Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 18 Febbraio 2004

Sentenza 25 gennaio 2002, n.911

Cassazione Civile. Sezioni Unite. Sentenza 25 gennaio 2002, n. 911.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Andrea VELA Primo Presidente
Dott. Francesco AMIRANTE Presidente di Sezione
” Alfio FINOCCHIARO ”
” Antonio VELLA ”
” Giovanni PRESTIPINO consigliere
” Paolo VITTORIA ”
” Ernesto LUPO ”
” Michele VARRONE ”
” Giuseppe SALMÈ rel. ”
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
sul ricorso proposto
da:
PIKAN TALI, elettivamente domiciliata in Roma, via Barberini 3, presso l’Avv. Mario Guttierres che la rappresenta e difende per procura speciale a margine del ricorso, in uniore con l’avv. Giulina Rugani del foro di Genova,
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI VENEZIA,
intimato
contro
DULBERG MOSHÈ, elettivamente domiciliato in Roma, via Pierluigi da Pallestrina 63, presso l’avv. Mario Contaldi, che lo rappresenta e difende in unione con gli avvocati Mauro Grego, Enrico Grego e Paolo Barbagelata del foro di Genova, controricorrente avverso il decreto della corte d’appello di Venezia, sezione per i minorenni, del 17 febbraio 2000;
Sentita la relazione della causa svolta dal cons Giuseppe Salmè alla pubblica udienza del 4 maggio 2001;
sentiti gli avvocati Guttieres, Enrico Greco, Barbagelata, Contaldi;
sentito il p.m., in persona dell’avv. gen. dott Giovanni Lo Cascio che ha concluso chiedendo la restituzione degli atti alla sezione semplice, non potendo essere posta la questione di giurisdizione in questa sede.

Fatto
Con ricorso del 2 aprile 1996 Moshè Dulberg ha chiesto al tribunale per i minorenni di Venezia l’affidamento delle figlie minori Debora e Daniela, nate, rispettivamente, il 19 settembre 1985 e il 13 giugno 1989, dal matrimonio contratto con Tali Pikan secondo il rito ebraico in Israele il 23 settembre 1982 e non trascritto in Italia, matrimonio sciolto per divorzio pronunciato il 31 marzo 1992 dal tribunale rabbinico di Milano, che ha affidato le figlie alla madre.
Con lo stesso ricorso il Dulberg ha chiesto la pronuncia degli opportuni provvedimenti ai sensi degli articoli 330 – 333 c.c. a tutela delle minori.
Il tribunale, dopo avere affidato con provvedimento del 23 maggio 1996 in via provvisoria le figlie alla madre, a seguito del mancato ritorno della Pikan da Israele, dove si era recata insieme con le minori, con decreto del 22 gennaio 1997 ha revocato tale provvedimento e ha affidato le figlie al padre, al quale sono state effettivamente consegnate l’8 aprile 1999 in esecuzione di provvedimento dell’autorità giudiziaria israeliana, emesso ai sensi della convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori.
Con decreto dei 4 dicembre 1999 il tribunale ha dichiarato la decadenza della madre dalla podestà sulle figlie minori che sono state in via definitiva affidate al padre.
Il provvedimento è stato confermato dalla corte d’appello di Venezia la quale, per quanto rileva in questa sede, ha affermato che:
a) era infondata l’eccezione di difetto di giurisdizione perché, alla data della domanda (2 aprile 1996), entrambi i genitori, i quali insieme con le figlie avevano tutti cittadinanza israeliana (avendo il padre e le figlie acquistato la cittadinanza italiana nel 1999), risiedevano in Italia (il padre a Genova e la madre a Venezia) e, pertanto, sussisteva il criterio di collegamento con la giurisdizione italiana previsto dall’art. 37 della legge n. 218 del 1995;
b) il tribunale per i minorenni di Venezia era competente, ma perché le minori all’inizio del procedimento erano domiciliate in quel circondario, sia perché il ricorrente aveva chiesto l’adozione di provvedimenti ex art. 330 o 333 c.c. e l’affidamento delle figlie sulla base di circostanze qualificabili alla stregua delle norme indicate;
c) nel merito, la domanda di decadenza era fondata perché la madre aveva cercato di cancellare la figura del padre e della famiglia paterna, trattenendosi illegittimamente in Israele e facendo vivere per due anni le figlie in una situazione di clandestinità, con documenti falsi e false generalità, inducendo le minori a credere che il padre le avesse abbandonate e ad accusarlo falsamente di abusi sessuali;
d) le nuove prove richieste erano inammissibili.
Avverso il provvedimento della corte d’appello la Pikan ha proposto, separatamente, regolamento di competenza, deciso con sentenza n. 15714 del 2000, e ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost, sulla base di sette motivi, ai quali ha resistito il Dulberg con controricorso. La prima sezione, alla quale il ricorso ordinario era stato assegnato, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle sezioni unite, essendo stato formulato anche un motivo attinente alla giurisdizione.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto
1. Con il secondo motivo la ricorrente, ripropone la tesi secondo la quale la giurisdizione sulla richiesta di decadenza dalla potestà non spetterebbe al tribunale adito ma al giudice israeliano. Afferma la ricorrente che quando la limitazione della potestà sia chiesta sulla base di comportamenti, non solo genericamente pregiudizievoli, ma specificamente contrastanti con principi e consuetudini propri del paese di cui è cittadino il genitore nei cui confronti la richiesta di decadenza è avanzata, solo il giudice di quel Paese può avere giurisdizione. La potestà dei genitori, infatti, avrebbe un contenuto generico, che si specifica e si rende concreto solo in relazione all’ambiente di vita, al costume e agli usi, con la conseguenza che, in tema di decadenza, si verificherebbe una stretta connessione e interdipendenza tra legge amicabile e giurisdizione.
Aggiunge la ricorrente che il suo trasferimento in Israele insieme alle figlie a lei affidate era legittimo e che illegittima era stata invece la revoca dell’affidamento pronunciata con il decreto del 22 gennaio 1997. Anche per questa ragione sussisterebbe la giurisdizione israeliana.
2. Il controricorrente ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, richiamando l’orientamento espresso da questa Corte secondo cui i decreti in tema di potestà dei genitori sui figli minori non sono ricorribili per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.
L’eccezione è fondata e, pertanto, il ricorso deve essere, dichiarato inammissibile.
Come è noto, queste sezioni unite, con la sentenza del 23 ottobre 1986 n. 6220, risolvendo il contrasto insorto all’interno della prima sezione civile, hanno affermato il principio che in tema di tutela dei minori, i provvedimenti, che limitino od escludano la podestà dei genitori naturali, ai sensi dell’art. 317 bis c.c., che pronuncino la decadenza dalla potestà sui figli o la reintegrazione in essa, ai sensi degli art. 330 e 332 c.c., che dettino disposizioni per ovviare ad una condotta dei genitori pregiudizievole ai figli, ai sensi dell’art. 333 c.c., o che dispongano l’affidamento contemplato dall’art. 4, 2 comma, l. 4 maggio 1983, n. 184 (che richiama il cit art. 330 c.c.), ancorché resi dal giudice di secondo grado in esito a reclamo, non sono impugnabili con ricorso per cassazione a norma dell’art. 111 cost perché sono privi dei requisiti della decisorietà (“intesa come risoluzione di una controversia su diritti soggettivi o status”) e della definitività (“intesa come mancanza di rimedi diversi e nell’attitudine del provvedimento a pregiudicare con l’efficacia propria del giudicato quei diritti o quegli status”), essendo revocabili in ogni tempo per motivi originari o sopravvenuti ed avendo la funzione non di decidere una lite tra due soggetti attribuendo ad uno di essi un «bene della vita», ma di controllare e governare gli interessi dei minori”di fronte all’incessante mutamento delle condizioni di fatto e dei problemi esistenziali che esigono una pronta e duttile risposta”. Proprio in considerazione di tale peculiare funzione di protezione dell’interesse del figlio, come ha rilevato la successiva sentenza delle sezioni unite n. 3931 del 1988, si giustificano le rilevanti deroghe agli ordinari principi che governano il processo civile, nel senso che i provvedimenti possono aver contenuto diverso da quello proposto nel ricorso e il giudice può e deve cercare da sè i dati informativi per conoscere se il genitore ha davvero violato i doveri o abusato dei diritti inerenti alla podestà, determinando grave pregiudizio del figlio, senza incontrare il limite costituito dalle richieste istruttorie formulate dallo parti. Certamente la decisione del giudice, che ex art. 317 bis c.c. affida il figlio ad uno solo dei genitori ed a lui solo attribuisce la potestà incide anche, e negativamente, sull’interesse del genitore escluso (a maggior ragione tale pregiudizio dell’interesse del genitore è percepibile nel caso di provvedimento di decadenza), ma si tratta di un interesse (che al di là della qualificazione in termini di diritto soggettivo) è tenuto presente dalla legge limitatamente al riconoscimento al genitore del diritto a essere sentito, (al fine di persuadere il giudice che il «meglio» per il figlio è quello di stare con lui e sotto la sua potestà) e a proporre reclamo contro il provvedimento, pur rimanendo fermo che rilievo prevalente è attribuito alla tutela del “sistema di interrelazione tra genitore e figlio…. privilegiato dalla legge, che ha riconosciuto ed assunto a norma un valore che è proprio della nostra cultura: quello per cui è bene che il figlio sia coi genitori ed i genitori col figlio, che questi sia da loro allevato, educato, condotto fino alla piena autonoma di uomo (art. 30 Cost, art 147, 316 c.c., art. 1 l. 184-83)”.
L’orientamento affermato dalle sezioni unite con l’indicata sentenza n. 6220 del 1986 è stato costantemente seguito dalla giurisprudenza successiva (con specifico riferimento ai provvedimenti ex art. 330-333 c.c. v.
sentenze nn. 4607, 5022, 8825, 8974, 9640 del 1987, 2673-1988, 2060-1989, 6776-1990, 7450-1990, 13845-91, 4534-1993, 1265, 5431 e 6147 del 1994, 1026 e 1224-95, 4222-1996, 5226 e 8619 del 1997, 2934, 3397 e 6421 del 1998, sez. un. n. 79-1999, 2337 e 8633-1999).
Coerente sviluppo dell’orientamento che, sul piano generale, esclude la ricorribilità per cassazione dei provvedimenti, aventi forma diversa dalla sentenza, emessi a tutela degli interessi dei minori è l’ulteriore affermazione che tale ricorribilità resta esclusa anche quando i provvedimenti di cui si tratta contengano l’esplicita o implicita affermazione (o negazione) della giurisdizione. Come è stato notato con la citata sentenza dello sezioni unite n. 3931 del 1988, quell’affermazione è infatti preliminare e strumentale alla decisione nel mento e non ha una natura sua specifica, diversa appunto da quella della decisione nel merito, tale da giustificare un distinto regime di impugnazione. Tale «decisione» affermativa della giurisdizione è «non decisoria» (nel senso che questa espressione ha assunto quanto si affronta il problema della ricorribilità ex art 111 Cost), come non è decisoria la decisione nel merito. Essa, infatti, non «fa giudicato» sulla giurisdizione se non all’interno di quello specifico procedimento che termina col decreto non reclamato del tribunale per i minorenni o con quello della corte d’appello emesso a seguito di reclamo. Se in seguito uno dei genitori chiederà un altro provvedimento di modificazione o di revoca del provvedimento precedente, cioè una nuova e diversa regolamentazione della potestà sul figlio, il giudice che allora sarà adito potrà e dovrà preliminarmente stabilire se ha giurisdizione e competenza ed in tale decisione non sarà affatto vincolato dalla precedente decisione, sua o di altro giudice (in senso conforme v anche le sentenze delle sez. unite n. 1026-1995, 4222-1996). Del pari, per ragione analoga, è stato ritenuto che nei confronti dei decreti camerali a tutela degli interessi dei minori è inammissibile il regolamento di giurisdizione (Cass. n. 8791-1987, 37-1989, 5847-1993).
Non costituiscono precedenti contrari all’orientamento che queste sezioni unite intendono ribadire, non essendo state prospettate argomentazioni contrarie, le sentenze n. 1 e n. 70 del 2001, perché, al di là di un’affermazione d’ordine generale contenuta nella prima (in relazione a provvedimenti provvisori e urgenti ex art 333 c.c, si afferma che “in quanto incidono su posizioni di diritto soggettivo, sono sucettibili di ricorso ex art. 111 Cost) in entrambi i casi si trattava di ricorsi proposti, rispettivamente, ai sensi degli articoli 6, secondo comma e 7, quarto comma delle legge n. 64 del 1994 di ratifica ed esecuzione della convenzione europea sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento aperta alla firma a Lussemburgo il 20 maggio 1980 e della convenzione sugli aspetti civili della sottrazione internazionale dei minori aperta alla firma all’Aja il 25 ottobre 1980. A fronte dell’espressa previsione legale della ricorribilità per cassazione non si poneva, infatti, un problema di ricorribilità ai sensi dell’art. 111 Cost.
Nè, infine, coglie nel segno l’obiezione della ricorrente secondo cui il provvedimento di cui si avrebbe, in concreto, natura definitiva perché fondato sul pericolo di una nuova sottrazione delle minori e, quindi, su una circostanza che impedirebbe di prospettare nuove circostanze idonee a giustificare la revoca o la modifica del provvedimento stesso. È sufficiente in proposito richiedere il rilievo secondo cui la revocabilità e modificablità dei provvedimenti in tema di podestà dei genitori sui figli minori non è limitata alla rilevanza della sola sopravvenienza di circostanze nuove, ma comprende anche un diverso apprezzamento della situazione originariamente posta a base del provvedimento della cui revoca e modifica si tratta. D’altra parte non è neppure convincente l’affermazione secondo cui l’esistenza del pericolo di ulteriori sottrazioni non sia suscettibile di modificazioni nel tempo.
Le ragioni esposte escludono l’ammissibilità anche dei motivi diversi da quelli attinenti alla giurisdizione (tra l’altro con il primo motivo si ripropone la questione di competenza già decisa con sentenza n. 15714-2000), attinenti al merito del provvedimento impugnato.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese di questo giudizio.

P.Q.M

la Corte dichiara il ricorso inammissibile e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 4 maggio 2001 nella camera di consiglio delle sezioni unite civili.