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    Chiara Griffini, La sfida relazionale del COVI19 alla malattia e alla morte: ricostruire l’ultima transizione delle relazioni familiari e sociali

    23 Marzo 2020

    Rileggere le relazioni umane in questo tempo di limitazioni e trasformazioni profonde e repentine dell’ordinario modo di vivere, e quindi delle nostre libertà personali, a cui la pandemia del COVI19 ci ha portato, è un passaggio obbligato, ma che può diventare un’opportunità preziosa, come singoli e come società nei vari sistemi relazionali che la animano. Vorrei proporvi uno spaccato del mondo delle relazioni umane per cui questa autoriflessione può essere un compito di sviluppo di questo tempo, che potremmo definire una transizione della nostra società mondiale, utilizzando un paradigma del modello simbolico – relazione per i legami  familiari, proposto dai professori Cigoli e Scabini (2000).

    Le transizioni sono i passaggi critici, che nel modello proposto da Cigoli e Scabini, costituiscono il concetto cardine del funzionamento familiare. La famiglia come la società sono corpi vivi, i cui tessuti simbolici non sono sempre visibili nelle interazioni quotidiane che i loro membri vivono. Escono allo scoperto nelle transizioni che tali sistemi relazionali affrontano. “I passaggi mettono in luce e alla prova la qualità delle relazioni, e perciò evidenziano la struttura della famiglia, i suoi punti di forza o di debolezza, il suo essere fonte di costruzione o decostruzione della persona” (Cigoli, Scabini, 2000). Credo davvero che questo tempo rappresenti un passaggio critico, una transizione per le nostre relazioni nei vari sistemi, in primis quello familiare legato al restare a casa, trasformando il modo di lavorare e di vivere il tempo libero, e per questo, come le transizioni del sistema familiare nel loro ciclo naturale, possono diventare prezioso passaggio per la costruzione della persona, discernimento per portare in salvo, riscoprire e rilanciare i legami che connettono le persone stesse  e che possono guidarle  nell’affrontare le sfide richieste dalla vita.

    Nel modello di analisi delle relazioni familiari proposto dai professori Cigoli e Scabini, nel ciclo di vita del sistema familiare l’ultima transizione è l’accompagnamento alla fine della vita e la malattia, mediante l’affrontare la sfida della condizione anziana.

    Il COVI19 ha riportato questa transizione prepotentemente sulla scena della vita familiare e sociale. La morte con il suo carattere di definitività rappresenta la transizione normativa più difficile da affrontare e mette a dura prova le relazioni familiari e sociali. Se tutto ciò è vero nell’ordinarietà della vita umana e delle sue relazioni, questo diventa ancora più arduo in questo tempo in cui per le disposizioni tutelanti la salute e il bene comune, viene meno il compito di sviluppo che caratterizza questa transizione e ne allevia la durezza nei suoi tre registri di espressione relazionale: l’accompagnamento nella malattia, la condivisione del dolore e la cura del ricordo. La prima è un passaggio necessario per aprire alla seconda e alla terza.

    L’accompagnare la malattia come espressione di cura, qualità generazionale fondamentale dei legami familiari, ora viene meno. Il malato, quando si aggrava, viene prelevato dalla sua casa e portato in ospedale, a cui nessun familiare o amico può accedere. La visita all’ammalato come gesto che esprime la qualità della riconoscenza, e in ultima analisi la profondità del legame – “sono con te anche nella crisi, affinché condividendola da pericolo diventi un’opportunità” – scompare dallo scenario relazionale. Il malato lotta da solo in termini familiari, ma non sociali. Quel personale sanitario anonimo, e quindi quel sociale anonimo, ora diventa il familiare; quel sociale espulso spesso dalla sfera intima, ora riappare in tutta la sua portata necessaria e direi anche salvifica, non solo per la vita, ma anche per i legami. Ne ho avuto testimonianza diretta da un paziente, in ospedale per COVI19, che ora è sulla strada del ritorno a casa, e che mi partecipava come il rapporto con i medici e gli infermieri, le uniche persone visibili e incontrate, oltre ai compagni di avventura, sia stato un dono prezioso, anzi come dice il mio paziente, un diamante che nel tempo del ricovero ti fa sentire umano, perché non solo curato, ma perché in relazione!

    L’assenza della libertà di accompagnare il proprio caro nella malattia, sia come visita sia come scelta dello stesso presidio di cura, significa interrompere quel dinamismo di ricambio che anima le relazioni familiari e sociali a livello intergenerazionale; il ricambio della cura, non per pareggiare in termini quantitativi il debito della cura ricevuta, ma per esprimere in termini qualitativi il passaggio generazionale e quindi raccogliere già nel qui ed ora l’eredità di una sorgente di dono che chiede di essere emulata con la spinta creativa propria della generazione successiva.

    La limitazione di questo tempo auguriamoci non interrompa, ma al contrario rinsaldi la consapevolezza dell’accompagnare la fragilità come scelta per esprimere la pienezza della nostra umanità: fatti per amare, fatti per legarci gli uni agli altri in un debito che genera sempre nuovi e creativi ricambi generazionali di cura.

    In particolare contribuisca a rinnovare il legame con la comunità, sia come intermediazione che come influenza reciproca. Quel legame ora espresso dall’azione di cura del personale sanitario, costruttore di generatività sociale, senza la quale davvero la nostra umanità in questo tempo sarebbe destinata alla disperazione. Guardare alla dedizione di queste persone, ora diventate familiari nel pensiero collettivo, ci provochi a passare da un sociale come il terzo a cui delegare i pesi della cura al terzo che è “capitale generativo”, le cui azioni positive possono trasferirsi nelle relazioni familiari promuovendo in esse e tra esse la società; quello che Cigoli e Scabini chiamano la cura della pluralità, la cui dimensione affettiva è rappresentata  dall’apertura prosociale nei confronti dell’altro (altre famiglie, contesto comunitario), mentre quella etica dal sentirsi accomunato all’altro nel vivere la vita sulla Terra, da cui si genera la possibilità di una responsabilità condivisa.

    La condivisione della realtà del distacco è necessaria, affinché si possa poi attivare la cura del ricordo, che connette il distacco ai legami. In questo tempo è venuta meno la condivisione nell’espressione della sofferenza, con l’assenza dei gesti che la caratterizzano come l’abbraccio della vicinanza, del sostegno. Una condivisione del dolore che apriva alla cura del ricordo mediante i riti, come la possibilità di accogliere e visitare la salma, di salutarla religiosamente e civilmente, di condividere il racconto del dolore che la malattia e il distacco hanno generato con le varie stirpi familiari, gli amici, la realtà sociale in cui si vive e ha vissuto il defunto. Credo che l’assenza di tutto ciò sia uno dei sacrifici relazionali più alti e con le conseguenze più importanti, dove il dolore del distacco per essere affrontato chiede espressione e condivisione, pena il sorgere di meccanismi difensivi di negazione o di senso di colpa. Il dolore del distacco in questo tempo è inoltre amplificato dall’assenza di quel saluto che segna un rito di passaggio, che mette in luce la qualità della riconoscenza che ha caratterizzato la relazione. Quella ritualità che abbiamo espulso dal sociale, dove spesso non c’era più lo spazio per accogliere la salma in casa e darsi il tempo per il saluto, affidandola a luoghi neutri rispetto alla trama familiare domestica, ora ci mette di fronte al peso grave di questa espulsione proprio con l’impossibilità dei riti di condivisione del dolore e di costruzione del ricordo. Il modo “imposto” di affrontare in questo tempo l’ultima transizione, possa farci riflettere sul valore dei riti come azioni di coesione generazionale in passaggi cruciali della vita, per la persona, per il sistema familiare, per la società. Il rito del funerale per molte comunità in Italia è ancora un rito sociale, uno di quei riti che esprimono il legame della famiglia con la comunità. La carica simbolica di questi riti ora ci chiede di essere sviluppata in un altro modo, affinché si riscopra e conservi il dialogo tra i vivi e i morti, tra chi è uscito letteralmente di scena come in questo tempo e chi rimane, magari raggiunto da un’inaspettata investitura generazionale, diventando generazione capofila nella storia familiare, cuore del simbolico familiare.

    E ciò può avvenire proprio mediante  la cura del ricordo all’interno delle famiglie, condividendo tra le generazioni, mediante la multimedialità dei più giovani, la bellezza di una foto che ritrae un’esperienza vissuta o creando un album arricchito dai ricordi di ciascun membro della stirpe familiare, riallacciando così nodi che si erano un po’ allentati e riscoprendo la riconoscenza, spesso eliminata dalle qualità delle nostre relazioni generazionali, protese  spesso in questo nostro tempo alla rottura con le generazioni precedenti e ad inseguire il mito dell’autogenerazione.

    L’accompagnamento nella malattia e nella morte ora venuto forzatamente meno a causa della  contagiosità del COVI19, aprano – speriamo – a riflessioni sulle nostre relazioni familiari e sociali, affinché il ritorno alla normalità sia un riappropriarsi della cura come qualità cruciale dello scambio generazionale, individuandone le modalità familiari e sociali più opportune per condividerne  pesi accuditivi  e dolore del distacco, e tornare a rendere umana, cioè presente,  questa transizione nella vita familiare e sociale.

    Allora anche la pandemia avrà avuto un compito di sviluppo generativo: fermarci a riflettere sulla costruzione o de-costruzione delle nostre relazioni familiari e sociali per rilanciarle nella loro fecondità generatività, come ci ricorda Erikson (1982), tra tenere insieme i pezzi – l’integrità – e aprire alla fiducia e alla speranza.

    Chiara Griffini, Psicologa e Psicoterapeuta familiare, referente diocesana Tutela Minori diocesi di Piacenza-Bobbio

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