Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 19 Luglio 2005

Sentenza 22 ottobre 2002, n.18218

Corte di Cassazione. Sezione lavoro. Sentenza 22 ottobre 2002, n. 18218: “Organizzazioni di tendenza e licenziamento del lavoratore subordinato”.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

composta degli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Giuseppe IANNIRUBERTO Presidente
Dott. Giovanni MAZZARELLA Rel. Consigliere
Dott. Attilio CELENTANO Consigliere
Dott. Guido VIDIRI Consigliere
Dott. Antonio LAMORGESE Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

IAL – ISTITUTO ADDESTRAMENTO LAVORATORI in persona dell’Amministratore Delegato sig. Giovanni Ammaturo, rapp.to e difeso dall’avv. Guido Trioni, del Foro di Milano, con il quale elett.te domicilia in Roma, viale Carso, n. 23, presso lo studio dell’avv. Antonino Della Sciucca, giusta procura speciale a margine del ricorso,
– ricorrente –

contro

BENZO CARLO rapp.to e difeso dagli avv.ti Franco Bonardo, del foro di Torino, e Mario Menghini, presso il quale ultimo elett.te domicilia in Roma, via della Mercede, n. 52, giusta procura speciale a margine del controricorso,- controricorrente –

per l’annullamento della sentenza del Tribunale di Torino n. 02568-1999 del 19.04-19.08.1999, R.G. n. 16191-97.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22 ottobre 2002 dal Relatore Cons. dott. Giovanni Mazzarella;
Uditi gli avv.ti Mario Salerni, in virtù di delega dell’avv. Guido Trioni per l’I.A.L., e Mario Menghini per Benzo Carlo;
Udito il P.M., in persona del Procuratore Generale Dott. Giuseppe Napoletano che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con la sentenza di cui in epigrafe, e qui impugnata, il Tribunale di Torino, in parziale riforma della sentenza del Pretore di Torino del 05 ottobre-03 dicembre 1996 ordinava all’I.A.L. – Istituto Addestramento Lavoratori – Coordinamento Regionale del Piemonte – (in appresso solo Istituto) la immediata reintegra di Carlo Benzo nel proprio posto di lavoro, condannava l’Istituto stesso al risarcimento dei danni in favore del Benzo in misura pari all’ultima retribuzione globale di fatto per il periodo dal licenziamento alla riammissione al lavoro previa deduzione dei compensi percepiti nel medesimo periodo, oltre alla maggior somma fra interessi e rivalutazione monetaria, e versamento dei relativi contributi assicurativi; spese del grado a carico dell’Istituto soccombente; rigettava l’appello incidentale proposto dallo I.A.L.. Il Pretore, a sua volta, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al Benzo dall’Istituto con lettera 14 febbraio 1996 a motivo del rifiuto del Benzo a proseguire la sua attività presso il C.F.P. di Asti e della manifestata riluttanza a svolgere le attività assegnategli presso il centro torinese di via Torrazza, e aveva condannato l’Istituto a riassumere il lavoratore, o, in difetto, a corrispondergli l’importo di lire 42.000.000 lordi oltre rivalutazione e interessi legali sulle somme via via rivalutate.
Osservava il Tribunale: l’Istituto non aveva mai allegato un valido motivo di licenziamento; dagli elementi agli atti era risultato che l’organico dell’Istituto non era mai mutato, essendo solo intervenuto, dopo il licenziamento e l’assunzione di altro lavoratore, un mero avvicendamento di personale e una ridistribuzioni dei compiti già assegnati al Benzo; non era stata certamente provata la soppressione del posto in alcuna delle diverse mansioni da ultimo svolte, nè l’Istituto aveva provato la impossibilità di adibire il lavoratore ad altri compiti; il tutto riguardava l’attività svolta dal Benzo sia quale Direttore di Funzione presso la sede regionale, sia quale Direttore del Centro di Asti, alla cui definitiva assegnazione il Benzo legittimamente aveva opposto un giustificato rifiuto per le condizioni di salute della moglie, sia, infine, quale docente, essendo le relative mansioni dequalificanti perché di quinto livello in luogo di quelle di sesto da ultimo espletate;
l’Istituto non poteva considerarsi datore di lavoro non imprenditore impegnato senza fine di lucro in attività, in senso lato, di tendenza, ai fini della disapplicazione nei suoi confronti della tutela reale; in realtà, l’Istituto in questione, con 270 dipendenti, 9 centri di formazione professionale e una sede di coordinamento regionale dislocati in Piemonte, ancorché sovvenzionato in prevalenza con interventi pubblici, aveva tutte le caratteristiche della impresa industriale sia per scopo (attività di formazione professionale anche con corsi a pagamento), che per organizzazione (perseguimento della economica gestione della propria attività) al fine di rendere un servizio anche economicamente redditizio, sia pure socialmente apprezzabile; nei suoi confronti, pertanto, era applicabile il principio della tutela reale di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970; risultavano agli atti redditi di lavoro autonomo del Benzo (dichiarazione dei redditi del 1998) che andavano, pertanto, detratti dalle somme dovute.
Ricorre per cassazione avverso la predetta sentenza l’Istituto affidandosi a due motivi di censura, illustrati anche da successiva memoria.
Benzo Carlo si è costituito con controricorso.

Diritto

Va preliminarmente esaminata la questione proposta dal Benzo circa la inammissibilità del ricorso per irregolarità della procura ad esso a margine.
La Corte di legittimità ha consolidato l’orientamento secondo cui “la procura al difensore apposta a margine del ricorso deve considerarsi conferita, salvo diversa volontà, per il giudizio di cassazione e soddisfa perciò il requisito della specialità previsto dall’art. 365 cod. proc. civ.; nè produce nullità della procura la mancanza della data, atteso che la posteriorità del rilascio della procura rispetto alla sentenza gravata si ricava dalla intima connessione con il ricorso al quale accede, nel quale la sentenza è menzionata, e la anteriorità rispetto alla notifica si determina dal contenuto della copia notificata del ricorso” (fra le tante e da ultimo, Cass. I marzo 2001, n. 02991).
Con il primo motivo di ricorso l’Istituto denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e vizi della motivazione su punti decisivi della controversia: la soppressione del posto doveva essere provata ma non espressamente indicata nella intimazione del licenziamento; la sentenza, nelle argomentazioni di merito, risentiva di evidente errore interpretativo per evidente confusione tra posto di lavoro e mansioni; il posto presso la Direzione regionale dell’ente era stato soppresso già da tempo, e, in sua vece, al Benzo era stato assegnato in via provvisoria e poi definitiva l’incarico di dirigere il Centro di Formazione Professionale di Asti, rifiutato dal dipendente nella seconda ipotesi, così come erano state rifiutate perché dequalificanti le mansioni di docente; in realtà, il posto presso la Direzione regionale era stato soppresso e le relative mansioni erano state, nell’ambito di una più razionale organizzazione del lavoro in presenza di una gestione gravemente deficitaria, ridistribuite fra due colleghi, che le svolgevano da tempo, e, solo in parte, da un terzo, neoassunto e con caratteristiche più idonee alle bisogna; le mansioni di direttore del CFP di Asti non erano state soppresse, il che, però, doveva ritenersi irrilevante sia per il già soppresso posto di lavoro alla Direzione sia per il rifiuto opposto dal lavoratore; in sostanza l’Istituto aveva provato la insussistenza di ricollocazione del Benzo aldilà delle posizioni lavorative offerte e non accettate.
Il motivo è infondato, al limite della stessa inammissibilità.
Il Tribunale parte dalla premessa, implicitamente non contestata da parte dell’Istituto (la mancanza, nella dichiarazione di recesso, dell’espressa indicazione della soppressione del posto di lavoro non impedirebbe comunque di correlare ad esso il motivo di licenziamento), che in detta dichiarazione non si pone a fondamento del provvedimento la soppressione del posto di lavoro del Benzo, ma solo “dapprima la sua dichiarata indisponibilità a proseguire la sua attività presso il C.F.P. di Asti poi la sua riluttanza a svolgere le attività a Lei assegnate presso il Centro Torinese di via Torrazza”, donde l’adozione del suo “licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ravvisabile nell’impossibilità di impiegare proficuamente le Sue energie lavorative in altra collocazione all’interno dell’Ente….”, e rileva, dall’esame degli elementi agli atti, che comunque tale soppressione del posto non è stato neanche provato dall’Istituto.
Da parte dello I.A.L. in questa sede, si oppone, invece, che “il posto occupato dal Benzo presso la direzione regionale dell’ente era stato soppresso, quando già da molti mesi allo stesso era stato assegnato l’incarico di dirigere il Centro di Formazione Professionale di Asti”, e che il Benzo aveva rifiutato sia di proseguire in detto incarico “temporaneo come tutti quelli che il datore di lavoro assegna nell’esercizio dello jus variandi, ma destinato a durare fino a revoca” di esso, sia anche di svolgere, in alternativa, mansioni di formatore presso il CFP di Torino.
Dunque, la questione, aldilà delle ulteriori argomentazioni svolte dalle parti e nella sentenza impugnata, è circoscritta al solo accertamento della soppressione o meno del posto occupato dal Benzo presso la direzione regionale dell’ente e, ma solo in caso positivo, al rispetto del principio del repechage da parte del datore di lavoro.
In punto soppressione del posto di lavoro, peraltro non addotto espressamente a motivo di licenziamento nella dichiarazione di recesso, il Tribunale, con riferimenti specifici alle fonti istruttorie, ne rileva la insussistenza, perché “l’organico non è mutato, la riorganizzazione è avvenuta dopo il licenziamento di Benzo (da maggio – giugno 1997 in poi), un muovo lavoratore di pari livello è stato assunto dopo il trasferimento del Benzo”, con ciò attuando l’Istituto un “mero avvicendamento di lavoratori, o, come sostiene lo IAL, una redistribuzione di compiti nel gruppo in cui operava il Benzo”, quanto cioè, ” – in assenza della prova delle effettiva soppressione del posto., e dell’impossibilità del c.d. repechage – non concreta giustificato motivo oggettivo” di licenziamento.
Orbene, a confutazione di tale accertamento, peraltro in armonia con il principio quanto mai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui “ai fini della legittimità del licenziamento non basta che il datore di lavoro provi la necessità di una ristrutturazione aziendale ma occorre altresì che egli dimostri la conseguente soppressione del posto di lavoro e delle mansioni affidate al lavoratore licenziato”, (Cass. 15 novembre 1993, n. 11241, Cass. 14 aprile 1987, n. 03705) il ricorso altro non deduce che, in via del tutto generale ed astratta, e come tale inidonea a costituire motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., “un posto di lavoro ben può essere soppresso, malgrado la sopravvivenza in azienda delle mansioni espletate da chi vi era addetto” e ridistribuite nell’ambito di una più razionale organizzazione del lavoro, e che era irrilevante che “l’organico fosse rimasto numericamente invariato” perché rientrava nei poteri del datore di lavoro “adottare misure di riorganizzazione tese a sviluppare un settore trainante dell’attività con l’assunzione di nuovo personale idoneo e non fungibile con quello in forza (come è avvenuto per l’ing. Del Noce) e a ridurre i costi nei settori critici mediante una più razionale utilizzazione degli addetti”. Di tutto quanto sopra dedotto, cioè, fosse poi anche riferibile, e in qual misura e con quali modalità, alla ipotesi concreta in esame, non v’è traccia in ricorso – se non proprio la contraddittoria ammissione di un certo risultato economico positivo oltre le sovvenzioni pubbliche – con conseguente inammissibile genericità della relativa censura proposta, vertendosi, in tal modo sostanzialmente, in mere affermazioni contrarie a quelle risultanti dalla sentenza impugnata, come tali inidonee a censurare le argomentazioni del giudice di appello.
Ovviamente, le osservazioni di cui sopra rendono superfluo l’esame dell’assolvimento, o meno, dell’obbligo dell’utile ricollocazione nell’ambito aziendale del lavoratore licenziato per soppressione del posto di lavoro.
Con il secondo motivo di ricorso l’Istituto denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 4, comma 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, e 1 della legge 21 dicembre 1978, n. 845, nonché vizi della motivazione su punti decisivi della controversia: l’aspirazione all’equilibrio fra costi e ricavi non era sufficiente alla qualifica dell’attività dell’ente come imprenditoriale; in realtà, le attività dotate di rilevanza costituzionale e di alto valore sociale no potevano non perseguire, a pena di inevitabile estinzione, l’equilibrio fra costi e ricavi; l’Istituto, diretta emanazione del sindacato nazionale CISL, con la sua attività formativa espletata in via associativa, aveva imputato, a copertura del superiore disavanzo accumulato in precedenza, l’avanzo dell’esercizio 1994, e il ricavo dell’espletamento di corsi di formazione professionale per la Regione e enti pubblici e privati, in misura del 2% delle entrate complessive, era irrilevante; un tal comportamento, anche a dimostrazione del perseguimento dell’obiettivo della economica gestione della propria attività al fine di rendere un servizio economicamente redditizio, dimostrava semmai che la produzione di servizi in regime di concorrenza e di equilibrio fra costi e ricavi, ove inquadrati negli obiettivi sociali di solidarietà e tutela dei lavoratori associati, rientrava proprio nelle caratteristiche delle organizzazione di tendenza, per ciò meritevoli della deroga della tutela reale ai sensi dell’art. 4 della legge n. 108 del 1990 citata in titolazione.
Anche questo secondo motivo è infondato.
L’art. 4, comma 1, legge n. 108 del 1990, prevede l’inapplicabilità della ed. tutela reale al “datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione o di culto”.
Il primo, indefettibile requisito, che nella specie trattasi di datore di lavoro imprenditore, come tale escluso dal beneficio della inapplicabilità della detta tutela reale, è stato affermato nella sentenza impugnata, che, conseguentemente e logicamente, ha ritenuto assorbita qualsiasi altra indagine.
Sostiene, in proposito, il Tribunale che i requisiti previsti dall’art. 2082 C.C., quali professionalità, organizzazione, natura economica dell’attività, consistente nella produzione di beni o di servizi, ovvero nell’interposizione nello scambio di beni o servizi.
Cioè, in sintesi, nella creazione di ricchezza, sono tutti presenti nell’attività dell’Istituto, integrando essi la condizione oggettiva dell’economicità dell’azienda, che, a sua volta, ne determina la natura imprenditoriale, anche in assenza di un vero e proprio scopo di lucro personale – a conferma della espressa previsione nella disposizione di cui al citato art. 4 della legge n. 108-90 per essere destinati a terzi i relativi proventi (Cass. 9 febbraio 1989, n. 00819). Ed a ciò il giudice di appello è pervenuto valutando in concreto l’esistenza di una attività posta in essere mediante una struttura tipicamente imprenditoriale, di cui peraltro elenca gli elementi fattuali, estranea, secondo il dettato del citato art. 2082 c.c., alle ed. organizzazioni di tendenza, cui invece la norma sopra indicata si rivolge ai fini della inapplicabilità della tutela reale. (Cass. 13 luglio 1995, n. 7680, Cass. 11 aprile 1994, n.
03353).
Tale statuizione, congruamente e logicamente motivata, non merita di essere annullata, ed a ben vedere contro di essa non risultano neanche proposte censure, o quanto meno quelle, specifiche, idonee a giustificarne il riesame.
Ed invero.
La insussistenza del fine di lucro per essere destinati a terzi i relativi proventi, come si è detto, non è sufficiente ad escludere la natura imprenditoriale dell’Istituto (“Affinché un ‘attività produttiva di servizi rivesta il requisito dell’economicità, necessario ai fini della qualificazione d’impresa, è sufficiente che essa sia potenzialmente produttiva di utili, non valendo ad escludere la qualità d’imprenditore dell’ente che la svolge (qualità rilevante, nella specie, ai fini della applicabilità della tutela reale ex art. 18 della legge n. 300 del 1970) la circostanza che di tali utili sia prevista la destinazione a fini benefici ed assistenziali in conformità allo scopo istituzionale dello stesso ente” – Cass. 09 febbraio 1989, n. 00819). Ogni relativa argomentazione svolta nel merito della sussistenza o meno nel caso di specie del fine di lucro, e in qual modo e in che termini conseguito, è, di conseguenza, decisamente in contrasto con il principio testè affermato e, come tale, irrilevante.
Altrettanto infondato deve ritenersi l’assunto dell’Istituto, che sembra essere il principio informatore dell’intero ricorso, secondo cui, sul presupposto dell’affermato, ma non dimostrato, teorema della impossibilità di sopravvivenza di qualsiasi organizzazione operante in un settore di produzione in regime di concorrenza, nel quale, pertanto, non è neanche possibile prescindersi dal necessario perseguimento dell’equilibrio fra costi e ricavi, debba escludersi “in linea di principio la natura imprenditoriale di un’attività formativa svolta da un ente che è, anche statutariamente, diretta emanazione di un sindacato nazionale (la CISL), sulla base di una legge (la n. 945 del 1978), che, ribadita solennemente all’art. 1 la rilevanza costituzionale di tale attività”, ne riserva poi lo svolgimento alle strutture pubbliche e a quelle convenzionate di enti che siano emanazione delle diverse organizzazioni dei lavoratori o dei datori di lavoro o di associazioni con finalità formative e sociali.
In realtà, come si è già detto circa la già discussa questione dello scopo di lucro, alla quale, peraltro, l’assunto prospettato è intimamente e inscindibilmente connesso, l’Istituto semplicemente non tiene in alcun conto il testo letterale dell’art. 4 della legge n. 108 più volte citata, allorché pone, quale requisito principe e indefettibile della esclusione della tutela reale, che l’organizzazione non possa in ogni caso proporsi in termini imprenditoriali. La circostanza, per la notevole rilevanza della norma in esame, vale evidentemente a circoscrivere – così ponendosi a sostegno di una necessaria interpretazione restrittiva – l’applicabilità della norma, vuol costituire proprio un limite interno di carattere generalissimo, ricondotto a previsioni legislative codificate e di sicuro riferimento. Val quanto dire che la citata norma esige in via preliminare la indagine sulla imprenditorialità o meno dell’organizzazione, e, solo in caso negativo, quella successiva sulla esistenza della organizzazione di tendenza. La proposta limitazione della tesi dell’Istituto alla sola indagine sulla sussistenza di quest’ultima, incurante del dato letterale della disposizione legislativa, contrasta evidentemente con il principio di legalità, e con lo stesso orientamento, in funzione di esso, formatosi nella giurisprudenza di legittimità, in parte sopra richiamata.
Conclusivamente, la censura in esame risulta piuttosto proposta contro il limite legislativo alla applicabilità della disposizione in esame, che non nei confronti della sentenza, la quale, invece, ha fatto, nel caso concreto, corretta applicazione della disposizione invocata.
Il ricorso, pertanto, va rigettato.
Per il principio della soccombenza l’Istituto va condannato al rimborso in favore del Benzo delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso, e condanna l’IAL – Istituto Addestramento Lavoratori al rimborso in favore di Benzo Carlo delle spese del giudizio di cassazione in euro 16,00, oltre a euro 2.000,00 per onorari di avvocato.