Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 1 Settembre 2003

Sentenza 26 luglio 1993, n.358

Corte costituzionale. Sentenza 26 luglio 1993, n. 358: “Rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza – prevista conversione della reclusione comune in quella militare – “spirale di condanne” (art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772, l’art. 3, terzo comma, della legge 29 aprile 1983, n. 167)”.

(Casavola; Baldassarre)

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA;

Giudici: dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 27 del codice penale militare di pace e dell’art. 3, terzo comma, della legge 29 aprile 1983, n. 167 (Affidamento in prova del condannato militare) promossi con ordinanza emessa il 15 luglio 1992 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Conforto Filippo, iscritta al n. 654 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 1992; ordinanza emessa il 15 luglio 1992 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Grecchi Massimo, iscritta al n. 655 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 1992.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 febbraio 1993 il Giudice relatore Antonio Baldassarre.

(omissis)

Considerato in diritto

1.- Con ordinanza regolarmente notificata e depositata, il Tribunale di Padova ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 19 e 27, terzo comma, della Costituzione, nei confronti degli artt. 27 del codice penale militare di pace e 3, terzo comma, della legge 29 aprile 1983, n. 167 (Affidamento in prova del condannato militare), nella parte in cui dispongono che la pena della reclusione debba essere convertita in reclusione militare anche nel caso di condanna per il reato previsto dall’art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza).

Lo stesso Tribunale di Padova ha successivamente sollevato, con ordinanza identica alla precedente, una medesima questione di legittimità costituzionale nel corso di un distinto, ma analogo, procedimento penale.

Poiché le due indicate ordinanze sottopongono a questa Corte la stessa questione di legittimità costituzionale, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.

2.- Deve essere preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del profilo concernente l’art. 3, terzo comma, della legge n. 167 del 1983, ai sensi del quale “i condannati per reati militari originati da obiezione di coscienza possono essere affidati esclusivamente ad un ufficio o ente pubblico non militare, determinato dal Ministro della difesa, per prestarvi servizio”.

Posto che le stesse ordinanze di rimessione, anche se contengono nel proprio dispositivo il riferimento al citato art. 3, terzo comma, come disposizione che concorre a determinare la norma impugnata, in realtà utilizzano il detto articolo soltanto al fine di corroborare la propria interpretazione dell’art. 27 c.p.m.p., non si può minimamente dubitare della estraneità della disposizione ora considerata rispetto al problema relativo alla sostituzione della reclusione comune con quella militare in ordine alla sanzione prevista dall’art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972. In altri termini, poiché la norma denunziata non è il prodotto del combinato disposto formato dal citato art. 3, terzo comma, della legge n. 167 del 1983 e dall’art. 27 c.p.m.p., ma deriva direttamente ed esclusivamente dalla disposizione da ultimo menzionata, non può non concludersi per l’inammissibilità, dovuta a irrilevanza, del profilo relativo al ricordato art. 3, terzo comma, della legge n. 167 del 1983.

3.- Va, invece, accolta la questione di legittimità costituzionale sollevata nei confronti dell’art. 27 c.p.m.p..

I giudici a quibus sottopongono all’esame di questa Corte una norma frutto di una loro interpretazione, che, peraltro, è pacificamente condivisa dalla giurisprudenza di merito dei tribunali militari. Tale interpretazione muove dalla premessa secondo la quale la reclusione prevista dall’art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972, sarebbe la reclusione comune, in virtù del rilievo che, ai fini della determinazione della stessa pena, la disposizione appena citata opera il rinvio alla sanzione stabilita dal comma precedente, concernente il reato compiuto da chi, ammesso ai benefici previsti dalla legge sull’obiezione di coscienza, rifiuti il servizio non armato o il servizio sostitutivo. Pertanto, poiché coloro che rifiutano globalmente il servizio militare in tempo di pace, prima di assumerlo, adducendo i motivi di coscienza riconosciuti dal legislatore nell’art. 1 della legge prima indicata (art. 8, secondo comma), sono esonerati dal servizio militare soltanto dopo aver espiato la pena loro inflitta (v. art. 8, terzo comma), ad essi si applica il meccanismo di sostituzione previsto dall’art. 27 c.p.m.p. per coloro che commettono reati militari nella qualità soggettiva di militari. Secondo il citato art. 27, infatti, “alla pena della reclusione, inflitta o da infliggersi ai militari per reati militari, è sostituita la pena della reclusione militare di eguale durata, quando la condanna non importa la degradazione”. E, dal momento che per il reato di cui all’art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972, è prevista una pena edittale che va da sei mesi a due anni di reclusione (a seguito della sentenza n. 409 del 1989 di questa Corte), l’impossibilità del verificarsi della condizione della degradazione (la quale consegue alla irrogazione di una pena superiore ai cinque anni di reclusione) rende sistematica, in riferimento al delitto considerato, la sostituzione della reclusione comune con quella militare.

Sempre ad avviso dei giudici a quibus, l’interpretazione ora riferita si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 19 e 27, terzo comma, della Costituzione, poiché rende effettivo il rischio della c.d. spirale delle condanne: la contrarietà all’uso personale delle armi e il rifiuto totale di prestare il servizio militare in una qualsiasi delle forme previste amplificano, infatti, la probabilità che, di fronte alle istruzioni militari e agli ordini dei superiori gerarchici, normalmente collegati allo svolgimento della reclusione militare, l’obiettore globale incorra nuovamente nella commissione di reati di rifiuto del servizio militare (disobbedienza, diserzione, ecc.), determinata dagli stessi motivi di coscienza che l’hanno indotto a rifiutare in radice l’adempimento dell’obbligo di leva.

4.- La posizione dei giudici a quibus va condivisa poiché la norma denunziata si pone in palese contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione.

Premesso che non sussiste un obbligo costituzionale di sottoporre a pena militare la commissione di un reato militare e che la disposizione contenuta nell’art. 27, c.p.m.p., come ha già precisato questa Corte nella sentenza n. 409 del 1989, è frutto di una scelta discrezionale del legislatore in sé non irragionevole, occorre sottolineare che, contrariamente a quanto suppone l’Avvocatura dello Stato, le ordinanze introduttive dei presenti giudizi pongono una questione formalmente e sostanzialmente diversa da quella decisa con la sentenza appena ricordata. I giudici a quibus, infatti, non contestano la razionalità in sé del principio della sostituzione della reclusione comune con quella militare quando un reato militare sia commesso da un militare, come è avvenuto nel giudizio precedente, il cui unico parametro era costituito dall’art. 3 della Costituzione, sotto specie di “norma-base” del generale principio di ragionevolezza. Essi, invece, dubitano che la regola posta dall’art. 27 c.p.m.p., pur legittima in sé, dia luogo a svolgimenti incongruenti e irragionevoli quando sia applicata al reato di rifiuto del servizio militare per giustificati motivi di coscienza (art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972), in riferimento al valore relativo alla finalità rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione), al diritto inviolabile di professare liberamente la propria religione (art. 19 della Costituzione) e al principio di parità di trattamento rispetto ad altre ipotesi di reato legate a violazione di norme sull’obiezione di coscienza (art. 3 della Costituzione).

Nella sentenza n. 414 del 1991 questa Corte ha chiaramente affermato che, anche se le finalità rieducative richieste dall’art. 27 della Costituzione devono inerire tanto alla reclusione comune quanto a quella militare, tuttavia “i fini della rieducazione per il condannato militare e per quello comune si rivelano (…) divergenti: il prevalente recupero al servizio militare per il primo, il reinserimento sociale per il secondo”.

Dall’affermazione di questi principi appare evidente che la reclusione militare, il cui scopo primario è il recupero del condannato al servizio alle armi, dà luogo a manifeste incongruità quando sia applicata a un obiettore totale punito ai sensi dell’art. 8, secondo comma, della legge n. 772 del 1972.

L’applicazione a tale caso dell’art. 27 c.p.m.p. si rivela, innanzitutto, in aperta contraddizione con la particolare struttura di quel reato e, specialmente, con l’elemento costitutivo rappresentato dal rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza riconosciuti dallo stesso legislatore come meritevoli di tutela, elemento cui è collegata la liberazione successiva del condannato dall’obbligo della leva. In altri termini, la legge non può, senza cadere in palese contraddizione, basare sull’adduzione di giustificati motivi di coscienza un trattamento punitivo per il rifiuto del servizio militare all’esito del quale si prevede l’esonero dal servizio stesso e, nello stesso tempo, far consistere quel trattamento in modalità vòlte prevalentemente nel recupero del soggetto al servizio militare.

Un’ulteriore incongruenza, di particolare incidenza pratica, è poi data dal rilievo, svolto anche dai giudici a quibus, secondo il quale irrogare la reclusione militare – e quindi, un trattamento volto al recupero del condannato al servizio militare – nei confronti di una persona che, per imprescindibili motivi di coscienza consistenti in convincimenti religiosi riconosciuti in generale come meritevoli di tutela da parte del legislatore, si dichiara contraria in ogni circostanza all’uso personale delle armi e, su tale base, rifiuta totalmente il servizio militare, significa sottoporre la stessa persona alla forte probabilità di incorrere in altri reati connessi al rifiuto del servizio militare e di cadere, quindi, in quella “spirale delle condanne” negatrice di ogni valore collegato alla finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, della Costituzione) (v. in proposito sent. n. 343 del 1993).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 27 c.p.m.p. nella parte in cui consente che la conversione della pena della reclusione comune in quella della reclusione militare possa avvenire in relazione alla sanzione penale comminata per il reato previsto nell’art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 3, 19 e 27, terzo comma, della Costituzione, nei confronti dell’art. 3, terzo comma, della legge 29 aprile 1983, n. 167 (Affidamento in prova del condannato militare), dal Tribunale militare di Padova, con le ordinanze indicate in epigrafe.