Damiano Pro e Marco Notarfonzo, Vita e sofferenza nelle religioni: dialogo con le comunità religiose durante la pandemia.
Riceviamo e pubblichiamo i risultati di una ricerca condotta da Damiano Pro e Marco Notarfonzo, diplomati in Storia delle religioni all’università “La Sapienza”, inviatici dagli autori stessi.
L’obiettivo del focus «Vita e Sofferenza nelle Religioni» è quello di comprendere i temi della vita, della sofferenza e della morte con alcune delle comunità religiose del territorio romano e non, attraverso soprattutto l’ascolto della loro esperienza durante il periodo di pandemia da coronavirus.
Ad oggi è d’obbligo parlare di un forte cambiamento nelle modalità di dialogo religioso da parte delle comunità in questione; un dialogo teso a re-inserire ed accompagnare i fedeli durante il percorso di fede e superare l’eccezionale quanto storico periodo di lockdown.
Le domande che hanno coordinato le interviste riflettono su chi si è curato della comunità dei fedeli e, soprattutto, da dove è stato possibile operare e come. Infine, riflette sulla necessità di vedere un nuovo futuro alle porte della già proclamata fase IV.
E allora, prima di rispondere alla domanda su come ha reagito la comunità religiosa bisogna prestare attenzione a:
- l’appartenenza religiosa, che orienta a determinati comportamenti e spiegazioni spirituali;
- i rapporti che intercorrono tra Stato e Religione, la cui equazione politica ha incrinato determinati accordi giuridici tali da portare sulla tavola distinte questioni di vario interesse;
- l’organismo comunitario che, sempre eterogeneo, abbisogna di specifici interessamenti e risposte spirituali;
- inoltre, il numero di credenti dai quali una dottrina di fede è
I. Il percorso del nuovo coronavirus.
Il 30 gennaio 2020, l’epidemia viene dichiarata un’emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale (PHEIC) dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS); l’11 marzo, a seguito dell’aumento di casi e focolai nel mondo, l’OMS dichiara lo stato di pandemia.
Il 23 febbraio il Consiglio dei ministri emana il DL n. 6, sancendo la chiusura totale dei comuni con focolai attivi. L’Italia, a poco a poco, inizierà a cambiare il proprio colore in una sfumatura di rosso, arancione e giallo.
L’epilogo di questa serie confusa di notizie giungerà con l’estensione del decreto dell’8 marzo su tutto il territorio nazionale, portando ufficialmente l’Italia in stato di lockdown il 10 marzo con il nuovo decreto #iorestoacasa. Tutti gli altri decreti confluiranno in un valzer che vedrà coinvolta ogni struttura della società, fino all’ormai storico DPCM del 16 maggio e l’inizio della fase II dal 18 maggio.
Da qui il nodo del nostro interesse: come si sono comportate le diverse comunità religiose durante il periodo di lockdown?
Sommariamente, ancora una volta i DPCM ci vengono in aiuto, difatti: mentre il decreto del 23 febbraio 2020 sospendeva le manifestazioni o le iniziative di qualsiasi natura in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso; alcuni avevano già da prima proposto una chiusura preventiva anticipata.
I limiti di questo decreto sono stati chiariti sin da subito, come ad esempio la frettolosa assunzione del «religioso» accanto ad altri ambiti come quelli del tipo «sportivo», determinando una drastica mancanza di tatto nei confronti del comportamento sia dell’uno che degli altri caratteri in questione, tra eventi e cerimonie.
Le cerimonie, difatti, verranno sospese inizialmente fino al 3 aprile (successivamente la sospensione verrà prorogata al 18 maggio), con la possibilità di tenere aperti i luoghi di culto e di celebrare sine populo, «in modo quasi segreto, come ai tempi delle persecuzioni» – dice L., fedele cattolico -, oppure privato. A creare altro malumore sarà, inoltre, la questione delle cerimonie funebri che verranno poi consentite a partire dal 4 maggio con massimo 15 persone.
E qui le drammatiche immagini che la storia ha restituito con le numerose salme senza compianto.
Poco prima del 18 maggio, data del decreto che avrebbe concesso di uscire per «motivi di necessità» come il bisogno di nutrire il proprio spirito, celebrando o pregando, la preoccupante domanda da parte delle varie istituzioni era: come riprendere le funzioni religiose?
- Rispettare le norme igienico-sanitarie anti-Covid;
- Mantenere la distanza di sicurezza di almeno 1 metro;
- Non più di 200 persone nei luoghi chiusi e di 1000 in quelli aperti; rischio: l’assembramento.
- Accorgimenti per cerimonie che prevedono un certo tipo di contatto: es. la comunione, lo scambio del segno di Pace.
Questa situazione ha permesso che diverse comunità religiose potessero sedere tutte insieme con i rappresentanti governativi così da creare un coro di decisioni specifiche e responsabili per ognuno. Tra queste, i responsabili della comunità evangelica e di quella ebraica, di quella cattolica e di quelle musulmane e sikh, induiste e buddhiste, testimoni di Geova, Baha’i e mormone. E questo è solo uno dei paradossi della pandemia: quella di dialogare anche con comunità lontane da accordi d’intesa; soprattutto perché, alcune tra loro, contano assieme circa quattro milioni di cittadini sul territorio e quindi una voce obbligata per coordinarsi in vista del calo dei contagi.
II. Dialogo dal basso con le Religioni di Roma.
Con il paragrafo precedente abbiamo cercato di posizionare lo sguardo all’interno delle innumerevoli e talvolta confuse dinamiche che hanno tempestato l’Italia delle religioni, cercando di dare un certo ordine riassuntivo.
Qui, invece, si riporteranno alcune delle testimonianze che sono state raccolte dopo il 18 maggio dalle persone.
L’inizio di queste interviste ha avuto origine a partire da aprile e l’ingresso nel periodo pasquale, fino ad agosto, quando la vita di tutti cercava una forma di normalità. Le modalità d’incontro hanno risposto alle esigenze di ogni intervistato, quindi, tramite incontri online, di persona e via telefono.
Qual è stato il primo pensiero dinanzi all’evento “coronavirus”?
«E mo’? – mi sono chiesto – stavo guardando la Tv durante l’ora di cena, in direttissima come tutta Italia, fino a che il gelo piombò: da lì al giorno successivo avrebbero chiuso tutte le chiese, anzi, avrei dovuto io stesso chiudere la nostra chiesa. Certo, è vero che è piccola e viene frequentata da una decina di veterani, ma mi sono sentito perso, solo. Se non potevo fare più il prete per chissà quanto, chi sarei stato fino alla prossima riapertura?».
- A., sacerdote cattolico
«Ho iniziato a seguire le notizia sin da quando i primi contagi hanno raggiunto la Russia. Quando ci si riferisce a questo Paese si ha in mente solo l’appendice europea, dimenticandosi che questa è in gran parte asiatica. Ma in Italia tutto il suo impatto è stato molto più forte e immagino che in parte sia dovuto alla mancanza di notizie certe da parte di questo paese».
- P., fedele ortodosso russo
«Dal momento in cui tutto quello che era stato programmato è crollato assieme alla chiusura data dal DPCM, è iniziato un periodo di sconforto, specialmente perché le indicazioni tardavano sia da parte delle istituzioni che dall’organizzazione ebraica stessa. Difatti, quest’ultima ci ha invitati a rifarci alle direttive italiane.»
- Comunità ebraica “Moishe House”
«Io sono musulmana – mi sono ripetuta – sono musulmana e Allah mi sta chiedendo qualcosa. Questo è stato il mio primo pensiero. Volevo aiutare in qualche modo, io lavoro da casa, quindi, non è stato un problema vivere il lockdown; il vero problema me lo sono posto domandandomi: posso aiutare solo con le preghiere?».
- H., fedele musulmana
«Il periodo del lockdown è stato affrontato nella sofferenza dall’umanità intera. Ci sono stati comunicati alcuni consigli attraverso il nostro sacerdote, altri sono stati riportati nelle pagine social dall’Head Quarter. Ci invitano a diffondere fede e prudenza, non paura e superficialità. Ogni giorno il reverendo comunicava tramite la sua pagina social la diretta delle funzioni religiose e la lettura dalle scritture, raccomandandoci di seguire le indicazioni della legge nazionale».
- K., fedele pentecostale MFM
«Ci siamo attenuti alle direttive dei vari DPCM. La comunità che vive in Lombardia – come sai bene – ha vissuto dei momenti di profonda drammaticità. Una delle festività principali della nostra comunità è avvenuta alcuni giorni prima della chiusura e dell’allarme rosso – aggiunge – e che fortuna! Dal coprifuoco alla chiusura generale c’è stata una piccola finestra da parte delle istituzioni, che hanno vagato in modo incerto e attraverso la quale abbiamo continuato a celebrare; infine, il lockdown. Durante questo periodo ho continuato a celebrare i riti e a confortare e consigliare i fedeli attraverso spiegazioni e consigli di letture spirituali, proprio in qualità di guida e sacerdote».
- A., sacerdote “Vie di Wodanaz”
In conclusione, questo è solo un piccolo sipario delle realtà religiose intervistate e travolte dal lockdown. Difatti, per i testimoni di Geova, l’Istituto della Soka Gakkai, gli Induisti, le comunità Sikh e i Baha’i, sono valsi gli stessi comportamenti di convivenza sociale tra le persone indetti dai Decreti, condividendo, per altro, sentimenti e accorgimenti non troppo dissimili tra di loro, mossi – dice uno degli intervistati – «dalla stessa responsabilità di proteggere e affrontare la fragilità umana».
III. Nello spazio sacro del tempo sospeso.
Caratterizzante del periodo di lockdown tra le diverse comunità è stato il tema della creatività. Un comportamento, quello creativo, che ha permesso sia di accedere e interagire attraverso canali non convenzionali (come tutto l’apparato streaming e online), sia – e soprattutto – nel proseguire la pratica spirituale in modo sì speculare, ma specialmente concorde alla tradizione teologico-rituale, nei limiti del possibile.
Durante il periodo di lockdown, la maggior parte delle comunità incontrate ha dovuto affrontare e confrontarsi sia con il virus alle porte che con le festività tipiche per ognuno, nell’assenza di quella forte espressione di commensalità comunitaria.
Ad esempio:
- L’Ebraismo ha festeggiato Pesach (la Pasqua ebraica), dove alcuni rabbini – assieme ai giovani della comunità – hanno voluto ricordare l’esperienza dell’Egitto interiore, e la privazione della libertà con il virus, come una simile situazione di schiavitù.
- Anche i Cristianesimi si sono trovati protagonisti del surreale quanto incredibile immaginario «apocalittico» con la preghiera (per i cattolici, ma seguito emotivamente da tutto il mondo delle religioni in dialogo) del pontefice Francesco lungo le scalinate di Pietro per celebrare la Pasqua; una settimana dopo quella ortodossa.
- L’Islam con il periodo di Ramadan in pieno lockdown da aprile a maggio, ma con le moschee chiuse come anche da raccomandazione di una fatwa del 5 marzo.
- Il Buddhismo, invece, l’8 aprile 2020 si è confrontato con la Festa dei fiori (o compleanno del Buddha).
- Tra le altre festività anche quelle civili, per le quali è stata festeggiata la Festa della Liberazione il 25 di aprile, senza cortei, comizi o bandiera tricolore; oppure, quella dei Lavoratori il primo maggio, ed entrambe hanno rimandato alle assenze: la costrizione e il lavoro.
La essenziale caratteristica che accomuna tutti questi differenti modi di vivere è stato quello di riunirsi – eccezionalmente – in un unico luogo di culto e confrontarsi: la casa. Esattamente, proprio uno dei paradossi importanti col virus e dati dall’effetto della sospensione di alcuni diritti, ha fatto sì che il luogo (o non luogo [cfr. Augé, 2018]) divenisse il medesimo, seppure in spazi tra di loro distanti.
Ma ce n’è ancora: in quanto a rendere finalmente teso il filo delle disuguaglianze è stato anche il riconoscimento della stessa condizione di fragilità con la quale sta vivendo l’umanità si è proposta a tutti la condizione dell’esistenza di un corpo malato tra di noi, o dell’intera umanità come corpo malato.
Ma questo corpo e questa malattia, da dove provengono?
Se provengono dal virus allora questo dovrà avere sicuramente una sua origine – umana o sovrumana che sia – ma a questa origine è possibile associare un significato della sua stessa esistenza?
In molte delle comunità che abbiamo preso in considerazione, viene storicamente e teologicamente proposto il senso non solo della propria esistenza in quanto umanità, ma anche di quella delle altre creature, seppure in modi e maniere più o meno collaborative con il percorso spirituale del fedele.
E da qui l’altra domanda che ha accompagnato la ricerca: che cosa è il Covid e come si interpone tra la medicina e la religione?
Il coronavirus SARS-CoV-2 è un ceppo virale responsabile di patologie che vanno dal raffreddore a malattie più gravi, il cui campione è stato tracciato da un paziente colpito da una polmonite nel distretto di Wuhan tra il 2019 e il 2020 e di cui non si conosceva la causa.
Appartenente al mondo animale, del virus non è ancora noto come potrebbe essersi trasferito da ospiti a sangue freddo a ospiti a sangue caldo, gli esseri umani nel particolare.
Tra le ipotesi secondo le quali il virus abbia avuto origine dai pipistrelli (animali non a sangue freddo) e i serpenti e un’incertezza di fondo tra le cause scatenanti sull’adattamento ad un altro tipo di ambiente e le modalità di respingerlo, le religioni si sono fatte avanti per cercare di sbrigliare i vari nodi medico-scientifici verso un’appropriazione tutta umana sul senso della situazione mondiale. In chiave, come sempre, spirituale come anche teologica. Ecco qui alcuni esempi di come gli intervistati hanno tentato di spiegare l’esistenza e la presenza di questa malattia.
- Cristianesimo:
«Non sappiamo che cosa sia questo Covid, però, ciò che possiamo dire è che per conoscerlo bisogna essere medici, ma se Dio sta permettendo tutto questo ci deve essere un senso», dice G., un gesuita, facendo intendere la necessità di affidarsi a Dio.
«È negativo?» – si domanda L., monaco e sacerdote ortodosso dalla Georgia e studioso di uno dei collegi romani confinati con circa 30 positivi – «No», risponde. E continua che «se fosse negativo arriveremmo al dualismo ma Dio è tutto, è unità, e il virus fa parte del creato, di Dio. Sono lontano dal pensare che esso sia un male totale, in quanto è totale l’impatto che la natura ha su di noi se non ci curiamo di lei. Non ho osato interpretarlo come un castigo divino, ma come una sfida verso il centramento dell’umanità».
Invece, A., teologo cattolico, ci confida che «Dio non ha bisogno di mandare malattie per farsi incontrare, non è un sadico che sceglie questa via per incontrare l’uomo. Non è Dio che manda le malattie, ma le malattie sono conseguenza dell’ingresso del peccato nel mondo: la corruzione del corpo è in opposizione all’integrità umana. È meglio dire è arrivata questa malattia nella mia vita e Dio si è manifestato».
- Ebraismo:
Una risposta è stata posta da T., una giurista dell’ebraismo, e dice che «da parte del medico, la cura del malato è una mitzvà indiscutibile (comandamento), tale per cui la vita è il bene principale dell’umanità, e per Dio il malato non può che farsi curare. Eppure noi crediamo che non ci si può salvare da soli ed ecco perché dobbiamo, specialmente in questo periodo, rinsaldare un più forte rapporto con il Dio che Salva. Siamo confinati in casa e da qui è possibile uscire dal proprio egoismo per entrare in contatto con gli altri – anche se non è fisicamente fattibile – e ciò è possibile in quanto questo virus non è solo un messaggio a tutta l’umanità ma personale; e starà a noi decifrare ciò che il Signore ci chiede».
- Islam:
Teologo dell’islam sunnita, M., ci dice che «uno dei temi fondamentali nell’Islam è il corpo umano, dono e responsabilità in quanto bene ricevuto da Allah. Ecco, esso non si può alterare proprio per non ledere la creazione e il dono divino – perciò, ad esempio, non facciamo tatuaggi o piercing e, per questo, alcuni tra noi decidono addirittura di non toccare barba e capelli. La vita, la morte e il corpo così come la malattia appartengono al piano di Dio e non possiamo che sottometterci nella fiducia sia ad Allah che al valore della nostra esistenza».
«La pulizia è parte della fede [Cor 5, 6], cita un passo delle scritture e, per chi crede nell’Islam, cura e pulizia del corpo sono fondamentali» – dice F., una fedele sciita – e aggiunge che «il Profeta, tramite il Corano ci avverte e ci mette in allarme riguardo eventuali epidemie, anche dal punto di vista del cambiamento della propria quotidianità. Ad esempio, se per un male a chiunque fosse impedito di pregare o di partecipare alla jumaat (venerdì), ciò non comporterebbe le ire di Allah e, anzi, Egli direbbe di preservare la nostra vita e quella degli altri. Il virus sicuramente può essere inteso come un periodo di confronto tra noi stessi e Allah».
Infine, riportiamo la risposta da parte della corrente delle vie della tradizione pagana dalle parole del suo sacerdote, già più su citato:
«Il Covid è una delle piaghe che hanno colpito questa terra di mezzo: la vita è un periodo di formazione ed educazione della persona e il Covid è uno degli ostacoli che l’essere umano deve affrontare per crescere. La vita equivale sempre un po’ a morire, questo perché sin dalla nascita sappiamo che siamo destinati a questa conclusione per il corpo; per questo un uomo saggio o una donna saggia non deve temere la morte, perché non avrebbe senso. Conducendo la propria vita secondo questo spirito bisogna vivere in modo pio e la morte non dovrebbe arrecare paura per il proprio destino».
IV. Conclusione: soffrire religiosamente.
Ma è davvero possibile ridurre tutta una sfera dei sentimenti umani all’interno di un manuale etico, pratico e di comportamento verso determinate calamità? No, non è possibile, in quanto da come abbiamo potuto ascoltare il più delle volte la responsabilità e la decisionalità di ogni persona dipende da sé stessa e dal rispetto – alla base – della vita. Quindi, così come per ogni fedele, molti giuristi e studiosi avrebbero adottato un principio, trasgredendone sicuramente un altro per condurre in modo armonico la realtà.
Eppure è proprio qui la contraddizione che è stata sollevata da alcuni studiosi che hanno visto nel rapporto vita-salute-libertà quel paradossale combinarsi di eventi che avrebbe reso protagonista non tanto la negazione della morte, quanto la sua straordinarietà. Tra riti funebri atti ad accompagnare e rispettare la vita umana secondo specifiche tradizioni rituali e il pianto che correda tutto un immaginario memoriale e di condivisione del ricordo d’amore, il virus ha reso incredibilmente marcato il gioco tra la vita e la morte che occupa tutta la sfera dell’esistenza umana, dai credi religiosi agli estremi ossequi civili.
«L’uomo non può allontanare da sé l’idea della morte, in quanto la morte non è un’idea ma una realtà (anzi, una certezza), ciò che l’uomo può e deve fare è vivere con lo scopo di morire e, dietro questo scopo, esistono innumerevoli modi, anche religiosi, che ne hanno fatto un mondo a sé», condivide D., storico delle religioni.
«La morte è ancora un tabù», dice M., monaco buddhista, e «la sofferenza ruota attorno al senso della morte. A tal proposito, non parlare di essa vuol dire evitare un contatto con qualcosa che resta inspiegabile e che allora diventa un divieto».
Aggiunge: «il concetto della morte è entrato sin dentro le nostre ossa attraverso la TV, soprattutto da quel drammatico giorno che ha visto i militari portare via centinaia di salme» – continua – «dobbiamo quindi imparare a convivere con i nostri tabù, primo fra tutti quello della morte, poiché non facendolo si utilizzerebbe un linguaggio che cancellerebbe la realtà».
Così ci siamo fatti dire da queste comunità che cosa è il problema della morte e della sofferenza.
- Ebraismo:
Il tema della sofferenza si può spiegare attraverso il suo contrario, ovvero con la gioia, e questa sofferenza si mostrerebbe all’uomo attraverso differenti casi:
La sofferenza per retribuzione:
Dio ricompensa i buoni in rapporto ai loro meriti e punisce i malvagi in rapporto alle loro colpe (Es. 15, 26) e, attraverso questa retribuzione, Dio è colui che può essere il responsabile della malattia o della salute.
La sofferenza che redime:
Un segno divino, come i castighi attraverso la malattia, volti a purificare l’anima espiando attraverso le sofferenze (Pr 3,12 e Talmud Babilonese, Berakhot 5a).
La sofferenza come mistero:
Quando la sofferenza colpisce anche il “giusto”, come accadde al personaggio biblico Giobbe; Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il Nome del Signore! (Gb 1,21). L’uomo non riesce a spiegare il perché di certe sofferenze, ma esse vengono assunte dall’uomo come una prova, una sfida.
- Cristianesimo:
La sofferenza come essenza dell’umanità:
Nella tradizione cristiana vengono prese a riferimento due scene bibliche: la prima recupera un passo da Genesi 7 dove Adamo ed Eva, dopo aver trasgredito mangiando il frutto dell’albero proibito, conoscono il lavoro (dell’uomo) e la sofferenza (dal parto della donna); la seconda, invece, si propone con la figura di Cristo, il Figlio di Dio, che morendo sulla croce espierà le colpe di tutta l’umanità.
Nella teologia cattolica fondamentale, entrambi i passi si riducono ad un concetto essenziale che riguarda la sofferenza, ovvero come conseguenza delle proprie scelte e come l’essenza più umana possibile, poiché ogni uomo soffre.
- Islam:
Sunniti:
Generalmente la sofferenza viene vista dal fedele come castigo da parte di Allah nei confronti di chi o è fuori dalla fede, oppure lontano dal rispetto di essa. Perciò, rispettivamente, quando il dolore si presenta a coloro che non credono in Allah, esso è segno d’invito alla conversione. Accanto, coloro che non rispettano la vita secondo la fede sono invitati alla prova e alla riflessione.
Sciiti:
La sofferenza come redenzione (es. Festa di Ashura e la pratica della flagellazione) e come espiazione delle colpe e dei peccati per prepararsi alla ricompensa in paradiso.
- Induismo:
Dalla tradizione Upanishad risalente al 700 a.C.: Dal non essere fammi giungere all’essere; dalla tenebra fammi giungere alla luce; dalla morte fammi giungere all’immortalità.
Tutta questione di Karma:
Il Karma rispetta il principio secondo cui ogni persona è artefice del proprio destino attraverso i suoi pensieri, parole ed azioni. L’oggi è il risultato del proprio ieri e il domani è il risultato di ciò che si è seminato durante l’oggi.
La morte e la malattia non vengono viste come di per sé tragiche, bensì come fasi di passaggio da una condizione all’altra e il dolore come possibilità di purificazione per una giusta condotta morale.
- Buddhismo:
Vita e morte come cicli naturali dell’esistenza:
La vita è dolore nella misura in cui la persona è attaccata ad essa e al proprio io. Non c’è via di scampo dalla sofferenza se si tenta di sfuggire ad essa attraverso la via dell’individualità. «La morte non è una tragedia, anzi, essendo anche oltretutto un fatto naturale, è una liberazione, ed è per questo motivo che la persona deve imparare a morire distaccandosi dall’attaccamento», dice V., monaca buddhista.
Il bodhisattva rappresenta questo distacco dalla vita come vera morte e da quel momento esiste solo la pacificazione totale con l’universo.
L’idea del male:
Il male non rispecchia una nozione vicina alla figura di un Dio, ma è un fatto naturale a cui è relativa la condizione della sofferenza, intesa come duḥkha (du = difficile e kha = sopportare), ovvero «difficile da sopportare».
Siamo così giunti al termine di uno spaccato della realtà italiana all’interno delle comunità religiose che, attraverso i loro racconti in lockdown, ci hanno permesso di comprendere non solo che la realtà della sofferenza vive in un mondo che si combina tra l’osservanza spirituale e il comportamento politico, ma anche che questa modalità di vivere religiosamente il quotidiano è retta da una teologia storica e mitica.
Una teologia che ha permesso di osservare, comprendere – talvolta giustificare -, oppure convivere con il dolore, la sofferenza e la morte.