Anna Gianfreda, Libertà religiosa e culto dei defunti nell’epoca del Coronavirus
“Non ci furono preghiere. Gli si potrebbe mettere una croce, disse la ragazza dagli occhiali scuri, fu il rimorso a farla parlare,ma nessuno dei presenti aveva notizia di cosa il defunto pensasse in vita di queste storie di Dio e della religione, meglio tacere, ammesso che un diverso comportamento sia mai giustificato dinanzi alla morte, […]”.
José Saramago, Cecità.
Uno degli aspetti più “vistosi” e al contempo “scioccanti” delle misure varate per contenere e arginare l’emergenza legata alla diffusione del Coronavirus in Italia è sicuramente quello legato alle restrizioni imposte alla libertà religiosa dei cittadini-fedeli, che con il passare delle ore sono diventate sempre più numerose e dettagliate.
Le fonti di tali restrizioni sono individuabili in provvedimenti eterogenei sia per contenuto sia per provenienza.
In alcuni casi, infatti, e soprattutto nella fase iniziale e localizzata dell’emergenza, sono stati i Vescovi delle diocesi investite per prime dall’epidemia a pronunciarsi con disposizioni che, in un primo momento, hanno inciso su alcuni aspetti della liturgia (come l’invito a non scambiarsi il gesto della pace o a ricevere l’Eucarestia nelle mani) e, in un secondo momento, con l’aggravarsi della situazione, hanno sospeso le messe festive, in un periodo “forte” dell’anno liturgico come quello della Quaresima, fino ad arrivare alla soluzione “estrema” della chiusura delle Chiese predisposta dal Cardinale vicario della diocesi di Roma e poi riaperte parzialmente con un provvedimento del giorno successivo. In altri casi, e in aggiunta a tali provvedimenti, poi, sono intervenute le ordinanze regionali, che in maniera non sempre organica, nell’imporre limiti ad “assembramenti di persone”, vi hanno incluso gli atti di culto svolti in luoghi aperti al pubblico. Infine, con l’aggravarsi e il diffondersi su base nazionale dell’emergenza, sono intervenute le disposizioni governative d’urgenza che – anche in questi casi – sulla scorta di quanto già disposto per alcuni territori regionali, hanno sospeso tutti gli eventi anche di carattere religioso organizzati e svolti in luoghi pubblici o privati, e tutte le cerimonie civili e religiose.
Il dibattito presente in questi giorni sulle agenzie di stampa nazionali e internazionali delinea una serie di prese di posizioni articolate e complesse sul tema del bilanciamento tra libertà religiosa e insopprimibili esigenze di salute pubblica e talvolta pone questioni anche sull’equilibrio tra potere civile e autonomia confessionale in materia.
La Chiesa italiana è stata attenta e sollecita nel ribadire che, “a prescindere” dalle imposizioni di stampo civilistico, il senso di responsabilità che orienta il suo vivere nel mondo nonché la sua azione orientata al bene comune dell’uomo hanno costituito, assieme al “senso di appartenenza alla famiglia umana”, le ragioni essenziali delle limitazioni alla libertà del culto dei fedeli che sono ormai sotto gli occhi di tutti.
Eppure esiste una dimensione sulla quale, a mio parere, le suddette restrizioni hanno un effetto ancora più devastante in termini di sofferenza e dolore, ma anche sul piano della limitazione alla libertà religiosa: la sospensione delle esequie contemplata dai provvedimenti delle autorità civili e di alcune diocesi.
In tali situazioni viene meno innanzitutto la dimensione antropologica – potremmo dire pre-religiosa – della ritualità, imprescindibile elemento nei momenti di passaggio e “di transizione”, come quello che l’umanità sta vivendo con la pandemia di coronavirus.
Le riflessioni culturali, di stampo psicologico, antropologico, filosofico e finanche teologico attorno all’esperienza della morte, infatti, convengono “sul fatto che l’uomo e la donna della post-modernità non possono vivere l’esperienza del morire senza affidarsi alla dimensione della ritualità. Di fronte alla morte si riscontra una sorprendente domanda di riti, perché non bastano risposte più o meno ideologiche, non bastano i discorsi astratti, seppur fascinosi, seri e profondi.
Malgrado i venti della secolarizzazione, i riti legati alla morte, anche se minacciati, resistono – magari trasformandosi – perché per affrontare il mistero della morte, come per le altre tappe esistenziali di passaggio o di crisi – quali la nascita, l’ingresso nell’età adulta, lo sposarsi, la malattia –, «ci vogliono i riti» (A. de Saint-Exupéry). La stessa elaborazione meramente civile del lutto va oggi in cerca di ritualità significative. La morte e il lutto esigono di essere gestiti non intellettualisticamente né teoricamente, ma esistenzialmente e ritualmente” (Magnani F., Postfazione, in CEI. Ufficio liturgico nazionale, Atti del Convegno Rito delle esequie. “Umbra mortis vitae aurora”. Prospettive per la riflessione e la prassi, Mediagraf, 2014, pp. 239-242, spec. p. 241).
Tali riflessioni sembrano tanto più valide in un momento come l’attuale, nel quale sono proprio le domande sul senso dell’esistenza e la diffusa percezione della fragilità umana e della prossimità della morte a porre in risalto gli aspetti cruciali del fascio di libertà “religiose”, oltre che “esistenziali”, che ruotano attorno al culto dei defunti e gli irrinunciabili connotati giuridico-teologici che animano la liturgia delle esequie in ambito cattolico, ma non solo.
Richiamare sinteticamente tali “referenti di senso” può aiutare non tanto a valutare l’opportunità o meno di tali restrizioni in questo momento di emergenza, quanto ad apprezzare la profondità e l’intensità di quelle libertà e di quegli atti liturgici nei momenti “ordinari” della vita dei cittadini-fedeli, quando forse la loro preziosità si dà per scontata o perfino superflua.
Le regole proprie di ciascuna confessione sui rituali funebri, sui sistemi di sepoltura e sui luoghi della stessa hanno a che fare con il nucleo dogmatico più autentico e fondamentale delle religioni, in quanto spesso direttamente derivanti dall’escatologia propria di ogni fede, e dunque la loro osservanza diventa un aspetto che definisce l’appartenenza e l’identità religiosa dei fedeli, finendo per configurarsi come uno dei tanti momenti esistenziali, nei quali si esprime per fatti concludenti la libertà religiosa dei cittadini-fedeli.
La dimensione religiosa coessenziale al culto dei defunti, e quasi irrinunciabile proprio in quell’ambito, è evidente peraltro anche storicamente quando ad esempio, nell’ordinamento italiano pre-costituzionale, gli stringenti e generalizzati limiti alle manifestazioni pubbliche di libertà religiosa subivano una parziale attenuazione quando esse riguardavano i trasporti funebri, rispetto ai quali i poteri del questore erano limitati ad eventuali divieti attinenti solo alla “forma” dei funerali o alle cautele in ragione della salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini (cfr. il Testo Unico 18 giugno 1931, n. 773 delle Leggi di Pubblica Sicurezza, il quale escludeva “gli accompagnamenti del Viatico e i trasporti funebri, salvo le prescrizioni delle leggi e dei regolamenti di sanità pubblica e di polizia locale” dal regime autorizzatorio riconosciuto al questore per “le cerimonie religiose fuori dai templi” e per “le processioni ecclesiastiche o civili”).
In regime costituzionale, la formulazione ampia dell’art. 19 Cost., che occorre leggere sistematicamente insieme agli artt. 2 e 3, nonché 7 e 8 Cost., allo scopo di apprezzarne a pieno la portata prescrittiva e “positiva”, si sofferma esplicitamente e direttamente sugli aspetti cultuali legati alla libertà religiosa, in quanto manifestazione esterna “per eccellenza” della stessa e ricaduta “visibile” della professione della fede religiosa: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa […] e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.
Un fascio di libertà e diritti connessi alla dimensione cultuale della professione di fede, dunque, che declinati nel settore del culto dei defunti includono sia gli aspetti, in parte controversi, legati all’esercizio del diritto primario di sepolcro, il cui titolare, sia pur con molteplici difficoltà dogmatiche e ricostruttive, sarebbe lo stesso defunto, nella tutela delle sue convinzioni religioso-spirituali sulla morte, l’aldilà ecc. e nella scelta di una tipologia di funerale, di sepoltura e di luogo della stessa, coerenti con la propria appartenenza confessionale e con tali convinzioni, sia quelli legati alla libertà di culto di tutti i fedeli prossimi a quel defunto, in quanto membri della medesima comunità familiare, amicale, confessionale, nell’esercizio e tutela delle facoltà loro spettanti di esercitare gli atti di culto e di praticarne i riti religiosi funebri.
Si potrebbe dunque affermare che, dalla prospettiva giuridico-statuale, la libertà del culto dei defunti come estrinsecazione della libertà religiosa individuale e collettiva, possa trovare almeno un fondamento di rango costituzionale nell’art. 19 Cost., che tuttavia diviene, in alcuni casi e per alcune confessioni religiose, “rinforzato”, nel momento in cui esso è declinato e attuato nel quadro normativo predisposto dalle norme bilaterali di carattere pattizio, che prendono in esame il tema dell’osservanza dei riti funebri, sia sotto il profilo dell’osservanza dei riti propri di ciascuna fede, anche in situazioni di limitata possibilità di movimento (es. forze armate, degenza in ospedali, carceri ecc.) sia sotto il profilo della predisposizione di adeguati spazi religiosi di sepoltura nei cimiteri comunali.
Già questi brevi cenni, che non possono soffermarsi sulla molteplicità delle altre fonti di natura statale, regionale e locale, che si occupano di proteggere gli interessi religiosi connessi al culto dei defunti, sono in grado di dimostrare forse la cogente considerazione che l’ordinamento italiano ha della libertà religiosa in questo settore e illuminano “per differenza” le privazioni e i molteplici livelli di restrizione, che la sospensione delle attività esequiali producono nell’estrinsecarsi di uno degli aspetti pratici della libertà religiosa più delicati nella vita quotidiana dei cittadini-fedeli.
Gli appigli normativi di sistema richiamati, forse, potevano suffragare da parte dello Stato una posizione differente, la quale anziché includere – peraltro esplicitamente – le esequie quali manifestazioni vietate in quanto potenzialmente pericolose per la salute pubblica, poteva contemplare proprio tale tipologia di “celebrazioni” quale eccezione alle restrizioni imposte. Tale eccezione poteva essere giuridicamente fondata non solo alla luce della tutela della libertà religiosa (tanto più in un momento in cui l’effetto dell’emergenza è proprio la morte delle persone), ma anche alla luce di considerazioni di carattere strettamente antropologico-esistenziale. Gli sforzi potevano essere concentrati ad esempio sull’estendere alle celebrazioni esequiali quelle norme di prevenzione e sicurezza sanitaria che oggi sono applicate per le attività correlate ai “servizi pubblici essenziali” (come utilizzo presidi sanitari, limitazione del numero di persone partecipanti, osservanza distanza di sicurezza ecc.).
Sono consapevole del fatto che una tale scelta probabilmente sarebbe stata oltre che impegnativa, sotto il profilo del principio di precauzione, difficile da attuare nella pratica (soprattutto nella circostanza purtroppo non infrequente che proprio i parenti più stretti del defunto a causa di coronavirus siano sottoposti a quarantena e isolamento domiciliare) e che probabilmente avrebbe richiesto una valutazione più ponderata in termini temporali, che non è evidentemente stata possibile sull’onda del rapido e inesorabile aggravarsi dell’emergenza.
Ma l’opzione dell’eccezione giuridicamente fondata per le celebrazioni esequiali ai limiti alla libertà di riunione, circolazione e movimento, poteva forse essere avanzata in maniera pacata e meditata anche dalle confessioni religiose stesse.
È la posizione espressa, ad esempio, sia pur in un chiaro atteggiamento di collaborazione con le autorità civili italiane e nel contesto di un invito alla responsabilità individuale e comunitaria, dall’UCOII, che nella lettera circolare comunitaria n. 01/2020, afferma che “Le uniche funzioni inderogabili sono i funerali e la preghiera del gha’ib che può essere svolta a porte chiuse in piccoli gruppi rispettando il metro di distanza e muniti di mascherine evitando il più possibile il contatto diretto” (n. 5). La centralità teologica del funerale musulmano nella vita dei fedeli e della comunità ha suggerito di considerare inderogabili le funzioni funebri sia pur in questo momento di forti restrizioni alla libertà di culto. Sarebbe interessante, tuttavia, esaminare se e come eventualmente i rituali funebri islamici, ad esempio il lavaggio rituale, che richiede un contatto diretto con il cadavere, o la sepoltura nel solo lenzuolo di cotone, che non isola igienicamente il cadavere dall’ambiente circostante, subiscono delle modifiche nell’attuale situazione di emergenza da contaminazione di coronavirus.
La centralità giuridico-teologica della celebrazione esequiale peraltro non riguarda solo la confessione islamica, ma accomuna pressoché tutte le fedi, in primis la cattolica, che peraltro fonda la sua credenza proprio sull’evento salvifico della morte e resurrezione di Gesù Cristo.
Una efficace sintesi del contenuto e del significato teologico sottesi alla celebrazione delle esequie cattoliche è ravvisabile nel can. 1176 del codice di diritto canonico, che aprendo il titolo III del Libro IV dedicato al munus sanctificandi, individua, al par. 2, le funzioni del rito esequiale nel “l’aiuto spirituale per i defunti” e nel “l’onore dei loro corpi” insieme al “conforto della speranza” ai vivi. È la Chiesa stessa, nel suo complesso, che agisce nei confronti dei defunti e al contempo dei vivi rendendosi visibile nel momento del lutto e veicolando il significato teologico, ma anche ecclesiologico della morte di un fedele. Da tale punto di vista, la celebrazione esequiale è essa stessa “celebrazione del mistero pasquale di Cristo, in cui la Chiesa prega per i suoi figli, perché siano accolti tra i santi nel cielo, e chiede consolazione e speranza per quanti piangono la scomparsa del defunto” (Zambon A., La celebrazione delle esequie in alcune situazioni particolari, in Quaderni di Diritto Ecclesiale, 15, 2002, p. 275). Il legame inscindibile tra il mistero Pasquale incarnato da Cristo, “primogenito dei defunti” e l’esperienza della fine della vita terrena dei fedeli diventa il cuore semantico delle esequie ecclesiastiche, che devono dare testimonianza del mistero, attraverso la celebrazione privilegiata del Sacramento dell’Eucarestia esequiale nella quale la comunità fa memoria, insieme al defunto, della morte e resurrezione di Cristo (Torres Queiruga A., Risurrezione e liturgia delle esequie, in Concilium, 1/2006, p. 133).
In tale chiave, dunque, dalla prospettiva del fedele defunto le esequie ecclesiastiche sono un vero e proprio diritto dal quale può essere privato solo in situazioni tipizzate dal codice di diritto canonico (specialmente can. 1184) e che hanno per la maggior parte dei casi valenza sanzionatoria. Mentre, dalla prospettiva della comunità di appartenenza le esequie ecclesiastiche sono il segno tangibile della Chiesa che si fa madre e accompagna i propri figli nel momento doloroso della morte terrena testimoniando la speranza della resurrezione: “Celebrare insieme – lo hanno sempre saputo i diversi riti funerari – è il modo migliore di accompagnare il dolore di chi è direttamente coinvolto” (Torres Queiruga A., Risurrezione e liturgia delle esequie, in Concilium, 1/2006, p. 139).
Le restrizioni “dolorosamente” fatte proprie dalla Chiesa italiana, in spirito di collaborazione per il bene del Paese e di responsabilità comunitaria, non escludono in toto le esequie ecclesiastiche, ma si limitano a ridurre, in molti casi, il rito alla sola fase della benedizione della salma nel luogo della sepoltura. Ciò che si perde rimane comunque la messa esequiale e dunque la percezione proprio del significato pasquale della stessa oltre che la dimensione comunitaria che segnala visibilmente l’appartenenza del defunto e dei suoi cari al Popolo di Dio.
Nei costanti sforzi della Chiesa italiana di vivere nel mondo e di calarsi in maniera collaborativa e leale nelle realtà umane nelle quali vive, si moltiplicano le azioni di vescovi, parroci e ministri per dare testimonianza di quel mistero pasquale anche nei momenti di lutto e sofferenza che i fedeli-cittadini stanno vivendo in questo tempo, ma gli strumenti di cui dispone sono effettivamente “spuntati” e deboli, tanto più in un momento come l’attuale di continue ricerche di senso da parte anche dei fedeli più devoti.
Proprio per queste ragioni, forse, anche le messe esequiali – con tutte le dovute precauzioni sanitarie – potevano essere proposte quali “eccezioni” a quel “digiuno eucaristico e liturgico”, che caratterizza i tristi e angoscianti giorni del Coronavirus, cadenzati dal bilancio quotidiano dei morti, spesso privati, assieme ai loro cari, per ragioni di sicurezza sanitaria, del conforto spirituale nell’estremo momento della vita.
In prospettiva, mi auguro che le limitazioni che i cittadini-fedeli stanno sperimentando quotidianamente – anche sul fronte della libertà religiosa – possano essere un’occasione per interrogarsi a fondo sul senso della propria fede e sull’osservanza dei riti che caratterizzano il culto e che spesso sono “tiepidamente” e superficialmente seguiti dai fedeli cattolici, ma la cui preziosità è scoperta proprio nel momento della privazione.
In un’epoca in cui le ridotte possibilità di movimento inibiscono le “impressioni visive”, che sono caratterizzate solo dall’ambiente nel quale si vive, è il senso dell’ “ascolto” di ciò che ci circonda che si affina e fa riflettere: il silenzio delle campane che annunciano le celebrazioni feriali e festive, sostituito dal susseguirsi frequente e quasi ininterrotto delle sirene delle ambulanze, saranno sicuramente alcune delle sensazioni che rimarranno impresse nella memoria di questa impensabile e per certi versi surreale esperienza che sto vivendo da donna, madre, moglie e studiosa a Piacenza, città dove vivo e lavoro da ormai vent’anni, e che in questi giorni ho imparato ulteriormente ad apprezzare per la capacità di sacrificio, ma anche per le doti organizzative e la dedizione al lavoro di istituzioni civili, religiose, educative, e soprattutto mediche.
Anna Gianfreda, Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza
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