Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 17 Ottobre 2007

Sentenza 27 luglio 1992, n.368

Corte costituzionale. Sentenza 27 luglio 1992, n. 368. Concetto di “buon costume”.

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 528 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 5 novembre 1991 dal Pretore di Macerata, Sezione distaccata di Civitanova Marche, nel procedimento penale a carico di Angeletti Ubaldo, iscritta al n. 14 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 1992.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udito nella Camera di Consiglio del 6 maggio 1992 il Giudice relatore Antonio Baldassarre.

Svolgimento del processo e motivi della decisione

l. – Chiamato a giudicare del titolare di un esercizio di noleggio e vendita di materiale videografico, accusato di detenere videocassette di contenuto pornografico in violazione dell’art. 528 del codice penale, nella parte in cui punisce “chiunque, allo scopo di farne commercio o distribuzione (…), detiene (…) scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie”, il Pretore di Macerata – Sezione distaccata di Civitanova Marche, accertato che le videocassette in oggetto erano collocate in un locale separato da quello destinato alla vendita alla generalità dei clienti, in modo da assicurarne la cessione esclusivamente alla clientela che ne avesse fatto richiesta, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della predetta norma incriminatrice in riferimento al combinato disposto formato dagli artt. 2, 3, 13 e 25, secondo comma, della Costituzione nonché in riferimento agli artt. 21 e 27, terzo comma, della Costituzione.

Più precisamente, il giudice “a quo”, muovendo dalla considerazione che in un sistema democratico il concetto penalistico di buon costume, assunto dalla Costituzione come limite alla libertà di manifestazione del pensiero, non può identificarsi con una determinata dottrina etica, ma deve coniugarsi con la libertà di ciascuno in materia sessuale, ritiene che il “comune sentimento del pudore” possa tradursi in norma incriminatrice soltanto nella misura in cui la detenzione di materiale pornografico comporti un limite intollerabile alla libertà dalle molestie provocate dal dover assistere, contro la propria volontà, ad atti o a rappresentazioni di contenuto osceno. Sulla base di tale premessa, lo stesso giudice ritiene che l’art. 528 del codice penale, nella parte in cui punisce qualsiasi forma di detenzione di materiale pornografico a scopo di farne commercio, si ponga in contrasto sia con il combinato disposto formato dagli artt. 2, 3, 13 e 25, secondo comma, della Costituzione (per il fatto di contenere un eccesso di tutela della libertà della persona umana nei confronti di una condotta che soltanto in determinate ipotesi può considerarsi offensiva del sentimento del pudore di chi non voglia assistere a rappresentazioni di carattere pornografico), sia con l’art. 21 della Costituzione (per il fatto di costituire un limite irragionevole alla libertà di pensiero allorché estende la protezione del “buon costume” anche a condotte prive di offensività sociale rispetto ai valori costituzionalmente tutelati con il “buon costume” stesso), sia con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione (per il fatto che non potrebbe darsi funzione rieducativa della pena tutte le volte che il trasgressore non possa percepire precisamente quali beni giuridici siano effettivamente tutelati dalla norma penale).

2. – Nei limiti e nei sensi appresso indicati, la questione non è fondata.

Premesso che, nei termini in cui sono state proposte dal giudice “a quo”, le questioni di legittimità costituzionale sollevate con l’ordinanza indicata in epigrafe non hanno prima d’ora costituito oggetto di giudizi di costituzionalità, occorre precisare che, sotto il profilo logico, è pregiudiziale l’esame della consistenza del valore del “buon costume”, che l’art. 21 della Costituzione prevede come limite rispetto al diritto fondamentale, di carattere inviolabile, concernente la libertà di ognuno di manifestare il pensiero.

Sin dalla sent. n. 9 del 1965, questa Corte ha chiaramente affermato che “il buon costume risulta da un insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione, l’inosservanza dei quali comporta in particolare la violazione del pudore sessuale, sia fuori sia soprattutto nell’ambito della famiglia, della dignità personale che con esso si congiunge, e del sentimento morale dei giovani, ed apre la via al contrario del buon costume, al mal costume e, come è stato anche detto, può comportare la perversione dei costumi, il prevalere, cioè, di regole e di comportamenti contrari ed opposti”. Successivamente, la stessa Corte ha pure affermato che, rientrando tra i concetti “non suscettibili di una categorica definizione”, il “buon costume” è dotato di una relatività storica, dovuta al fatto che “varia notevolmente, secondo le condizioni storiche d’ambiente e di cultura”. Ma tale relatività, ha precisato la Corte, non impedisce che il suo significato sia sufficientemente determinato, poiché, trattandosi di un concetto diffuso e generalmente compreso, in base ad esso è ragionevolmente possibile che, in un determinato momento storico, si sia “in grado di valutare quali comportamenti debbano considerarsi osceni secondo il comune senso del pudore, nel tempo e nelle circostanze in cui essi si realizzano” (v. sent. n. 191 del 1970). Oltre a ciò, occorre tener presente che, soprattutto in relazione a concetti di tale natura, l’interprete della Costituzione – insieme al legislatore in sede di attuazione del bilanciamento dei valori costituzionali attraverso le proprie scelte discrezionali – deve attenersi all’imprescindibile criterio ermeneutico secondo cui, poiché “la Carta fondamentale accoglie e sottolinea il principio (…) per il quale il di più di libertà soppressa costituisce abuso”, ne consegue che si può “limitare la libertà solo per quel tanto strettamente necessario a garantirla” (v. spec. sent. n. 487 del 1989).

Considerato che si tratta di un limite che l’art. 21 della Costituzione contrappone alla libertà dei singoli individui, il “buon costume”, contrariamente a quel che sembra supporre il giudice “a quo”, non è diretto ad esprimere semplicemente un valore di libertà individuale o, più precisamente, non è soltanto rivolto a connotare un’esigenza di mera convivenza fra le libertà di più individui, ma è, piuttosto, diretto a significare un valore riferibile alla collettività in generale, nel senso che denota le condizioni essenziali che, in relazione ai contenuti morali e alle modalità di espressione del costume sessuale in un determinato momento storico, siano indispensabili per assicurare, sotto il profilo considerato, una convivenza sociale conforme ai principi costituzionali inviolabili della tutela della dignità umana e del rispetto reciproco tra le persone (art. 2 della Costituzione).

Ciò significa, come ha precisato la più recente giurisprudenza di legittimità, che “l’osceno attinge il limite dell’antigiuridicità penale, quindi della sua stessa punibilità, solo quando sia destinato a raggiungere la percezione della collettività, il cui sentimento del pudore può solo in tal modo essere posto in pericolo o subire offesa”. In altri termini, per riprendere ancora i concetti espressi dallo stesso giudice, la contrarietà al sentimento del pudore non dipende dall’oscenità di atti o di oggetti in sé considerata, ma dall’offesa che può derivarne al pudore sessuale, considerato il contesto e le modalità in cui quegli atti e quegli oggetti sono compiuti o esposti: sicché non può riconoscersi tale capacità offensiva ad atti o ad oggetti che, pur avendo in sé un significato osceno, si esauriscono nella sfera privata e non costituiscono oggetto di comunicazione verso un numero indeterminato di persone ovvero sono destinati a raggiungere gli altri soggetti con modalità e cautele particolari, tali da assicurare la necessaria riservatezza e da prevenire ragionevolmente il pericolo di offesa al sentimento del pudore dei terzi non consenzienti o della collettività in generale.

3. – Se, dunque, la “pubblicità” – intesa come reale o potenziale percezione da parte della collettività, o comunque di terzi non consenzienti, del messaggio trasmesso per mezzo di scritti, disegni, immagini o rappresentazioni – si configura come un requisito essenziale della nozione del “buon costume”, considerato quale limite costituzionale al diritto fondamentale di libera manifestazione del proprio pensiero, non v’è dubbio che da ciò derivi un vincolo anche per chi sia chiamato a interpretare le leggi ordinarie attuative di quel valore costituzionale, nel senso che questi è tenuto a determinarne il significato adeguandone il senso ai principi appena ricordati. Sicché il giudice che si trovi ad applicare la norma contenuta nell’art. 528 del codice penale, la quale punisce chiunque, allo scopo di farne commercio o distribuzione, detiene scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie, deve aver presente, come ha precisamente avvertito la più recente giurisprudenza di legittimità, che la misura di illiceità dell’osceno è data dalla capacità offensiva di questo verso gli altri, considerata in relazione alle modalità di espressione e alle circostanze in cui l’osceno è manifestato. E tale capacità, come ha precisato lo stesso giudice, non può certo riscontrarsi nelle ipotesi in cui l’accesso alle immagini o alle rappresentazioni pornografiche non sia indiscriminatamente aperto al pubblico, ma sia riservato soltanto alle persone adulte che ne facciano richiesta.
Né si può sostenere, come ha fatto il pretore rimettente, che rispetto a tale interpretazione “adeguatrice” sia preferibile, sotto il profilo dell’osservanza dei precetti costituzionali, una pronuncia di accoglimento. Questa Corte ha, infatti, costantemente affermato che il principio di conservazione dei valori giuridici – tanto più in casi in cui la dichiarazione d’illegittimità costituzionale comporterebbe, quantomeno per qualche tempo, l’impunità anche di comportamenti che il legislatore considera inequivocabilmente come illeciti penali – impone il mantenimento in vita di una norma di legge quando a questa possa essere riconosciuto almeno un significato conforme a Costituzione (v. ad esempio, ord. n. 279 del 1990, ord. n. 356 del 1990 e ord. n. 362 del 1990; sent. n. 559 del 1990). La soluzione contraria si impone soltanto nelle ipotesi in cui il tentativo di adeguare il significato di norme incriminatrici ai precetti costituzionali dia luogo a una vaghezza e indeterminatezza tali da impedire logicamente di poter discernere il confine fra il lecito e l’illecito penale (v., ad esempio, sent. n. 120 del 1968). Ma questo non è sicuramente il caso offerto dalla questione di costituzionalità in discussione.

4. – Le suesposte considerazioni fanno venir meno anche il presupposto interpretativo sul quale si basano le restanti censure sollevate dal giudice “a quo”. Le relative questioni devono, pertanto, considerarsi assorbite.

P. Q. M.

La Corte Costituzionale

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale sollevate, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dal Pretore di Macerata – Sezione distaccata di Civitanova Marche, nei confronti dell’art. 528 del codice penale, nella parte in cui punisce chiunque, allo scopo di farne commercio o distribuzione, detiene scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie, per violazione degli artt. 21 e 27, terzo comma, della Costituzione nonché del combinato disposto formato dagli artt. 2, 3, 13 e 25, secondo comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 1992.