione enunciazione di un principio fondamentale dell’ordinamento, il quale, all’opposto, sia in campo matrimoniale che in campi diversi, conosce ipotesi di imprescrittibilità dell’impugnazione.

6. Passando all’esame della seconda questione, si tratta di accertare se il principio contenuto nell’art. 123, comma 2, c.c. (e secondo cui il matrimonio civile di cui al primo comma dello stesso articolo non può essere impugnato nell’ipotesi che i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione) costituisca un principio fondamentale dell’ordinamento e cioè una di quelle controlimitazioni di cui parla Cass. n. 5354-1987, che impediscono la delibazione della sentenza ecclesiastica, che, malgrado la convivenza, ha dichiarato la nullità del matrimonio o se invece si tratta di norma non avente valenza di principio fondamentale.
Le sentenze che hanno dato risposta affermativa al quesito hanno invocato, come si è in precedenza accennato, di volta in volta, o le norme costituzionali (art. 2 e 29 cost.) o le norme che disciplinano il matrimonio civile, o entrambe queste categorie. Al fine, pertanto, di risolvere il problema posto, è necessario esaminare distintamente e congiuntamente le norme invocate come parametro.

7. Per quanto riguarda l’art. 2 cost., lo stesso non ha una decisiva rilevanza e ciò, del resto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale per la quale la norma richiamata, nel riconoscere e garantire, in genere, i diritti inviolabili dell’individuo, necessariamente si riporta alle norme successive in cui tali diritti sono presi in considerazione (C.cost. n. 29-1962) e particolarmente all’art. 29 cost. in tema di diritti della famiglia (C.cost. n. 181-1976).
L’art. 29, comma 2, cost. si limita a stabilire che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.
Il riferimento al carattere “naturale” della societas coniugale significa semplicemente- come è stato rilevato in dottrina- che tale norma attribuisce al matrimonio la funzione di una struttura familiare storicamente aperta ai processi di revisione del suo regime (e delle sue forme) di tempo in tempo occorrenti per confermare l’istituto alle esigenze di una formazione sociale assolutamente peculiare.
Nel binomio posto dalla norma fra “società naturale” e “matrimonio” nessuno dei due termini ha un valore prevalente sull’altro, ma sono entrambi indispensabili: il primo- come ha rilevato il Procuratore Generale nel corso dell’odierna discussione orale- sottolinea il carattere primigenio dell’aggregazione umana ed il secondo la particolare qualificazione che a tale aggregazione attribuisce lo strumento genetico.
Sub specie iuris constitutionis, però, il “matrimonio”- visto nei suoi elementi genetici e funzionali- di cui parla la citata norma non si identifica con un determinato modello istituzionale, ma riceve contenuto e sostanza dal legislatore ordinario, il quale può legittimamente, e con piena libertà di scelta, optare sia per l’indissolubilità del vincolo costituito, sia per la sua dissolubilità, sicché come non può sostenersi che è incostituzionale addurre, dopo anni di convivenza, la cessazione della comunione spirituale e materiale fra i coniugi al fine di ottenere lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi effetti civili, al medesimo modo non può negarsi la conformità all’invocata norma costituzionale di una disposizione che, nella stessa situazione, prevedesse la possibilità di far valere non l’attuale fatto disgregante del consorzio familiare, ma l’intesa iniziale dei fingere il matrimonio.
La norma costituzionale, cioè, per la sua formulazione, non fornisce argomenti nè per ritenere che il supporto naturale del comportamento societario dei componenti la famiglia consenta di prescindere dalla postulata validità dell’atto-matrimonio che la costituisce e la rende destinataria di diritti; nè per affermare che la stabilità del vincolo, comunque realizzatasi e quindi anche attraverso la convivenza dopo la celebrazione, rappresenta la dimensione normativa dell’effettività dell’unione che impedisce di dare rilievo al difetto genetico dell’atto costitutivo.

8. La dimostrata inidoneità del dato costituzionale a fondare le conclusioni qui disattese, induce ad indirizzare l’indagine sulla legittimazione ordinaria al fine di accertare se la stessa, unitariamente considerata, permetta di ravvisare l’esistenza di un principio fondamentale dell’ordinamento matrimoniale in base al quale la convivenza fra i coniugi successivamente alla celebrazione sia ostativa alla deliberazione di una sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio-atto, per la sopravvenienza del matrimonio-rapporto.
Va innanzitutto rilevato che, postulata la differenza fra convivenza, intesa come pienezza della comunione spirituale e materiale, e coabitazione, che allude ad un mero stato di fatto che prescinde dalla convivenza nel senso prima precisato, in tutto l’ordinamento positivo italiano non vi è altra disposizione diversa da quella di cui all’art. 123, comma 2, c.c. che preveda la non impugnabilità del matrimonio-atto in conseguenza dell’intervenuta convivenza fra i coniugi e ciò costituisce rilevante argomento per negare che la stessa possa costituire principio fondamentale dell’ordinamento.
Ove si tengono, poi, presenti i lavori parlamentari che hanno preceduto l’introduzione e la formulazione della disposizione e si dia una lettura unitaria dei due commi in cui essa si articola, si deve concludere che il legislatore non ha introdotto, per il matrimonio di cui all’art. 123, comma 1, c.c., una sanatoria di un atto radicalmente nullo ma ha ravvisato nella “convivenza come coniugi”, successivamente alla celebrazione del matrimonio o nella mancata proposizione dell’impugnazione nel termine dell’anno, una presunzione iuris et de iure di inesistenza della simulazione.
Tale ricostruzione spiega anche le ragioni per le quali non si sia data rilevanza alla coabitazione per un anno, come fatto in altre ipotesi (cfr.Art. 117, 119, 120, 122, c.c.): mentre nelle fattispecie di cui agli articoli richiamati il vizio è, per così dire, pacifico, e la coabitazione protratta o la volontà di mantenere in vita il vincolo matrimoniale (art. 117, comma 2, c.c.) costituiscono il mezzo per ritenere intervenuta una volontà convalidatrice del consenso inizialmente mancante o viziato, nel caso in esame, invece, non c’è bisogno di questa volontà convalidatrice proprio perché il legislatore ritiene che non si è in presenza di un matrimonio viziato.
L’art. 123, comma 2, c.c., quindi, lungi dal disciplinare l’instaurazione del matrimonio-rapporto che rende inattaccabile il matrimonio-atto, sanziona l’inimpugnabilità di quest’ultimo proprio perché nessun vizio lo inficia.
A ciò bisogna poi aggiungere che la dottrina, in presenza della formulazione dell’art. 123 c.c. e della sua limitata possibilità di operare, ha sostenuto l’ammissibilità e la rilevanza nel nostro ordinamento della simulazione assoluta che induce -ove sia provata la mancanza del consenso in dipendenza di precedenti accordi fra le parti -a ritenere l’inesistenza del matrimonio e quindi la sua inidoneità ad essere sanata da alcun comportamento successivo e la presenza, anche nel nostro ordinamento, di un principio analogo a quello al quale si ispira il diritto canonico.
A prescindere, comunque, dalla riferita opinione dottrinale, nonché dalle ipotesi in cui è espressamente prevista l’imprescrittibilità dell’azione di nullità (art. 124 c.c.), che possono non essere invocate quali eccezioni al principio della generale sanabilità della nullità matrimoniali, attese le ragioni di ordine morale che le giustificano, ma che contraddicono il principio qui contestato, è da rilevare che lo stesso non può essere ravvisato nella legge sul divorzio che consente lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suo effetti civili qualora si accerti che la comunione spirituale e materiale fra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita, da ciò argomentando per l’irrilevanza dell’invalidità dell’originario matrimonio-atto e concludendo nel senso che l’ordinamento prende in considerazione, una volta realizzato il matrimonio-rapporto, solamente quest’ultimo.
È sufficiente in proposito richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte sui rapporti fra giudizio di divorzio e giudizio di nullità matrimoniale, tutta nel senso della inesistenza di un rapporto di pregiudizialità fra i due giudizi dal momento che il primo non implica il previo accertamento della validità dell’atto di matrimonio, oggetto del secondo (cfr., fra le tante, Cass. 13 ottobre 1975 n. 3257; Cass. 29 novembre 1977 n. 5188; Cass. 28 ottobre 1978 n. 4925; Cass. 21 marzo 1980 n. 1905).
Da tale giurisprudenza si evince, infatti, che le due azioni operano su piani diversi con diverso oggetto e che la pendenza del giudizio di divorzio non esclude o rende comunque improponibile l’azione di nullità, come dovrebbe essere ove fosse vero l’assunto circa la pretesa irrilevanza -successivamente alla realizzazione della comunione spirituale e materiale fra i coniugi -dei vizi del matrimonio-atto.
In realtà è vero il contrario essendosi affermato che il procedimento per la dichiarazione di efficacia della pronuncia di nullità non può essere paralizzato invocandosi il giudicato che abbia pronunciato, in ordine allo stesso matrimonio, la cessazione dei suo effetti civili (Cass. 26 luglio 1977 n. 3347; Cass. 9 agosto 1977 n. 3638), il quale è destinato ad essere superato proprio della pronuncia di nullità del matrimonio-atto.
La limitata portata della “convivenza come coniugi”, nell’ambito dell’ordinamento -con riferimento sia alle altre norme che disciplinano la nullità del matrimonio sia alle disposizioni in tema di legge sul divorzio -e l’inesistenza nelle norme costituzionali di un principio chiaramente evincibile circa la prevalenza del matrimonio-rapporto sul matrimonio-rapporto sul matrimonio-atto, anche se viziato, impediscono, poi, la praticabilità di una interpretazione adeguatrice, pure acutamente prospettata, e per la quale in ogni caso di matrimonio nullo per vizi del consenso, l’impugnazione dell’atto sarebbe comunque impedita a prescindere dal decorso dei termini previsti dalle singole norme qualora vi sia stato convivenza come coniugi.
Si tratterebbe, infatti, non già di una interpretazione adeguatrice, sempre possibile ove ne sussistano i presupposti, ma dell’introduzione di una sostanziale modifica dell’ordinamento, consentita al legislatore ordinario, ma assolutamente vietata all’interprete.
La tesi qui contestata non può quindi essere accolta perché la convivenza fra i coniugi, intervenuta successivamente alla celebrazione del matrimonio, ostativa all’impugnazione del matrimonio civile ai sensi dell’art. 123, comma 2, c.c. seppure si pone come una norma imperativa interna, non costituisce espressione di principi o di regole fondamentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio, sicché la sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matrimonio religioso per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimoni, non rimasta nella sfera psichica del suo autore, manifestata all’altro coniuge, malgrado l’intervenuta convivenza fra gli stessi, non è contraria all’ordine pubblico italiano e può quindi essere dichiarata esecutiva in Italia.
È questa la sola ragione a favore della delibabilità e non anche quella prospettata nel corso dell’odierna discussione orale ed avanzata in dottrina, secondo cui, negando la delibabilità della sentenza ecclesiastica per sopravvenuta convivenza si introdurrebbe una forma surrettizia di matrimonio di fatto, perché il persistere degli effetti giuridici del rapporto coniugale non è collegato all’esistenza di un negozio matrimoniale valido -o convalidato -ma al mero fatto della passata convivenza, laddove il matrimonio-atto è stato dichiarato nullo nell’ordinamento in cui è stato stipulato.
Tale tesi, infatti, non tiene conto, da una parte, che, una volta ammesso l’accertamento della conformità all’ordine pubblico italiano da parte dell’autorità giudiziaria della sentenza ecclesiastica, è sempre possibile il rifiuto della deliberazione ove la pronuncia non superi il vaglio di conformità e, dall’altra, che, in tema di rapporti interordinamentali, il venir meno del matrimonio-atto secondo il diritto della Chiesa nn esclude la persistente permanenza dello stesso nell’ordinamento italiano, proprio perché tale atto sopravvive, agli effetti civili, per la mancanza di deliberazione, alla dichiarazione di nullità dell’atto canonico.

9. Queste Sezioni Unite devono comunque dare atto che l’indirizzo giurisprudenziale disatteso è mosso soprattutto da apprezzabili ragioni di tutela del coniuge più debole, il quale -sulla base dell’attuale normativa -è, dal punto di vista patrimoniale, insufficientemente tutelato a seguito di una pronuncia di nullità (cfr. art. 129 e 129 bis c.c.), rispetto alla più ampia tutela che riceve dalla pronuncia di divorzio (cfr. art. 5 e ss.l.1 dicembre 1970 n. 898, come modificati dalla l. 6 marzo 1987 n. 74) e ciò, in specie, quando la pronuncia di nullità interviene a distanza di anni dalla celebrazione del matrimonio e si sono consolidate situazioni, anche di comunione di vita, che vengono poste nel nulla dalla pronuncia stessa (cfr., in proposito, Cass. n. 5823-87, la quale, a chiare lettere, enuncia il principio secondo cui, una volta intervenuta la convivenza, non vi è altra strada che quella di ottenere una pronuncia giudiziale di scioglimento o di cessazione degli effetti civili di esso, per caducare il matrimonio).
Ciò però non è addebitabile allo strumento concordatario, una volta dimostrato che l’attuale disciplina non contrasta, sul punto con l’ordine pubblico italiano, ma al legislatore ordinario, il quale, proprio in considerazione della tutela del coniuge più debole, potrebbe, in piena libertà, predisporre, autonomamente, strumenti legislativi -peraltro auspicati dalla più sensibile dottrina -che assimilano, nei limiti del possibile e tenuto conto della diversità delle situazioni, ai fini della tutela patrimoniale, la posizione del coniuge nei cui confronti è stata pronunciata la nullità del matrimonio, a quella del coniuge divorziato.
Siffatta modifica completerebbe quella revisione legislativa già iniziata con la l. 19 maggio 1975 n. 151, sulla riforma del diritto di famiglia -i cui art. 20 e21, nel sostituire, rispettivamente, l’art. 129 c.c. del 1942 e nell’inserire l’art. 129 bis nel codice civile, hanno timidamente iniziato un’opera di assimilazione fra nullità e scioglimento del matrimonio -e sarebbe avvertita dai cittadini come un fattore di moralizzazione nella scelta del mezzo con il quale far venir meno il vincolo coniugale.
L’ipotizzata identità di conseguenze di ordine patrimoniale indurrebbe a ricorrere al giudice ecclesiastico solo coloro che, come cives fideles, avvertono nelle loro coscienze il peso di un sacramento non voluto e per la loro coscienza nulla e non anche coloro che, attualmente, invocano la nullità del matrimonio come mezzo per liberarsi da ogni responsabilità patrimoniale nei confronti del loro coniuge.

10. Concludendo, il ricorso deve essere accolto, l’ordinanza va cassata e la causa va rinviata ad altra sezione della stessa corte d’appello di Milano, anche per la liquidazione delle spese di questa fase di giudizio, la quale nel decidere si atterrà al seguente principio di diritto: “in tema di deliberazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, manifestata all’altro coniuge, nella disciplina di cui agli art. 1 l. 27 maggio 1929 n. 810 e 17 l. 27 maggio 1929 n. 847 (come risultanti a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 1982), non contrasta con l’ordine pubblico italiano e deve quindi essere dichiarata esecutiva in Italia la sentenza ecclesiastica che tale nullità abbia dichiarato, anche se la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno della celebrazione o dopo che si sia verificata la convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione stessa”;

P.Q.M

La Corte di cassazione, a sezioni unite, accoglie il ricorso; cassa la decisione impugnata e rinvia la causa per nuovo esame ad altra sezione della corte d’appello di Milano, anche per la pronuncia sulle spese di questa fase di giudizio.