Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 28 Marzo 2016

Sentenza 22 febbraio 2016, n.3416

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 22 febbraio 2016, n. 3416: "Sproporzionate le sanzioni disciplinari a carico del lavoratore assente nella giornata di turno domenicale che recuperi in quella di turno di riposo".

(omissis)

Fatto

Con sentenza depositata il 17 settembre 2010 la Corte di appello di Milano ha confermato la pronuncia del locale Tribunale, che aveva respinto la domanda di accertamento proposta da Poste Italiane s.p.a.diretta a far dichiarare la legittimità delle sanzioni disciplinari della multa e della sospensione dal servizio e dalla retribuzione pari ad un giorno, irrogate a L.L. per essere stato immotivatamente assente nei giorni (OMISSIS) in coincidenza con il proprio turno domenicale di lavoro, presentandosi invece al lavoro nei giorni di riposo settimanale.
Secondo le giustificazioni addotte dal dipendente, la società Poste aveva introdotto nel 1999 a livello sperimentale nell'organizzazione del Centro Meccanizzato di Peschiera Borromeo il turno domenicale, con partecipazione a base volontaria, per i lavoratori che avrebbero dovuto procedere allo smistamento della corrispondenza proveniente dalla città di Lione in Francia; successivamente la società aveva esteso unilateralmente l'applicazione di detto turno ad altri reparti e lavorazioni senza raggiungere un accordo sindacale e ciò aveva generato proteste da parte di chi, di fede cattolica, intendeva la domenica come momento religioso e di pratica di fede; alcuni sindacati avevano contestato l'imposizione di effettuare il turno domenicale e il L. aveva aderito a tale iniziativa sindacale comunicando fin dal novembre 2004 di non volere essere posto in servizio nelle giornate festive domenicali e cristiane. A fronte di tali iniziative sindacali, nelle giornate di domenica del (OMISSIS) il L. si era assentato e, al fine di recuperare la giornata lavorativa del (OMISSIS), si era presentato in servizio il (OMISSIS) (in cui risultava in riposo) e altrettanto era avvenuto lunedì (OMISSIS), al fine di recuperare le assenze del (OMISSIS). Il resistente aveva pure dedotto che altri lavoratori avevano aderito a tali iniziative sindacali di astensione dal lavoro domenicale e recupero nella giornata del turno di riposo senza ricevere contestazioni di sorta. Aveva altresì allegato che il diritto al riposo nel giorno destinato all'esercizio del proprio culto era desumibile anche dal contratto collettivo (che in tal senso aveva espressamente previsto in favore dei lavoratori delle chiese cristiane avventiste e per quelle ebraiche), senza subordinazione alle esigenze di produzione o di servizio. In ogni caso, considerata la peculiarità della vicenda, ove ritenute infondate le giustificazioni addotte, il L. aveva prospettato la sproporzione delle sanzioni irrogate, che avrebbero potuto dar luogo, al più, al rimprovero o all'ammonizione scritta. La Corte di appello, nel condividere l'iter argomentativo del primo giudice, giudicava sproporzionate le sanzioni in considerazione dei seguenti elementi:
– le Poste avevano mantenuto una condotta equivoca sulla questione del turno domenicale, in seguito soppresso, così da indurre i dipendenti a ritenere che sarebbe stato mantenuto un atteggiamento di tolleranza al riguardo;
– non era stata considerata la buona volontà del lavoratore che, pur contestando il turno domenicale, aveva inutilmente offerto la propria prestazione nei successivi giorni di riposo per compensare l'assenza;
– l'appellato aveva fatto rilevare il diritto al riposo, come prevede il D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 9, dopo sei giornate consecutive di lavoro, la cui effettiva prestazione non era stata contestata;
– non può ignorarsi il diritto dei lavoratori di astenersi dal lavoro il giorno di domenica, destinato alla pratiche religiose, che connota di particolare rilievo il rifiuto della prestazione in quel giorno.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la soc. Poste Italiane con due motivi, illustrati da successiva memoria ex art. 378 c.p.c.. Resiste il L. con controricorso.
 
Diritto

Con il primo motivo si denuncia violazione di legge in relazione all'art. 2104 c.c. per avere la Corte di appello trascurato di considerare che tale norma impone al lavoratore, in adempimento dell'obbligo di diligenza ivi prescritto, di fornire una prestazione che sia eseguita puntualmente e che possa coordinarsi con i tempi e le modalità richieste dal tipo di organizzazione imposta dall'imprenditore, cui compete il potere di organizzazione e direzione ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c.. Il fatto che il L. si fosse recato al lavoro il giorno successivo all'assenza non vale a mitigare la gravità dell'inadempienza. Pure irrilevante è circostanza che il resistente abbia contestato il turno domenicale, informando la società datrice di lavoro della propria volontà di non presentarsi al lavoro le domeniche in cui era di turno, posto che la contestazione di direttive aziendali configura una violazione del disposto di cui all'art. 2104 c.c., tanto più che l'art. 28 CCNL 2003 qualificava come obbligo per il lavoratore l'osservanza dell'orario di lavoro quale elemento essenziale della prestazione lavorativa.

Con il secondo motivo si censura la sentenza per violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 9 nella parte in cui ha ritenuto che il L. avesse diritto al giorno di riposo dopo sei giornate consecutive di lavoro, atteso che la citata norma consente alla contrattazione collettiva di derogare a tale disposizione (a condizione che ai lavoratori chiamati a lavorare di domenica siano comunque accordati periodi equivalenti di riposo compensativo), come pure prevede che il riposo di ventiquattro ore consecutive possa essere fissato in un giorno diverso dalla domenica, laddove si tratti di servizi ed attività il cui funzionamento domenicale corrisponda ad esigenze tecniche ovvero soddisfi interessi rilevanti della collettività ovvero sia di pubblica utilità.
Entrambi i motivi sono infondati.
Quanto al primo, deve ritenersi che le considerazioni svolte dalla ricorrente circa l'osservanza del dovere di diligenza di cui all'art. 2104 c.c. non siano pertinenti al decisum, poichè la sentenza ha rigettato la domanda di accertamento di legittimità della sanzione per difetto di proporzionalità ai sensi dell'art. 2106 c.c., la cui valutazione postula un implicito riconoscimento della sussistenza dell'infrazione disciplinare. Pertanto, ogni rilievo svolto dall'odierna ricorrente in tema di diligenza del prestatore di lavoro non è conferente, avendo i giudici di merito ritenuto, a fronte dell'inadempimento degli obblighi gravanti sul lavoratore, sproporzionate le sanzioni inflitte in ragione di una pluralità di elementi concreti, riguardanti l'atteggiamento psicologico del lavoratore, espresso nei comportamenti anteriori e posteriori alla condotta contestata.
Deve dunque ritenersi, in primis, inconferente la denuncia di violazione dell'art. 2104 c.c., come tale inammissibile ex art. 366 c.p.c., n. 4.
Ove poi dovesse ritenersi erronea solo l'intitolazione del motivo di ricorso per cassazione, in sostanza diretto a censurare i criteri indicati dal giudice di appello a sostegno della ritenuta sproporzione delle sanzioni irrogate e ritenendo che ciò non osti alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, nè determini l'inammissibilità del ricorso, se dall'articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (v. S.U. n. 17931 del 2013, Cass. n. 4036 del 2014), comunque dovrebbe rilevarsi l'infondatezza del motivo.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (v, in particolare, Cass. 25144 del 2010, v. pure Cass. 5095 del 2011 ed altre successive), la proporzionalità della sanzione disciplinare è nozione che, al pari di altre rinvenibili nell'ordinamento positivo (ad esempio, la nozione di giusta causa) la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare le clausole generali come quella di cui all'art. 2106 cod. civ., che detta tipiche "norme elastiche", non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale, poichè l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca.
Nel caso in esame, è certamente conforme a diritto (art. 2106 c.c.) la considerazione, operata dal giudice di merito, dell'elemento psicologico del lavoratore, poichè nella valutazione complessiva della proporzionalità tra l'infrazione e la sanzione irrogata rientra non solo l'illiceità in senso oggettivo della condotta, non più in discussione, ma anche l'intensità o – come nella specie – la tenuità dell'elemento psicologico del lavoratore.
La Corte di merito ha valorizzato un certo grado di affidamento indotto dal comportamento aziendale, che aveva portato il lavoratore a ritenere che sarebbe stato mantenuto un atteggiamento di tolleranza riguardo alla mancata prestazione del lavoro domenicale. Ha altresì valorizzato l'offerta della prestazione lavorativa nel giorno di riposo settimanale, condotta che, seppure priva di valore scriminante, esprime un atteggiamento collaborativo manifestato dal L. per compensare l'assenza. Infine, è stato valorizzato dai giudici di appello, seppure con sintetica motivazione, il contesto complessivo della vicenda in cui l'infrazione si collocava: esisteva una iniziativa sindacale in corso e una richiesta individuale di non assegnazione a turni domenicali per motivi religiosi (esercizio del diritto di culto), circostanze di cui la soc. Poste Italiane era a piena conoscenza e che portarono nel periodo immediatamente successivo alla soppressione del turno domenicale.
I tre indici valorizzati dal giudice di merito ai fini del giudizio di non proporzionalità delle sanzioni, in ragione dell'elemento soggettivo sotteso alle condotte ascritte, appaiono valide specificazioni del parametro normativo, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi suddetti non è neppure contestata, come pure non vi è denuncia di incoerenza di tali parametri di giudizio rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale.
Il secondo motivo lamenta la violazione del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 9 (obbligo di riposo dopo sei giorni lavorativi). Il motivo, seppure riferibile ad un passaggio motivazionale contenuto nella sentenza impugnata, privo di autonomia e di rilevanza ai fini della decisione ("…fa rilevare l'appellato il diritto al riposo, come prevede il D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 9, dopo sei giornate consecutive di lavoro"), presuppone che il giudice di merito abbia ritenuto illegittimo il turno di lavoro domenicale, mentre tale giudizio non risulta in alcun modo espresso, ed anzi – come già detto – la motivazione incentrata sul difetto di proporzione presuppone la sussistenza dell'infrazione.
Il ricorso va, pertanto, respinto. Le spese del giudizio di legittimità, poste a carico della società soccombente, sono liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2, con distrazione ex art. 93 c.p.c..

PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge, da distrarsi in favore del procuratore antistatario.
 
Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2016