Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 20 Febbraio 2004

Sentenza 24 marzo 1994, n.3327

Tribunale Civile di Milano. Sentenza 24 marzo 1994, n. 3327.

(Pilla; Servetti)

(omissis)

La domanda attrice è fondata e va accolta.

Invero i coniugi hanno celebrato matrimonio concordatario il 23 aprile 1970 in Milano, dalla loro unione avendo rispettivamente nel 1970 e nel 1971 i figli Leyla e Roushan, entrambi oggi maggiorenni.

Essi sono separati consensualmente in base a verbale sottoscritto in data 18 luglio 1985 ed omologato da questo Tribunale con decreto reso il 17 dicembre seguente (documenti in atti).

Occorre preliminarmente affrontare la questione relativa alla legge sostanziale applicabile ai coniugi nel caso di specie, atteso che i medesimi alla data attuale risultano appartenenti a diversi ordinamenti nazionali, in quanto l’attore, da sempre iraniano per nascita, non risulta a tutt’oggi avere acquisito la cittadinanza italiana pur avendone fatto richiesta, mentre la convenuta dopo l’entrata in vigore della novella n. 151/1975 ha riacquistato l’originaria cittadinanza, appunto, italiana, perduta all’epoca del matrimonio.

E’, dunque, pacifico in causa che per circa un quinquennio legge nazionale comune dei coniugi è stata quella iraniana, sì che se dovesse il Tribunale ritenere applicabile il disposto normativo di cui all’art. 18 disp. prel. cod. civ. l’invocata pronuncia divorzile dovrebbe essere assunta alla stregua delle norme di quell’ordinamento, attualmente in vigore; tuttavia, ciò non sarebbe in concreto realizzabile, atteso che la normativa acquisita al processo consente di ritenere che l’ordinamento iraniano prevede una fattispecie di “divorzio” apertamente contraria ai principi d’ordine pubblico internazionale, in quanto in buona sostanza condizionata alla sola richiesta in tal senso formulata dal marito.

Univoca, a tal fine, si appalesa la disposizione di cui all’art. 1133 cod. civ. iraniano, secondo la quale “l’uomo potrà divorziare dalla moglie ogniqualvolta lo vorrà”, in questi termini integrando una inemendabile violazione dei princ’pi di parità tra i coniugi, non sanabile neppure per il tramite della concorrente previsione per la donna di poter divorziare dal marito qualora ricorrano diversi specifici presupposti, certamente non riconducibili al suo mero soggettivo arbitrio; come, peraltro, è già stato in altre occasioni osservato dal giudice italiano (cfr. Corte d’Appello di Milano, sentenza 18 ottobre-17 dicembre 1991) la vigente normativa iraniana, correttamente interpretata, sancisce una fattispecie di divorzio che per il suo carattere unilaterale ed arbitrario non si discosta affatto dall’istituto del ripudio, come tale oggetto di aperte censure nell’ambito dell’ordinamento internazionale ed in contrasto con i principi informatori dell’ordinamento italiano.

Ciò posto, tuttavia, reputa il Collegio che nel caso di specie debba ritenersi applicabile l’art. 17 disp. prel. cod. civ., il quale prevede che “lo stato e la capacità delle persone ed i rapporti di famiglia sono regolati dalla legge dello Stato al quale esse appartengono”, e ciò sulla base della sola osservazione che la pronuncia di divorzio, in quanto per sua natura diretta a produrre lo scioglimento del vincolo coniugale ed il venir meno dello status di coniuge, è idonea ad incidere in modo determinante proprio su uno dei fondamentali rapporti costitutivi dello stato delle persone; diversamente dovrebbe opinarsi con riguardo al procedimento, ed alla conseguente sentenza, di separazione personale, laddove non viene in alcuna misura alterato il rapporto giuridico scaturente dal matrimonio ma solo vengono regolamentati taluni aspetti ad esso correlati, quali la convivenza e la sua interruzione legittima in presenza di taluni presupposti nonché i connessi rapporti d’ordine patrimoniale tra i coniugi e tra i medesimi e la prole.

Se, dunque, in tema di personale separazione è legittimo, e dovuto, il richiamo alle disposizioni di cui all’art. 18 disp. prel. cod. civ., altrettanto non può dirsi in materia di divorzio, laddove l’incidenza della pronuncia sullo status coniugale comporta di necessità il ricorso alla precedente norma di cui all’art. 17.

Da tale considerazione discende l’applicabilità in via concorrente di entrambe le normative degli Stati di appartenenza dei divorziandi nei limiti della loro concreta compatibilità; nel caso di specie, tuttavia, per le argomentazioni già dianzi svolte l’applicazione delle disposizioni della legge iraniana è inibita dalla loro stessa contrarietà all’ordine pubblico internazionale ed, altresì, interno, aspetto – quest’ultimo – che in questa sede riveste rilievo in ragione della cittadinanza italiana di una delle parti.

E sarà, quindi, da tale irrefutabile contrasto che discenderà la necessità di applicare in via esclusiva la legge nazionale della convenuta, ovverossia quella italiana, cui il legislatore con l’introduzione dell’art. 12 quinquies della legge n. 898/1970 come modificata dalla novella n. 74/1987 ha inteso riconoscere assoluta prevalenza: infatti, se è normativamente oggi previsto che allo straniero, coniuge di cittadina italiana, il cui ordinamento non disciplina lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, dovranno essere applicate le disposizioni di cui alla legge italiana in parola, altrettanto dovrà concludersi per l’analoga ipotesi in cui l’ordinamento nazionale di appartenenza del marito preveda una disciplina che, ancorché formalmente indicata come di divorzio, in realtà nulla abbia di simile a tale istituto e sia invece informata a ben diversi presupposti (quelli tipici del ripudio).

Infine, ad identica conclusione di applicazione esclusiva della legge nazionale della moglie si perverrebbe anche senza fare ricorso alle accennate indicazioni fornite dall’art. 12 quinquies, posto che la concorrente applicazione delle due leggi nazionali, dovuta in base all’art. 17 disp. prel. cod. civ., sarebbe inibita dalla piú volte ribadita contrarietà di quella del marito all’ordine pubblico e da ciò in base ai principi generali discenderebbe il necessitato riferimento in via esclusiva alla legge propria dell’altro coniuge.