Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 30 Settembre 2003

Sentenza 22 ottobre 1999, n.390

Corte Costituzionale. Sentenza 22 ottobre 1999, n. 390:

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Dott. Renato GRANATA Presidente
– Prof. Giuliano VASSALLI Giudice
– Prof. Francesco GUIZZI ”
– Prof. Cesare MIRABELLI ”
– Prof. Fernando SANTOSUOSSO ”
– Avv. Massimo VARI ”
– Dott. Cesare RUPERTO ”
– Dott. Riccardo CHIEPPA ”
– Prof. Gustavo ZAGREBELSKY ”
– Prof. Valerio ONIDA ”
– Prof. Carlo MEZZANOTTE ”
– Avv. Fernanda CONTRI ”
– Prof. Guido NEPPI MODONA ”
– Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI ”
– Prof. Annibale MARINI ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, primo comma, e 6 della legge 5 giugno 1930, n. 824 (Insegnamento religioso negli istituti medi d’istruzione classica, scientifica, magistrale, tecnica ed artistica); della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’Accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), nella parte in cui dà esecuzione all’art. 9, numero 2, di tale Accordo; dell’art. 309, comma 2, del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), promosso con ordinanza emessa il 13 dicembre 1996 dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia – sezione staccata di Catania sui ricorsi riuniti proposti da Smeralda Prinzi contro l’Istituto tecnico industriale “G. Marconi” di Messina ed altri, iscritta al n. 903 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 1998.

Visti l’atto di costituzione dell’Archidiocesi di Messina nonché gli atti di intervento della Conferenza episcopale italiana e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 19 maggio 1998 il Giudice relatore Cesare Mirabelli;

uditi l’avvocato Franco G. Scoca per l’Archidiocesi di Messina e per la Conferenza episcopale italiana e l’avvocato dello Stato Paolo di Tarsia di Belmonte per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. Nel corso di un giudizio promosso da una insegnante di religione che chiedeva l’annullamento della mancata conferma dell’incarico, per l’anno scolastico 1994-95, presso l’Istituto tecnico industriale “G. Marconi” di Messina e dei provvedimenti di nomina presso altri istituti di istruzione (Scuola media statale di Furnari e Istituto magistrale di Castroreale), il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia – sezione staccata di Catania ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale: degli artt. 5, primo comma, e 6 della legge 5 giugno 1930, n. 824 (Insegnamento religioso negli istituti medi d’istruzione classica, scientifica, magistrale, tecnica ed artistica); dell’art. 9, numero 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’Accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), esattamente della legge n. 121 del 1985, nella parte in cui dà esecuzione all’art. 9, numero 2, di tale Accordo; dell’art. 309, comma 2, del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado). Queste disposizioni sono denunciate laddove prevedono che la nomina degli insegnanti di religione, su proposta dell’ordinario diocesano, ha efficacia annuale, senza alcuna possibilità di inserimento nell’organico dei docenti, e con la possibilità di revoca ad libitum dell’incarico.

La legge n. 824 del 1930 stabilisce che l’insegnamento religioso è affidato per incarico a persone scelte all’inizio dell’anno scolastico dal capo dell’istituto, inteso l’ordinario diocesano (art. 5, primo comma), e prevede che l’incarico può essere revocato, anche durante l’anno, di accordo con l’autorità ecclesiastica (art. 6). La legge n. 121 del 1985 dispone la ratifica ed esecuzione dell’Accordo che apporta modificazioni al Concordato lateranense, il quale prevede (all’art. 9, numero 2) che la Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado.

Il testo unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione, approvato con il decreto legislativo n. 297 del 1994, prevede (all’art. 309) che per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado, il capo dell’istituto conferisce incarichi annuali d’intesa con l’ordinario diocesano secondo le disposizioni dell’Accordo tra la Repubblica italiana e la Santa Sede e relativo protocollo addizionale, ratificato con la legge n. 121 del 1985, e delle intese previste dal punto 5, lettera b), di tale protocollo.

Il giudice rimettente richiama queste disposizioni per denunciare la norma, che ha trovato applicazione nel caso sottoposto al suo giudizio, la quale stabilisce l’efficacia annuale della nomina degli insegnanti di religione.

La mancanza per essi della stabilità, che caratterizzerebbe invece la posizione degli altri insegnanti e dei pubblici dipendenti in genere, sarebbe priva di giustificazione e discriminerebbe, in violazione del principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), questa categoria di insegnanti, che fanno parte della componente docente negli organi scolastici, con gli stessi diritti e doveri degli altri docenti (art. 309, comma 3, del decreto legislativo n. 297 del 1994); né le peculiari caratteristiche della materia insegnata giustificherebbero un trattamento deteriore.

La designazione annuale da parte dell’ordinario diocesano non sarebbe diretta ad assicurare il controllo della idoneità dei docenti, giacché il potere di controllare la permanenza dei requisiti di idoneità richiesti per l’insegnamento della religione sarebbe comunque garantito da altre disposizioni. Né viene posto in discussione questo potere dell’ordinario diocesano, che costituisce il logico e necessario corollario del potere di designazione, che caratterizza questo insegnamento.

L’efficacia solo annuale dell’incarico sarebbe anche in contrasto con l’esigenza di stabilità, considerata uno degli aspetti del diritto al lavoro, tutelato in tutte le sue forme ed applicazioni (artt. 4, primo comma, e 35 Cost.); violerebbe, inoltre, il principio di buon andamento dell’amministrazione (art. 97, primo comma, Cost.), che richiede non solo la preparazione dell’insegnante, ma anche l’esperienza e la continuità didattica, che si conseguono prestando servizio nella stessa sede; mentre l’annualità dell’incarico determinerebbe un disagio personale e familiare dell’insegnante, che si ripercuoterebbe sul suo rendimento e, in definitiva, sul buon andamento del servizio.

2. Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito l’Ordinario diocesano di Messina, che era parte nel giudizio principale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata.

L’atto di costituzione recepisce un unito parere pro-veritate, nel quale si osserva che tra le norme denunciate è stato incluso l’art. 9, numero 2, dell’Accordo che apporta modificazioni al Concordato lateranense, che pure non contiene specifiche determinazioni sull’efficacia annuale della nomina degli insegnanti di religione. Ciò indurrebbe a ritenere che la questione di legittimità costituzionale si estenda all’ambito delle relazioni tra lo Stato e le confessioni religiose, per il quale opera la garanzia della disciplina pattizia, prevista dagli artt. 7 ed 8 della Costituzione. Investendo una norma di derivazione concordataria, il parametro del giudizio di legittimità costituzionale dovrebbe essere costituito dai “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale; mentre non sarebbero tali quelli indicati dal giudice rimettente, i quali, se pure in astratto possono riferirsi a diritti umani (diritto al lavoro) o a principi fondamentali (eguaglianza, imparzialità e buon andamento della amministrazione), in concreto rifletterebbero valori che non assurgono a “principi supremi”. Non si potrebbe confondere, difatti, con il diritto inviolabile al lavoro, che riguarda i molteplici modi di esplicare l’attività lavorativa, la pretesa stabilità nel posto di lavoro, che è sempre relativa e non è lesa da un regime di mobilità estesamente previsto in ambito scolastico. Né le differenziazioni di trattamento all’interno di una stessa categoria, quale è quella degli insegnanti, toccherebbero i valori fondamentali espressi dal principio di eguaglianza, il quale esclude discriminazioni basate sugli elementi distintivi indicati dall’art. 3 della Costituzione o che, investendo la tutela di diritti umani inviolabili, alterino la pari dignità delle persone.

Quanto alle norme interne statali, senza considerare la estensione ad esse della “copertura” assicurata dall’art. 7 della Costituzione, i problemi sollevati dall’ordinanza di rimessione riguarderebbero solo profili amministrativi, attinenti alla organizzazione didattica della scuola. In ogni caso l’intervento correttivo ed integrativo che viene richiesto toccherebbe la discrezionalità del legislatore e comporterebbe una scelta tra molteplici soluzioni.

Queste considerazioni, formulate per sostenere la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, sono poi sviluppate per dimostrarne anche la infondatezza.

Nel merito sarebbe inesatta la stessa premessa dalla quale muove l’ordinanza di rimessione, che presuppone la stabilità come una caratteristica del pubblico impiego, della quale rimarrebbero privi i soli insegnanti di religione.

Difatti, i rapporti di lavoro a tempo determinato non costituirebbero più una eccezione; anzi, essi sarebbero espressamente previsti e considerati nell’ambito della scuola (si veda l’art. 36, comma 4, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29). Lo stesso contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale scolastico (sottoscritto il 4 agosto 1995, su autorizzazione del Governo con provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri 21 luglio 1995, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 207, supplemento ordinario, del 5 settembre 1995) non farebbe più riferimento al “ruolo” degli insegnanti, ma prevederebbe per essi, accanto al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, anche l’assunzione a tempo determinato. Inoltre l’evoluzione del sistema scolastico avrebbe portato alla generale utilizzazione di procedure di mobilità nell’impiego dei docenti presso diversi istituti scolastici.

In questo contesto gli insegnanti di religione non sarebbero discriminati; vedrebbero, anzi, salvaguardate le loro aspettative di stabilità, nel rispetto del carattere annuale dell’incarico e del potere di controllo e di intervento dell’autorità ecclesiastica. L’annualità dell’incarico sarebbe giustificata sia dalle possibili variazioni delle esigenze del servizio scolastico, sia dalla particolare natura e struttura dell’insegnamento della religione, affidato, tra l’altro, preferibilmente a sacerdoti o religiosi (art. 5, ultimo comma, della legge n. 824 del 1930) o, nelle scuole materne ed elementari, ad insegnanti di classe disposti a svolgerlo (punto 2.6. dell’intesa tra l’autorità scolastica italiana e la Conferenza episcopale italiana, cui è stata data esecuzione con il d.P.R. 16 dicembre 1985, n. 751).

L’incarico, inoltre, si considera confermato se permangono le condizioni ed i requisiti prescritti, sicché lo stato giuridico degli insegnanti di religione, che pur costituiscono una categoria a parte, sarebbe quello dell’incaricato annuale stabilizzato, con un rapporto assimilabile a quello a tempo indeterminato.

L’intervento dell’autorità ecclesiastica nel procedimento di conferimento dell’incarico costituirebbe una forma di partecipazione all’organizzazione di un servizio che è reso nella scuola e nel quadro delle finalità della scuola, ma che non sarebbe interamente della scuola. La Chiesa, difatti ¾ concorrendo a determinare i programmi, le modalità di organizzazione, i criteri per la scelta dei libri di testo, i profili della qualificazione professionale degli insegnanti, il riconoscimento della idoneità e la loro designazione (punto 5, lettere a) e b), del protocollo addizionale all’Accordo di revisione del Concordato) ¾ assumerebbe le responsabilità connesse ai tratti confessionali di un insegnamento nei cui riguardi lo Stato rimane aperto e disponibile, giacché riconosce il valore della cultura religiosa e tiene conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano (art. 9, numero 2, dell’Accordo che apporta modificazioni al Concordato), ma mantiene la distanza propria di uno Stato laico pluralista, che non si identifica con alcuna confessione religiosa. Ciò comporterebbe il riconoscimento di uno spazio di autonomia connesso con l’ordine proprio della Chiesa, e non sarebbe irragionevole, in corrispondenza al legittimo riconoscimento di questo ordine, attribuire ai competenti organi ecclesiastici una qualche discrezionalità nell’esercizio della facoltà di designazione degli insegnanti che da quell’ordine provengono.

Considerati ragionevoli i limiti posti alla stabilità degli insegnanti, rimarrebbe anche escluso che questi limiti possano incidere negativamente sui criteri di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.).

La questione sarebbe infondata anche in riferimento agli artt. 4 e 35 Cost., giacché l’inviolabile diritto umano al lavoro non potrebbe essere identificato con il diritto alla stabilità nel posto di lavoro.

3. ¾ E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

L’inammissibilità deriverebbe dalla mancanza di un parametro di riferimento obbligato, che è necessario in una sentenza manipolativa per addizione, quale è quella richiesta. Inoltre, essendo la materia disciplinata pattiziamente, sarebbe pregiudiziale un accordo a livello sovranazionale, o quanto meno una intesa fra il Ministero della pubblica istruzione e la Conferenza episcopale italiana (punto 5 del protocollo addizionale all’Accordo di revisione del Concordato).

Nel merito l’Avvocatura sottolinea che il giudice rimettente muove da una incompleta ricostruzione del quadro normativo, che, se non prevede una piena stabilità o la collocazione in ruolo dell’insegnante di religione, lo pone tuttavia in una posizione garantita. L’evoluzione normativa ha delineato, sino al vigente contratto collettivo nazionale della scuola del 4 agosto 1995 (art. 47, comma 6), che ha efficacia normativa generale (in forza dell’art. 2 del decreto legislativo n. 29 del 1993), una sostanziale equiparazione, quanto al trattamento giuridico ed economico, degli insegnanti di religione ai docenti assunti a tempo indeterminato.

Anche per quanto riguarda le modalità di assunzione la situazione sarebbe diversa da quella esposta dal giudice rimettente. Il capo di istituto determina, nella sua autonomia organizzativa, le esigenze di servizio e verifica i requisiti generali di ammissione all’insegnamento, mentre l’ordinario diocesano, ai fini del raggiungimento dell’intesa sulla nomina, attesta l’idoneità dei docenti.

Ad avviso dell’Avvocatura, lo status degli insegnanti di religione sarebbe tutt’altro che profondamente differenziato rispetto a quello degli altri docenti “stabili”. Essi sono annualmente confermati nell’incarico, salvo nuove intese tra l’autorità diocesana e quella scolastica, che non comportano normalmente risoluzione del rapporto di servizio bensì, come nel caso esaminato dal giudice rimettente, spostamenti di sede o variazioni di orario anche in relazione al sopravvenire di circostanze oggettive.

Quanto al potere di revoca dell’incarico da parte del capo d’istituto «di accordo con l’autorità ecclesiastica» (previsto dall’art. 6 della legge n. 824 del 1930), esso sarebbe da leggere alla luce delle nuove intese con la Conferenza episcopale italiana: il riconoscimento della idoneità all’insegnamento ha effetto permanente (d.P.R. 23 giugno 1990, n. 202, di esecuzione dell’intesa del 13 giugno 1990) e la revoca presuppone la grave ed accertata carenza dei requisiti (retta dottrina, testimonianza di vita cristiana, abilità pedagogica) previsti dal canone 804 del codice di diritto canonico (delibera della CEI n. 41 del 5 settembre 1986 e n.42-bis del 30 dicembre 1987).

Ad avviso dell’Avvocatura, la questione di legittimità costituzionale sarebbe infondata anche sotto ulteriori profili.

Le differenze di status tra gli insegnanti di religione e gli altri insegnanti risponderebbero alla oggettiva diversità delle situazioni che si vorrebbero comparare, sicché non vi sarebbe alcuna violazione dell’art. 3 della Costituzione. L’insegnamento della religione cattolica presenterebbe, difatti, caratteristiche oggettivamente e soggettivamente atipiche, che ne hanno impedito l’inquadramento in classi di concorso e di abilitazione. Questo insegnamento verrebbe svolto nel sistema organizzativo dell’istruzione pubblica, del quale condivide finalità ed obiettivi, ma deriverebbe da una fonte esterna alle istituzioni scolastiche, collegandosi al regime pattizio-concordatario con la Chiesa cattolica.

Quanto al diritto al lavoro, garantito dagli artt. 4 e 35 della Costituzione, esso non comprenderebbe il diritto alla stabilità nel posto di lavoro. Rientra, inoltre, nella discrezionalità del legislatore privilegiare o meno, sia nel pubblico impiego sia in quello privato, il rapporto a tempo indeterminato.

Con riferimento al principio di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), l’Avvocatura rileva che si deve tener conto, oltre che della continuità didattica che assicurerebbe la permanenza dello stesso docente, anche di altri fattori, i quali incidono sul buon andamento dell’organizzazione scolastica. La scelta tra fattore soggettivo (continuità didattica e serenità del docente) e quello oggettivo (organizzazione dell’insegnamento) ai fini del miglior andamento dell’istruzione apparterrebbe alla insindacabile discrezionalità politica del legislatore.

4. ¾ Ha depositato una memoria di costituzione la Conferenza episcopale italiana (CEI), che non era parte nel giudizio principale, per sostenere la inammissibilità o, comunque, la manifesta infondatezza della questione.

Pur non ignorando la giurisprudenza che esclude l’ammissibilità, nel giudizio di legittimità costituzionale, di parti non costituite nel giudizio principale, la CEI ritiene che in questo caso sussistano le ragioni che hanno altre volte portato a derogare a questo principio. Difatti la questione di legittimità costituzionale metterebbe in discussione l’intesa stipulata tra la Conferenza episcopale italiana ed il Ministero della pubblica istruzione il 14 dicembre 1985 (eseguita con il d.P.R. 16 dicembre 1985, n. 751), o norme statali da essa richiamate o recepite. La soluzione della questione inciderebbe sull’esercizio delle attribuzioni della CEI, toccando la sfera di competenza di tale organo per quanto attiene all’insegnamento della religione cattolica.

Una eventuale modifica della disciplina posta in attuazione del punto 5, lettera b), del protocollo addizionale all’Accordo sottoscritto il 18 febbraio 1984 tra Repubblica italiana e Santa Sede toccherebbe i poteri di intervento del vescovo, bilateralmente determinati, ai fini della conclusione dell’intesa, necessaria per la nomina degli insegnanti.

Il giudizio di legittimità costituzionale, investendo l’intesa tra Ministero della pubblica istruzione e Conferenza episcopale, coinvolgerebbe direttamente la posizione e gli interessi di quest’ultima.

La memoria prospetta, poi, gli argomenti per i quali la questione di legittimità costituzionale sarebbe, nel merito, infondata.

Considerato in diritto

1. ¾ La questione di legittimità costituzionale riguarda le norme che disciplinano la nomina annuale degli insegnanti di religione nelle scuole pubbliche. Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia – sezione staccata di Catania denuncia gli artt. 5, primo comma, e 6 della legge 5 giugno 1930, n. 824 (Insegnamento religioso negli istituti medi d’istruzione classica, scientifica, magistrale, tecnica ed artistica); la legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’Accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), nella parte in cui dà esecuzione all’art. 9, numero 2, di tale Accordo; l’art. 309, comma 2, del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado).

Il giudice rimettente ritiene che queste disposizioni possano essere in contrasto con gli artt. 3, 4, 35 e 97 della Costituzione, laddove prevedono che la nomina degli insegnanti di religione, su proposta dell’ordinario diocesano, ha efficacia annuale, senza alcuna possibilità di essere inseriti nell’organico dei docenti, e con possibilità di revoca ad libitum dell’incarico.

Lo stesso giudice non pone in discussione il potere di controllo dell’ordinario diocesano sul permanere dell’idoneità all’insegnamento, che sarebbe logico e necessario corollario del potere di designazione, ma ritiene che la annualità della nomina costituisca una limitazione lesiva del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), perché non sarebbe giustificato escludere questa sola categoria di insegnanti, che fanno parte come gli altri del corpo docente ed hanno gli stessi diritti e doveri, dalla stabilità, sia pure relativa, nel posto d’impiego. L’annualità dell’incarico, con la possibilità che esso non venga rinnovato, lederebbe, inoltre, sia il diritto al lavoro, garantito in tutte le sue forme (artt. 4 e 35 Cost.), sia il principio di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), cui risponderebbe, nella scuola, oltre che la preparazione, anche l’esperienza che deriva dalla continuità didattica e dalla maggiore serenità dell’insegnante, che la stabilità nella sede assicurerebbe, accrescendone il rendimento.

2. ¾ I dubbi di legittimità costituzionale, investendo la norma che prevede il conferimento di incarichi annuali da parte del capo d’istituto per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche ¾ la sola norma che, tra l’altro, trova applicazione nel giudizio principale ¾ riguardano esclusivamente l’art. 5, primo comma, della legge n. 824 del 1930 e l’art. 309, comma 2, del decreto legislativo n. 297 del 1994. Sono queste, difatti, le disposizioni che stabiliscono il conferimento annuale dell’incarico.

Questa previsione, sia pure adottata nel contesto dell’impegno concordatario di assicurare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, riguarda un aspetto dello stato giuridico degli insegnanti di religione, la cui disciplina è rimessa alla competenza del legislatore statale, il quale, nel rispetto degli impegni pattizi, può discrezionalmente stabilire una regolamentazione coerente con il sistema scolastico e adeguata alle particolari caratteristiche di questo insegnamento.

Del resto l’intesa tra autorità scolastica e Conferenza episcopale italiana, alla quale ha dato esecuzione il d.P.R. 16 dicembre 1985, n. 751, prendendo atto dell’intento dello Stato di dare una nuova disciplina dello stato giuridico degli insegnanti di religione, implica il riconoscimento che esso sia compreso nell’ambito della legislazione scolastica di competenza statale.

3. ¾ In relazione all’oggetto del giudizio, così precisato, l’intervento della Conferenza episcopale italiana (CEI) non è ammissibile.

Difatti la CEI non era parte nel giudizio principale, nel quale erano costituiti l’Ordinario diocesano di Messina e l’autorità scolastica che aveva adottato i provvedimenti impugnati; né la sua posizione giuridica è suscettibile di essere direttamente incisa dall’esito del giudizio di costituzionalità della norma statale denunciata.

4. ¾ Il contesto normativo nel quale si inserisce la norma oggetto della verifica di legittimità costituzionale riguarda l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, che lo Stato si è impegnato ad assicurare, in attuazione della disciplina pattizia, nel quadro delle finalità della scuola.

In ragione delle peculiarità di tale insegnamento, che, nel rispetto della libertà di coscienza, è impartito in conformità alla dottrina della Chiesa, l’idoneità degli insegnanti deve essere riconosciuta dall’autorità ecclesiastica e la loro nomina disposta dall’autorità scolastica d’intesa con essa (art. 9, numero 2, dell’Accordo di revisione del Concordato e punto 5 del protocollo addizionale). Il riconoscimento dell’idoneità presuppone una particolare qualificazione professionale degli insegnanti, i quali devono possedere uno dei titoli considerati adeguati per il livello scolastico nel quale l’insegnamento deve essere impartito; titoli che, in attuazione della previsione concordataria (punto 5, lettera a) e lettera b), numero 4, del protocollo addizionale all’Accordo di revisione del Concordato), sono stati stabiliti con la prevista intesa tra l’autorità scolastica e la Conferenza episcopale italiana (sottoscritta il 14 dicembre 1985 ed eseguita con il d.P.R. 16 dicembre 1985, n. 751). Con il medesimo strumento dell’intesa (alla quale è stata data esecuzione con il d.P.R. 23 giugno 1990, n. 202) si è stabilito che il riconoscimento della idoneità all’insegnamento della religione ha effetto permanente, salvo revoca da parte dell’ordinario diocesano.

La questione di legittimità costituzionale, pur muovendo in questo contesto, non riguarda tuttavia, come si è già precisato, la normativa di derivazione bilaterale, bensì la disciplina statale che, nell’ambito della discrezionalità propria della legislazione scolastica, regolamenta lo stato giuridico degli insegnanti di religione prevedendo la loro nomina con efficacia annuale.

5. ¾ Le eccezioni di inammissibilità, che sono state prospettate, non hanno fondamento.

In relazione alle norme denunciate l’ordinanza di rimessione indica correttamente i parametri del giudizio, che non investe norme di derivazione concordataria o vincolate per l’attuazione di esse, bensì norme stabilite da una legge ordinaria, la cui legittimità costituzionale non deve essere necessariamente valutata, come invece per le prime, in relazione ai soli principi supremi dell’ordinamento costituzionale (sentenza n. 1 del 1977).

Inoltre la discrezionalità del legislatore non esclude la possibilità di verificare la ragionevolezza e non arbitrarietà della disciplina adottata ed il rispetto degli altri principi costituzionali; mentre la valutazione dell’eventuale carattere di innovazione legislativa che la pronuncia richiesta dovesse assumere dipende, nel caso in esame, dall’esito della verifica di legittimità costituzionale e non impedisce, quindi, un esame della questione nel merito (sentenze n.310 del 1995 e n.98 del 1997).

6. ¾ Nel merito la questione non è fondata.

6.1. ¾ La lesione del principio di eguaglianza viene denunciata comparando la condizione degli insegnanti di religione rispetto a quella dei docenti di altre discipline, sul presupposto che solo per i primi, nell’ambito del personale docente della scuola, sia prevista la annualità dell’incarico.

Questa premessa è inesatta sia quanto all’assenza di rapporti di lavoro a tempo determinato per il personale docente, sia quanto alla configurazione dell’assoluta precarietà degli insegnanti di religione.

Sotto il primo aspetto il conferimento dell’insegnamento per incarico si inquadra nel sistema delle assunzioni a tempo determinato, sempre previste dalla comune disciplina scolastica (da ultimo, art. 18 e art. 47 del contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto del personale della scuola di cui al provv. P.C.m. 21 luglio 1995). Sotto il secondo aspetto proprio tale disciplina (art. 47, commi 6 e 7) prevede che l’incarico annuale degli insegnanti di religione si intende confermato qualora permangano le condizioni ed i requisiti prescritti, assimilando questo incarico, con le specificità ad esso proprie, al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, anche quanto alla progressione economica di carriera (art. 53 della legge 11 luglio 1980, n. 312). Né la scelta dell’incarico quale strumento di provvista di questo personale docente ¾ pur essendo sempre possibili soluzioni diverse rimesse, nel rispetto degli impegni pattizi, alla discrezionalità del legislatore ¾ si manifesta arbitraria o palesemente irragionevole, anche in relazione alle peculiarità di questo insegnamento, che hanno già portato a ritenere non fondata una questione di legittimità costituzionale relativa alla mancata partecipazione degli insegnanti di religione a sessioni di abilitazione ed a concorsi riservati (sentenza n. 343 del 1999).

6.2 ¾ Egualmente infondati sono i dubbi di legittimità costituzionale prospettati in riferimento al diritto al lavoro, garantito dagli artt. 4 e 35 della Costituzione.

L’affermazione costituzionale del diritto al lavoro, tutelato in tutte le sue forme ed applicazioni, rispecchia il valore riconosciuto al lavoro, posto tra le basi dell’ordinamento (art. 1 Cost.), nel quale si manifesta anche la dignità e la libertà di scelta della persona. Ma gli art. 4 e 35 della Costituzione, se impongono di promuovere le condizioni per rendere effettivo il diritto al lavoro, non assicurano in ogni caso il conseguimento di una occupazione o la conservazione del posto di lavoro (sentenze n. 419 e n. 219 del 1993 e n. 1 del 1986); né, tanto meno, il diritto al lavoro garantisce la stabilità nella sede, quale vorrebbe conseguire l’ordinanza di rimessione.

6.3. ¾ Anche in riferimento all’art. 97 della Costituzione la questione non è fondata.

Il principio di buon andamento dell’amministrazione non impone un modello organizzativo nell’inquadramento del personale e dunque consente, sempre nei limiti della ragionevolezza e non arbitrarietà, non superati nel caso in esame, diversità di discipline che riguardino categorie di dipendenti (sentenze n. 63 del 1998 e n. 217 del 1997).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, primo comma, e 6 della legge 5 giugno 1930, n. 824 (Insegnamento religioso negli istituti medi d’istruzione classica, scientifica, magistrale, tecnica ed artistica); della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’Accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), nella parte in cui dà esecuzione all’art. 9, numero 2, di tale Accordo; dell’art. 309, comma 2, del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado); sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia – sezione staccata di Catania con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 ottobre 1999.

Renato GRANATA, Presidente
Cesare MIRABELLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 22 ottobre 1999.