Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 24 Aprile 2008

Sentenza 28 marzo 2008, n.13234

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE

Composta dai sigg. magistrati:
Dott. Guido de Maio presidente
Dott. Agostino Cordova consigliere
Dott. Ciro Petti consigliere
Dott. Maria Silvia Sensini consigliere
Dott. Giulio Sarno consigliere
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Sul ricorso proposto dai difensori di B. (omissis) avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia del 30 gennaio del 2007;
udita la relazione svolta del consigliere dott. Ciro Petti;
sentito il sostituto procuratore generale dott. Guglielmo Passacantando, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore delle parti civile avv prof. Lorenzo Picotti, il quale ha concluso per l’inammissibilità o comunque per il rigetto del ricorso dei prevenuti;
sentito il difensore degli imputati avv. prof Piero Longo,il quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
letti il ricorso e la sentenza denunciata, osserva quanto segue

IN FATTO

Con sentenza del 30 gennaio del 2007, la corte d’appello di Venezia, in parziale riforma di quella pronunciata dal tribunale della medesima città in data 2 dicembre del 2004, assolveva per l’insussistenza del fatto dall’addebito di avere incitato i pubblici amministratori di Verona a commettere atti di discriminazione razziale ed etnici nei confronti degli zingari Sinti; rideterminava la pena inflitta per l’altro addebito (propaganda di idee discriminatorie) in mesi due di reclusione per ciascun imputato; confermava la pena accessoria del divieto di partecipare in qualsiasi forma ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche ed amministrative per anni tre; riduceva la liquidazione del danno e confermava nel resto la sentenza impugnata . Gli imputati erano stati ritenuti responsabili del delitto di cui agli artt. 110 c.p. e 3 comma 1 lettera a) della legge n 654 del 1975, come modificata dalla legge n 205 del 1993, per avere, agendo in concorso tra loro, propagandato idee basate sulla superiorità e l’odio razziale nei confronti degli zingari Sinti. Fatto commesso in Verona nel mese di settembre del 2001
La corte, dopo avere richiamato la motivazione del tribunale, la consulenza disposta dal pubblico ministero al fine di stabilire le moderne nozioni di razzismo e discriminazione razziale e, dopo avere premesso che gli zingari sono da considerare un etnia e, quindi, come tale, possibile oggetto di riferimento della fattispecie contestata, e, dopo avere aggiunto che nell’interdetto antirazzista si dovevano comprendere anche fenomeni di cosiddetto razzismo implicito, in estrema sintesi osservava che lo scopo dei prevenuti era quello di propagandare la superiorità etnica e comunque l’odio razziale. Tale convincimento si desumeva dal contenuto dei manifesti e dagli slogan nonché dal fatto che i manifesti erano stati apposti anche in comuni diversi da quello di Verona e dalla deposizione della teste (omissis) il quale, tra l’altro, aveva dichiarato che il T. in una riunione aveva affermato che la città doveva essere “inospitale nei confronti degli zingari perché dove arrivavano c’erano furti”. A fondamento dell’assoluzione degli imputati dal delitto di incitamento degli amministratori alla discriminazione mediante la richiesta di allontanamento incondizionato degli zingari precisava che il contenuto della petizione non era di per sé illecito e, di conseguenza, contrariamente all’assunto del
tribunale, considerava non integrata la fattispecie dell’incitamento. In definitiva, secondo la corte, gli imputati con l’affissione dei manifesti si erano prefissi, non solo uno scopo “propedeutico” all’oggetto della petizione, ma anche quello pit vasto di propagandare idee dirette a mandare via gli zingari in quanto tali e comunque a discriminarli .
Ricorrono per cassazione i difensori sulla base di due motivi. Con il primo denunciano la violazione della norma incriminatrice nonché dell’articolo 14 delle disposizioni sulla legge in generale per l’applicazione analogica di una norma penale il cui significato, anche letterale,. sarebbe stato stravolto. Con il secondo lamentano mancanza e contraddittorietà della motivazione nonché carenze motivazionali per avere la corte omesso di esaminare le deduzioni contenute nell’atto di appello. Assumono che nonostante il capo d’imputazione facesse riferimento al turbamento della coesistenza pacifica e nonostante l’esclusione di tale elemento da parte della stessa corte, sarebbe stata ugualmente confermata la condanna per la ritenuta sussistenza di un razzismo implicito desunto peraltro da indizi privi di concludenza. Inoltre la corte, pur rilevando che con la novella n 85 del 2006 il termine “diffonde” era stato sostituito con “propaganda”, si era contraddetta manifestamente perché la finalità del comportamento tenuto dagli imputati era solo e proprio quello reso palese dalla petizione che si sollecitava a firmare, ossia quello di eliminare gli insediamenti abusivi. Tale finalità però era stata ritenuta lecita dalla stessa corte che aveva assolto i prevenuti dal diverso reato d’incitamento a commettere atti discriminatori. In definitiva la corte si era contraddetta perché aveva apprezzato come elemento costitutivo del reato una propaganda che era però diretta a realizzare un fine ritenuto lecito dalla stessa corte. Inoltre, nell’analizzare l’elemento soggettivo del reato, erroneamente lo aveva inquadrato nel dolo generico in contrasto con decisioni di questa Corte Suprema che lo avevano qualificato specifico. Infine, per disattendere la tesi dei prevenuti, aveva osservato che i manifesti erano stati collocati anche nei comuni limitrofi ed aveva utilizzato in maniera distorta la deposizione della teste R. la quale aveva affermato che il T. in una riunione aveva dichiarato che la città doveva essere inospitale con gli zingari perché dove arrivavano c’erano furti ed aveva desunto da tale espressione l’esistenza della superiorità o comunque dell’odio razziale poiché l’intento di essere inospitale verso qualcuno non può che “essere correlato ad un sentimento di non superficiale avversione nei suoi confronti”. Invece tali indizi, secondo i difensori, erano insussistenti o equivoci. In ordine al
primo (collocazione dei manifesti anche nei comuni limitrofi) assumono che la corte non aveva fornito una risposta alle osservazioni contenute nei motivi d’appello nei quali si era precisato con dettagliati riferimenti processuali che il ripristino della legalità riguardava anche i comuni limitrofi, i quali, in violazione della legge regionale n 54 del 1989, non si erano dotati di un campo nomadi. In ordine al secondo (testimonianza della B ) deducono che la corte aveva equiparato impropriamente l’odia al sentimento di ” non superficiale avversione”. Infine aveva desunto la manifestata superiorità dalla seguente espressione : ” Dato che gli zingari rubano e dato che non è pensabile ritenere che il pensiero dell’imputato (fosse) che anche tutti i non zingari rubano, l’idea di superiorità, pur non espressamente affermata, ciò non di meno era dei tutto esplicita”. Invece, siffatta espressione era del tutto inidonea a sostenere la tesi della corte. Secondo i difensori, a parte il rilievo che non può essere del tutto esplicito ciò che non è espressamente affermato, il difetto logico consisterebbe nel fatto che la contrapposizione tra ladro e non ladro non esprime un’idea di superiorità ma di semplice differenza di comportamento. L’equivocità degli indizi utilizzati dal tribunale avrebbe dovuto indurre la corte ad assolvere gli imputati anche dall’altro reato quanto meno per il principio “in dubio pro reo”.

IN DIRITTO

Il ricorso è in larga misura fondato specialmente con riferimento al secondo motivo e va accolto per quanta di ragione.
E’ opportuno premettere che la modificazione della norma incriminatrice, attuata nelle more del processo con l’articolo 13 della legge n 85 del 2006, non ha determinato la liceità del fatto nei termini in cui era stato contestato o in quelli notevolmente ridimensionati ritenuti nella sentenza della corte territoriale. Invero, l’articolo 3 lettera a) della legge 13 ottobre del 1975 n 654 di ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale firmata a New York il 17 marzo del 1966, nel testo sostituito dall’articolo 1 del decreto legge 26 aprile del 1993 n 122 convertito con modificazioni nella legge 25 giugno 1993 n 205, vigente all’epoca del fatto, puniva con la reclusione fino a tre anni chi diffondeva in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico ovvero incitava a commettere o commetteva atti di discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi. La norma non conteneva (e non contiene tuttora) la nozione di razzismo, di discriminazione o di odio razziale, termini questi che si prestano ad una pluralità di significati. La nozione di discriminazione, ai fini che qui interessano, non può essere intesa come riferibile ad una qualsiasi condotta che sia o possa apparire in contrasto con un ideale di assoluta integrazione non solo nei diritti, ma anche nella pratica dei rapporti quotidiani, ma, rilevato che il divieto di discriminazione di cui alla legge n 654 del 1975, è stato introdotto nel nostro Paese in esecuzione della Convenzione di New York del 7 marzo 1966, il termine discriminazione” deve essere inteso nel significato indicato dall’articolo 1 di tale Convenzione, in base alla quale discriminare significa porre in essere un comportamento che direttamente o indirettamente comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza, ecc. allo scopo di “distruggere o compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica”. La nozione é stata ripresa e ribadita nell’articolo 43 comma 1 del decreto legislativo n 286 del 1998 e successivamente meglio puntualizzata nella direttiva n 43 del 2000, introdotta nel nostro ordinamento con il decreto legislativo del 9 luglio del 2003 n 215. In base a tale direttiva si ha discriminazione diretta quando, a causa della propria razza o origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione analoga. Si ha invece discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza ed origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (articolo 2 decreto legislativo citato). L’anzidetto decreto, applicabile sia al settore pubblico che a quello privato, considera come discriminazioni anche le molestie o i comportamenti indesiderati (art. 2 comma 3). Il razzismo é una forma particolare di discriminazione perché indica la razza come fattore determinante per lo sviluppo della società e, di conseguenza, presuppone l’esistenza di razze superiori ed inferiori: le prime destinate al comando, le seconde alla sottomissione (cfr Cass. 29 ottobre 1993 RV 196583). II razzismo si attua o con la persecuzione o con la discriminazione Odiare significa manifestare un’avversione tale da desiderare la morte o una grave danno per la persona odiata, per cui non si può qualificare come odio qualsiasi sentimento di avversione o di antipatia.

Richiamate tali nozioni, si rileva che la norma incriminatrice indicata nel capo d’imputazione nel testo vigente all’epoca della contestazione, salvo che il fatto costituisse un reato più grave, prevedeva e prevede tuttora, con alcune distinzioni terminologiche alle quali si farà riferimento in seguito, due condotte tra loro alternative che potevano anche concorrere tra loro: la prima consisteva nella diffusione ossia nel portare a conoscenza di terzi, mediante la divulgazione, idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale; la seconda consisteva nell’incitare a commettere atti discriminatori o alternativamente nel commettere atti discriminatori.
Nella prima ipotesi il fatto si consumava nel momento in cui l’idea discriminatoria era portata a conoscenza dei terzi. Per la configurabilità del reato di diffusione non era necessario alcun fine specifico essendo sufficiente la consapevolezza della condotta dianzi descritta, la quale però doveva essere determinata in maniera esclusiva o quanto meno assolutamente prevalente o da ragioni di superiorità. ovvero da odio razziale o etnico. Il dolo specifico richiede, invece, una finalità dell’agente prevista dalla stessa norma incriminatrice per la configurabilità del reato, anche se non é necessario che tale finalità si realizzi per la consumazione dei crimine . La norma vigente all’epoca del fatto che puniva la diffusione non richiedeva alcuna finalità specifica. La finalità dell’azione assumeva rilevanza nella seconda ipotesi ossia nell’incitamento alla commissione di atti discriminatori. Le decisioni. di questa corte (Cass. n. 7422 del 2002, Orru e 46783 del 2005, Zerman) che hanno fatto, peraltro genericamente, riferimento al fine specifico anche per il reato di diffusione di idee razziste o di effettivo compimento di atti discriminatori, non sono condivisibili perché il dolo specifico, ad avviso di questo collegio, era ed è richiesto solo per il delitto di incitamento a commettere atti discriminatori (ora istigazione), per la ragione dianzi indicata
La seconda ipotesi (incitamento a commettere atti discriminatori) si realizzava allorché un soggetto, sempre per motivi razziali,etnici, ecc, incitava a commettere atti discriminatori non violenti (gli atti violenti erano e sono contemplati nella fattispecie di cui alla lettera b) che non riguarda il caso in questione).Nell’ipotesi dell’incitamento l’azione doveva essere, non solo determinata da motivi razziali, ecc., ma anche essere finalizzata ad incitare a commettere un atto discriminatorio (ad esempio l’espulsione di un ebreo o di uno zingaro, ecc., per il semplice fatto di essere ebreo, zingaro, ecc.). Se l’azione non era diretta a commettere un atto discriminatorio
nel significato prima riferito, l’ipotesi in esame non era configurabile. Pertanto, con riferimento a tale ipotesi. era configurabile un dolo specifico perché, come già accennato, la condotta doveva essere, non solo determinata da motivi razziali,etnici ecc, ma anche diretta ad incitare a commettere in concreto un atto discriminatorio, aveva cioè anche una precisa finalità richiesta dalla stessa norma per la configurabilità del reato anche se, ai fini della consumazione, non era necessario l’effettivo compimento dell’atto discriminatorio, essendo sufficiente l’idoneità dell’azione.
L’oggetto specifico della tutela penale in entrambi i reati non era e non è costituito dall’ordine pubblico, il quale ha rilevanza indiretta, ma dalla tutela della dignità umana come risulta dalla nozione di discriminazione recepita dall’articolo 2 del decreto legislativo n. 215 del 2003 nel quale si fa esplicito riferimento alla dignità della persona.
Tale ricostruzione normativa non ha subito sostanziali modificazioni per effetto della legge n. 85 del 2006 con la quale il legislatore ha sostituito il termine “diffonde” con “propaganda” ed “incita” con “istiga”. Ora mentre la sostituzione del verbo incita con istiga ha un valore meramente terminologico data la sostanziale equivalenza dei due termini, l’uso del verbo “propaganda” in luogo di “diffonde” restringe la fattispecie originaria perché implica che la diffusione debba essere idonea a raccogliere consensi intorno all’idea divulgata. Propagandare un’idea significa divulgarla al fine di condizionare o influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico in modo da raccogliere adesioni intorno all’idea propagandata. Anche in questo caso può essere sufficiente il dolo generico perché lo scopo di condizionare la pubblica opinione è insito nella condotta propagandistica; é sufficiente cioè che l’agente sia consapevole del contenuto dell’idea che volontariamente propaganda e della idoneità oggettiva a condizionare l’altrui opinione. Nella fattispecie tale modificazione terminologica, se si tiene conto del fatto originariamente contestato, non ha avuto alcun incidenza poiché i prevenuti, secondo la contestazione, non si sarebbero limitati a diffondere la loro idea di allontanare gli zingari da Verona ma l’avrebbero anche pubblicizzata e propagandata al fine di acquisire consensi pubblici.
La discriminazione però si deve fondare sulla qualità del soggetto (zingaro, nero, ebreo, ecc.) e non sui comportamenti . La discriminazione per l’altrui diversità é cosa diversa dalla discriminazione per l’altrui criminosità. In definitiva un soggetto può anche essere legittimamente discriminato per il suo comportamento ma non per la sua qualità di essere diverso.
Richiamate le coordinate normative della fattispecie discriminatoria, occorre ora valutare l’apparato argomentativo della sentenza impugnata in relazione alle censure che le sono state mosse. Per una migliore comprensione della vicenda occorre richiamare brevemente il fatto, anche se allo stesso si è già fatto genericamente riferimento nella parte narrativa. Secondo la ricostruzione contenuta nelle sentenze dei giudici del merito i prevenuti, quali rappresentanti di un partito politico, avevano assunto l’iniziativa di invitare i cittadini veronesi a sottoscrivere una petizione, rivolta alle autorità comunali, del seguente tenore: “I sottoscritti cittadini veronesi con la presente chiedono lo sgombero immediato di tutti i campi nomadi abusivi e provvisori e che l’amministrazione non realizzi nessun nuovo insediamento nel territorio comunale”. L’iniziativa era stata altresì pubblicizzata con varie interviste alla stampa e con manifesti del seguente tenore: “No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare via gli zingari”. Orbene dall’esame dei due documenti dianzi evidenziati, il cui testo é stato desunto dalle sentenze, appare evidente che il contenuto del manifesto era diretto a propagandare la petizione, tanto è vero che esso conteneva l’invito a firmare ed indicava i luoghi dove erano stati sistemati i banchetti per la raccolta delle firme. Inoltre, se si esamina il contenuto del solo manifesto, a prescindere dal contesto ambientale, appare palese la discriminazione degli “zingari” per il solo fatto di essere tali, in quanto in tale documento non si indica alcuna plausibile ragione a sostegno dell’allontanamento. La petizione, invece, non ha un contenuto palesemente discriminatorio perché con essa, secondo il significato letterale delle parole, si chiedeva che non fossero istituiti nuovi campi nomadi, ma non si mirava ad impedire o almeno non si tendeva ad impedire in maniera esplicita la conservazione di quelli già istituiti .
Il pubblico ministero, accorpando i due reati (diffusione di idee discriminatorie ed incitamento a compiere atti discriminatori) in un’unica condotta, ha addebitato ai prevenuti il fatto di avere “mediante l’iniziativa di raccolta di firme per mandare via gli zingari – presentata in un’apposita conferenza stampa ed ampiamente pubblicizzata con l’affissione di manifesti sui muri della città e con dichiarazioni rese alla stampa – rivolta ai cittadini veronesi e finalizzata ad ottenere il definitivo allontanamento dal territorio comunale di Verona degli zingari, anche se iscritti nell’anagrafe (di quella) città, per il solo fatto di essere zingari e, quindi, appartenenti ad un etnia diversa e non integrabile nella città, diffuso idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale ed etnico ed incitato i pubblici amministratori competenti a commettere atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici e conseguentemente creato mediante la richiesta di adesione in forma diffusa all’iniziativa discriminatoria da loro patrocinata, un concreto turbamento della coesistenza pacifica dei vari gruppi etnici nel contesto sociale al quale il messaggio era indirizzato”.
Dalla formulazione del capo d’imputazione appare evidente che per il pubblico il nucleo fondamentale della condotta criminosa era costituito dalla petizione e non dai manifesti che erano finalizzati a propagandare la petizione.
I prevenuti però, come già accennato, pur ammettendo la paternità dell’iniziativa, avevano sostenuto che il loro intento non era quello di allontanare definitivamente gli zingari Sinti, per il solo fatto di essere tali, da Verona, ma al contrario quello di evitare l’istituzione di nuovi punti di raccolta provvisori, fermi restando quelli legittimamente istituiti, in conformità peraltro ad una mozione dello stesso Consiglio Comunale del 21 dicembre del 1995, con cui si era stabilita la non istituzione di nuovi campi per i nomadi. Avevano in sostanza affermato che miravano a cercare una soluzione non precaria al problema della sistemazione dei nomadi . A sostegno del loro assunto avevano evidenziato che essi stessi avevano proposto la sistemazione degli “zingari” nei paesi limitrofi o comunque in altro sito idoneo di proprietà della Curia vescovile con spese a carico del Comune.
Il tribunale però ha respinto la tesi degli imputati osservando che il loro scopo effettivo non era quello di evitare l’istituzione di nuovi campi nomadi, ma quello di allontanare definitivamente i nomadi Sinti dalla città e ciò perché la stessa ideologia degli imputati, qualificata come differenzialismo politico e culturale, era di per sé razzista (pag. 115 sentenza di primo grado richiamata anche alla pagina 27 della sentenza d’appello nella nota n 44 ).
I prevenuti, con i motivi d’appello, in estrema sintesi avevano sostenuto che il tribunale aveva privilegiato la sola frazione di condotta rappresentata dai manifesti rifiutando qualsiasi confronto con le finalità dell’azione evidenziate dal testo del quesito mentre lo stesso capo d’imputazione si incentrava sull’iniziativa di raccolta delle firme per la petizione Inoltre, anche a limitare l’esame delle condotte tenute dagli
imputati al solo contenuto dei manifesti, il contesto dell’iniziativa e lo scopo avuto di mira avrebbero dovuto ugualmente essere scandagliati al fine di verificare la sussistenza dell’elemento psicologico del reato
La corte territoriale, dopo avere sottolineato che la materialità del fatto non era stata contestata dai prevenuti (osservazione non del tutto vera perché nel capo d’imputazione si parlava di definitivo allontanamento e di manifestazioni di idee di superiorità razziale, circostanze queste contestate dagli appellanti) e, dopo essersi, al pari del tribunale, dilungata ad evidenziare la moderna nozione di razzismo ed a considerare il cosiddetto differenzialismo politico come forma di razzismo, ha recepito in larga misura le censure, assolvendo tutti gli imputati dal delitto di istigazione a commettere atti discriminatori per l’insussistenza del fatto sul rilievo che il contenuto della petizione non era di per sé illecito. Ha ritenuto quindi che essa non fosse diretta ad istigare gli amministratori al fine di indurli a compiere atti amministrativi discriminatori nei confronti degli zingari Sinti, ossia un definitivo allontanamento della città (pag 32). La corte però, nonostante l’assoluzione degli imputati dal delitto di incitamento a commettere atti discriminatori, ha ritenuto ugualmente configurabile il reato di propaganda di idee fondate sulla superiorità razziale o sull’odio etnico sulla base di due argomentazioni.
La prima si fonda sul rilievo che gli imputati con i manifesti si erano prefissi “non solo uno scopo propedeutico all’oggetto della petizione, ma anche quello più vasto di propagandare idee dirette a mandare via gli zingari, in quanto tali e comunque a discriminarli nei termini previsti dalla norma” (cfr. pag. 32 della sentenza impugnata). In definitiva secondo la corte lo scopo più vasto della propaganda era costituito dall’intento di divulgare idee dirette ad allontanare definitivamente gli zingari da Verona.
Con la seconda argomentazione la corte territoriale, pur dando atto che nella valutazione della vicenda in esame non si poteva prescindere dal confronto tra il contenuto del manifesto ed il tenore della petizione, osservava tuttavia che la petizione come ogni dato ulteriore rispetto alla condotta non pote(va) rappresentare un elemento per interpretare il comportamento degli imputati prescindendo addirittura dal significato reso manifesto dalla condotta stessa (cfr. pag 27.
Ad avviso di questa collegio entrambe le argomentazioni sono logicamente e giuridicamente erronee.
In ordine al primo argomento si osserva che la propaganda non aveva uno scopo più ampio di quello diretto a sostenere la petizione, ma al contrario il suo unico scopo era proprio quello di propagandare la petizione, come risulta dalla stesso capo d’imputazione dianzi riportato, dalla cui formulazione non si può prescindere, nonché dal fatto che il manifesto conteneva l’invito a firmare e l’indicazione dei luoghi della città dove erano stati sistemati i banchetti per la raccolta delle firme. Lo scopo del manifesto era unicamente quello di pubblicizzare la petizione. Di conseguenza non si poteva separare il contenuto di esso da quello della petizione e per ritenere illecito il primo e lecito il secondo ossia l’idea propagandata contenuta nella petizione. Non si poteva insomma scindere una condotta che era unitaria e considerare illecita la propaganda e lecito il contenuto della petizione che era stato propagandato con i manifesti, i quali erano finalizzati propri a sostenere la petizione.
In ordine al secondo argomento addotto a sostegno della dichiarazione di responsabilità ossia all’affermazione secondo la quale la petizione era estranea alla condotta propagandistica, si osserva che tale considerazione contraddice la stessa formulazione della contestazione, la quale aveva ravvisato proprio nella petizione il nucleo fondamentale della condotta ascritta ai prevenuti. La petizione quindi non poteva essere considerata come “dato ulteriore rispetto alla condotta”, ma era parte integrante della stessa e comunque ai fini della valutazione dell’elemento psicologico non si poteva prescindere dalla petizione. L’unico “significato reso manifesto dalla condotta stessa” ossia dal manifesto propagandistico era proprio quello di invitare i cittadini a sottoscrivere la petizione.
L’accorta difesa delle parti civili, ben consapevole dell’incongruenza della decisione della corte, ha tentato di sostenerla richiamando l’autonomia e la diversità dei due reati. Certamente i due reati sono diversi e non devono necessariamente concorrere tra loro perché colui il quale commette o incita a commettere atti discriminatori non deve necessariamente propagandare l’incitamento e viceversa chi propaganda idee discriminatorie non deve necessariamente commettere atti discriminatori- Nella fattispecie però i due reati erano stati commessi in unico contesto ed erano tra loro collegati tanto è vero che nello stesso capo d’imputazione erano stati accorpati in un’unica contestazione.
L’impostazione accusatoria originaria, a prescindere dalla sua fondatezza nel merito, aveva una sua coerenza logica,
perché come era palese dal contenuto dei due documenti si era sostenuto che la propaganda fosse diretta a sostenere la petizione, la quale è stata considerata illecita perché si è ritenuto che non fosse rivolta a vietare l’istituzione di nuovi campi nomadi ma ad allontanare definitivamente gli zingari Sinti da Verona . Il rispetto della legalità era per l’impostazione accusatoria, recepita dal tribunale, solo una manipolazione per mascherare il vero intento della petizione. L’ ipotesi accolta dalla corte è invece contraddittoria, sia per la ragione già esposta, sia perché la conclusione è contraddetta da altri passi della medesima sentenza. La corte territoriale, invero, da un lato, ha ritenuto lecito il contenuto della petizione, dall’altro, contraddice se stessa allorché afferma che Io scopo dell’iniziativa non era quello del ripristino della legalità ossia di evitare l’istituzione di campi abusivi o provvisori in Verona ed arriva a tale conclusione in base alla circostanza che i manifesti erano stati sistemati anche nei comuni limitrofi a quello di Verona. In sostanza lascia chiaramente intendere che, se lo scopo dei prevenuti fosse stato quello indicato nella petizione, ossia la non istituzione di nuovi insediamenti in Verona, non avrebbe avuto senso collocare i manifesti anche in altri comuni limitrofi (fol 29). La contraddizione é palese perché la corte territoriale avendo ritenuto sulla base della collocazione dei manifesti anche nei comuni limitrofi alla città di Verona inattendibile la tesi difensiva, avrebbe dovuto di conseguenza considerare il contenuto della petizione una mera copertura per mascherare un fine illecito e quindi ritenere configurabile anche il secondo reato, come ritenuto dal tribunale. La corte invece ha recepito la tesi difensiva in base alla quale lo scopo della petizione non era quello dell’allontanamento definitivo degli zingari .In definitiva la corte ha scisso un’azione considerata unitaria nella contestazione per considerare lecita la petizione ed illecito il contenuto dei manifesti, i quali però erano stati affissi per sostenere proprio la petizione ritenuta lecita dalla corte. Tale scissione richiedeva una motivazione più puntuale soprattutto sulla persistenza del dolo discriminatorio nonostante la ritenuta liceità della petizione, motivazione che invece é lacunosa . Ad esempio la corte territoriale ha utilizzato – peraltro in maniera contraddittoria, come dianzi precisato – contro gli imputati la circostanza della collocazione dei manifesti anche nei comuni limitrofi alla città di Verona senza esaminare la giustificazione fornita in proposito dagli appellanti alla pagina 11 dell’atto d’appello. Costoro avevano precisato che i manifesti erano stati sistemati anche nei comuni anzidetti perché il problema dell’istituzione dei campi nomadi e del rispetto della legge regionale n. 54 del 1989 si poneva anche e soprattutto per i comuni limitrofi, i quali non avevano istituito alcun campo per i nomadi in violazione della citata legge regionale.
Inoltre la corte, poiché dal tenore del manifesto e a fortiori dallo stesso contenuto della petizione non emergeva l’esplicitazione di un’idea di superiorità razziale, ha ritenuto che tale idea, ancorché non espressa, dovesse considerarsi implicitamente enunciata, così come doveva considerarsi sussistente l’odio razziale. Fonda tale conclusione essenzialmente sulla deposizione della testimone B. (fol. 30 della sentenza). Questa aveva dichiarato che in una riunione il T. aveva ribadito che “gli zingari dovevano essere mandati via; che la città doveva essere inospitale con lord perché dove arrivavano c’erano furti”.
Orbene la frase anzidetta non esprimeva alcuna idea di superiorità o almeno non esprimeva un’idea di superiorità fondata sulla semplice diversità etnica, ma manifestava solo un’idea di avversione, che la corte parifica all’odio richiesto per la configurabilità del reato solo perché la considera “non superficiale”. Siffatta “avversione non superficiale” non era stata però determinata dalla qualità di zingari delle persone discriminate ma dal fatto che tutti gli zingari erano ladri. Non si fondava cioè su un concetto di superiorità o di odio razziale, ma su un pregiudizio razziale. Certamente anche il pregiudizio razziale può configurare la discriminazione punibile allorché contiene affermazioni categoriche, non corrispondenti al vero. Tuttavia in una competizione politica particolarmente accesa (quello della sicurezza dei cittadini è tema che crea spesso forti tensioni emotive specialmente quando viene in risalto a seguito di gravi fatti criminosi) non si può dal contesto di un discorso estrapolare una frase poco opportuna per attribuire all’autore idee razziste senza esaminare il contesto nel quale tale frase é stata pronunciata e senza la valutazione degli elementi indicati a discolpa dall’autore della frase. Nel caso in esame i prevenuti avevano precisato che la loro avversione non era diretta nei confronti dei Sinti in quanto tali, ma solo nei confronti di quelli che rubavano ponendo in pericolo la sicurezza dei cittadini. A tal fine avevano evidenziato nei motivi d’appello che essi non si erano mai opposti come gruppo politico alla sistemazione degli zingari che esercitavano mestieri girovaghi, come i giostrai, anch’ essi in larga misura Sinti, come confermato dai testimoni F. e C., entrambi vicini all’etnia dei Sinti (cfr pagg. 10 e 11 dei motivi d’appello). Orbene sul punto la corte
territoriale ha valutato contro gli imputati la deposizione della teste B. senza apprezzare o confutare anche le deduzioni difensive contenute nei motivi d’appello, dalle quali emergeva che “l’avversione non superficiale” non era diretta contro l’intera etnia dei Sinti. Quando la discriminazione non si manifesta all’esterno per mezzo di un’esplicita dichiarazione di superiorità razziale o di odio nel significato letterale del termine, ma è frutto di un pregiudizio, quale ad esempio quello prima evidenziato, devono essere valutate tutte le circostanze temporali ed ambientali nelle quali quel pregiudizio è stato espresso, al fine di verificare l’effettiva sussistenza di un’idea discriminatoria fondata sulla diversità e non sul comportamento, si deve cioè stabilire se nella medesima situazione un altro soggetto appartenente a diversa religione, etnia, razza ecc, sarebbe stato o no trattato in maniera diversa e se il diverso trattamento sia stato determinato da un’idea di superiorità razziale o di odio etnico,religioso, ecc e non da altre ragioni, eventualmente anche censurabili. Insomma il giudice deve valutare la condotta dell’agente nel complesso, sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo, al fine di individuare la vera finalità ispiratrice della discriminazione ed escludere il reato quanto questa non sia stata determinata da superiorità razziale o da odio etnico, religioso, ecc
Alla stregua delle considerazioni svolte la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio. Il rinvio si giustifica per le carenze motivazionale dianzi evidenziate e per il fatto che dagli atti accessibili a questa corte non risulta evidente l’insussistenza del reato per il quale la corte ha ribadito l’affermazione di responsabilità. Invero il contenuto del manifesto, se lo si esamina a prescindere dal tenore della petizione, evidenzia elementi potenzialmente discriminatori. Esso però, contrariamente all’assunto della corte, non può essere scisso dal contesto della vicenda nella quale va inserito. Sicché, trattandosi di una valutazione di merito da effettuare valutando tutte le circostanze del caso, anche e soprattutto per individuare il dolo propagandistico discriminatorio, spetta alla corte territoriale, che ha ritenuto lecita la petizione, stabilire se possa configurarsi una responsabilità dei prevenuti per il solo reato di propaganda discriminatoria nonostante l’assoluzione per l’insussistenza del fatto dal delitto di incitamento a compiere atti discriminatori, posto che secondo la formulazione della contestazione la propaganda era rivolta proprio a sostenere l’atto ritenuto lecito dalla corte . Il giudice del rinvio dovrà procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi probatori ed indicare la ragione per la quale, nonostante l’assoluzione dal delitto di istigazione a commettere atti discriminatori, ormai definitiva, permanga la responsabilità per la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, fermo restando che il contenuto del manifesto non pub essere esaminato a prescindere dagli altri elementi fattuali dell’ intera vicenda . Quella adottata dalla corte territoriale non é una motivazione esaustiva e logicamente convincente

P.Q.M.

LA CORTE

Letto l’articolo 623 c.p.p.

ANNULLA

la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Venezia

Così deciso in Roma il 13 dicembre del 2007
Il consigliere estensore: Ciro Petti
Il Presidente: Guido De Maio