Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 1 Settembre 2003

Sentenza 21 maggio 1987, n.196

Corte costituzionale. Sentenza 21 maggio 1987, n. 196: “Obiezione di coscienza all’aborto (artt. 9 e 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194)”.

(La Pergola; Borzellino)

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: prof. Antonio LA PERGOLA;

Giudici: prof. Virgilio ANDRIOLI, prof. Giuseppe FERRARI, dott.

Francesco SAJA, prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL’ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO;

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 9 e 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), promosso con ordinanza emessa il 24 settembre 1984 dal giudice tutelare di Napoli, sulla richiesta proposta da Mangiapia Silvia, iscritta al n. 1236 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 71- bis dell’anno 1985.

Udito nella camera di consiglio del 25 marzo 1987 il Giudice relatore Giuseppe Borzellino.

(omissis)

Considerato in diritto

1. – L’art. 12, secondo comma, della legge 22 maggio 1978 n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) prevede che la richiesta di interruzione, se fatta da minore, debba ottenere l’assenso di chi esercita la patria potestà o la tutela. Tuttavia, nei casi che impediscano o sconsiglino la consultazione dei predetti soggetti, ovvero se questi rifiutino l’assenso ovvero esprimano pareri tra loro difformi, il giudice tutelare competente può autorizzare la richiedente a decidere l’interruzione medesima.

Il giudice tutelare di Napoli ravvisa, in presenza di tale normativa, che ove sussista, per convincimento profondo e radicato in lui contro l’aborto, “conflitto insanabile tra la propria coscienza e gli obblighi derivantigli dalle funzioni” debba essergli accordata facoltà di sollevare obiezione di coscienza; ma tanto non è positivamente previsto, all’incontro di quanto disposto (art. 9) per il personale sanitario (od esercente le attività ausiliarie) che intervenga nelle procedure abortive.

In conseguenza, ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale dei predetti artt. 9 e 12 legge n. 194 del 1978, in riferimento – oltre che all’art. 3 Cost. per disparità di trattamento col personale sanitario e paramedico – agli artt. 2, 19 e 21, ritenuti complessivamente inerenti alla garanzia di tutela dei propri diritti inviolabili, sia di professione di fede religiosa che di libertà di manifestazione del pensiero.

2. – La questione non è fondata.

Occorre ricordare che la normativa dettata dalla legge in discorso conferisce rilievo alla salute psico-fisica della gestante, essendo la condizione di questa del tutto particolare (sent. n. 27 del 1975). In presenza perciò, entro i primi novanta giorni, di “serio pericolo” (art. 4) maggiore o minore di età che la donna sia, secondo parametri ben individuati e circoscritti nella legge (stato di salute, condizioni economiche, o sociali o familiari, circostanze del concepimento, ovvero previsioni di anomalie nel concepito) viene accordata facoltà alla richiedente di adire le esistenti strutture socio-sanitarie (art. 5). Gli accertamenti necessari si concludono col rilascio di un documento, di cui la gestante è resa compartecipe, abilitante alla interruzione volontaria presso una delle sedi all’uopo autorizzate.

Stante i richiamati scopi del contesto di legge, nessuna differenza v’è nelle procedure suddette – né può ovviamente esservi – tra donna maggiore o minore degli anni diciotto; tant’è che in caso di urgenza, rivelandosi cioè “grave” pericolo per la salute (connotazione ben più specifica ed incisiva del “serio” pericolo di cui già si è detto) la posizione della minorenne viene parificata in toto (art. 12, penultimo comma) con quella della gestante maggiore d’età, nel senso che non è più richiesto assenso di sorta.

In ogni altro caso occorre per la donna minore l’assenso degli aventi titolo: sostituibile da quella “autorizzazione a decidere”, disposta dal giudice tutelare e di cui si è più sopra riferito.

Ancorché sui generis sia perché fatto salvo da reclamo, così come di regola previsto, invece, per effetto dell’art. 739 c.p.c., sia perché non decisorio bensì meramente attributivo della facoltà di decidere, il menzionato provvedimento rientra pur sempre nell’ambito degli schemi autorizzatori adversus volentem: unicamente di integrazione, cioè, della volontà della minorenne, per i vincoli gravanti sulla sua capacità d’agire (sent. n. 109 del 1981).

Dunque, esso rimane esterno alla procedura di riscontro, nel concreto, dei parametri previsti dal legislatore per potersi procedere all’interruzione gravidica. Ed una volta che i disposti accertamenti siansi identificati quale antefatto specifico e presupposto di carattere tecnico, al magistrato non sarebbe possibile discostarsene; intervenendo egli, come si è chiarito, nella sola generica sfera della capacità (o incapacità) del soggetto, tal quale viene a verificarsi per altre consimili fattispecie (per gli interdicendi, ad es., a sensi dell’art. 414 cod. civ.). né potrebbe, peraltro, indurre a diversa considerazione la dizione della norma secondo cui il giudice “può” autorizzare la donna, poiché il termine è piuttosto da riferire, in particolare, alla attività sostitutiva, anche in presenza di rifiuto da parte della patria potestà.

Tali essendo i ben circoscritti e non cospicui margini di intervento del giudice tutelare (ed integre restando, comunque, le successive valutazioni della gestante abilitata essa sola a decidere) non sussiste disparità col personale sanitario, al quale soltanto come riconosce la stessa ordinanza di remissione – competono gli accertamenti intesi alla previsione d’aborto: nessuna lesione, perciò, per difetto di omogeneità nei differenti stadi della procedura, ricorre nei confronti dell’art. 3 Cost.

3. – La questione si incentra così nell’assunto contrasto dell’art. 12 della legge n. 194 del 1978 (l’art. 9 reca soltanto, infatti, gli elementi per il precedente raffronto) con gli artt. 2, 19 e 21 Cost., venendo in rilievo la denunciata contrapposizione, nella coscienza del remittente, dei suoi convincimenti interni virtutis et vitiorum rispetto alla esistente doverosità di satisfacere officio.

Gli invocati parametri indubbiamente rivestono in fattispecie una connotazione unitaria, poiché se i principi di cui all’art. 2 assumono a valore primario i diritti inviolabili dell’uomo, le garanzie di libertà della coscienza religiosa (secondo i contenuti resi già ostensivi da questa Corte con sentenza n. 117 del 1979) e di altrettanta libertà della manifestazione del pensiero (nei suoi molteplici aspetti) restano avvinti da una complementarietà d’intenti.

A ben vedere, trattasi di comporre un potenziale conflitto tra beni parimenti protetti in assoluto: quelli presenti alla realtà interna dell’individuo, chiamato poi, per avventura, a giudicare, e quelli relativi alle esigenze essenziali dello jurisdicere (ancorché intra volentes).

Orbene, a parte i contenuti di doverosità presenti nell’art. 54, secondo comma, Cost., un indice rimarchevole, sia pure a fronte della libertà di associazione, emerge dal dettato del successivo art. 98, terzo comma, là dove tale estrinsecazione di una fondamentale libertà individuale soffre per il magistrato di limitazioni, avuto riguardo al dover questi pronunciare, tra l’altro, proprio sulle questioni familiari. E’ peraltro, ancora, l’inamovibilità garantita al magistrato (art. 107) che come lo pone al riparo da qualsivoglia interferenza ab externo, così comporta – salvi i casi ex artt. 51 e 52 c.p.c. di sopravvenuto difetto nella neutralità propria del decidere – l’indeclinabile e primaria realizzazione della esigenza di giustizia, interesse d’ordine generale il cui rilievo costituzionale questa Corte ha ripetutamente riconosciuto (cfr. sentenza n. 1 del 1981).

Il magistrato è tenuto ad adempiere con coscienza appunto (art. 4 legge 23.12.1946, n. 478) ai doveri inerenti al suo ministero: si ricompongono in tal modo, nella realtà oggettiva della pronuncia, e i suoi convincimenti e la norma obiettiva da applicare. E’ propria del giudice, invero, la valutazione, secondo il suo “prudente” apprezzamento: principio questo proceduralmente indicato, che lo induce a dover discernere – secondo una significazione già semantica della prudenza – intra virtutes et vitia. Ciò beninteso in quei moduli d’ampiezza e di limite che nelle singole fattispecie gli restano obiettivamente consentiti realizzandosi, in tal guisa, l’equilibrio nel giudicare.

E comunque a che siano evitate abnormi distorsioni all’enunciato equilibrio, fisiologico al giudice, l’ordinamento appronta, d’altronde, opportuni rimedi anche sul piano soggettivo dell’esercizio delle funzioni: alla odierna fattispecie resta estranea, tuttavia, ogni disamina del genere, interna alla strutturazione giudiziaria, alla quale pure compete – nei casi di particolare difficoltà – la possibile adozione di adeguate misure organizzative (cfr. sentenza n. 57 del 1985).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 9 e 12 della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), sollevata, con riferimento agli artt. 2, 3, 19, 21 Cost. dal giudice tutelare di Napoli con l’ordinanza in epigrafe.