Don Roberto Mozzi, L’impatto dell’emergenza Coronavirus sulla libertà religiosa a San Vittore
Il tema della libertà religiosa in carcere non è facile da trattare per la molteplicità di problematiche in cui si inserisce, in particolare se lo si osserva nell’arco temporale definito dall’emergenza sanitaria ancora in atto, causata dalla pandemia da Covid-19. La presente trattazione si propone di offrire un punto di vista sul tema, circoscrivendo l’osservazione alla Casa Circondariale di Milano San Vittore “F. Di Cataldo”, nel periodo che va da inizio marzo a inizio agosto 2020.
Come è noto, l’insorgenza dell’emergenza sanitaria è stata accompagnata, in molti istituti di pena italiani, da alcuni giorni di rivolta da parte di una minoranza della popolazione detenuta, che è riuscita comunque ad arrecare notevoli danni alle strutture e che ha provocato altresì alcune vittime; anche presso la Casa Circondariale di Milano si sono verificati gravi disordini e danneggiamenti, pur senza registrare vittime. A questi fatti sono seguiti diversi provvedimenti interni, necessari al contenimento delle forme di proteste violente e per prevenirne una possibile replica. Tali provvedimenti restrittivi si sono aggiunti e sovrapposti a quelli già in corso di attuazione a causa dell’emergenza sanitaria, cosicché nei mesi successivi, è stato difficile definire che cosa sia stato motivato dall’una o dall’altra causa. Mentre la pandemia in atto era ancora ben lungi dall’essere superata, per quanto riguarda le proteste violente, quasi tutte le persone che le hanno promosse e messe in atto sono state trasferite dall’istituto nei mesi successivi alle proteste; ciononostante, ancora all’inizio del mese di agosto, la maggior parte delle misure restrittive seguite alla rivolte non erano state attenuate (chiusura di quasi tutte le celle del carcere, ad esclusione delle ore dedicate all’aria; sospensione di quasi tutte le attività trattamentali, ricreative e culturali; sospensione di tutte le attività sportive e chiusura delle palestre; ingresso limitato ad un piccolo numero di volontari; sospensione dell’utilizzo delle sale socialità). A compensazione parziale delle restrizioni attuate e in risposta alle richieste avanzate dalle persone detenute nei giorni di rivolta, sono state allargate le possibilità di telefonare ai familiari e agli avvocati; qualcuno ha potuto usufruire della possibilità di comunicazioni via Skype e WhatsApp.
La descrizione fin qui fatta per sommi capi del quadro complessivo in cui sono stati affrontati questi mesi all’interno dell’istituto, è necessaria per contestualizzare il tema della libertà religiosa, di cui si intende trattare.
Viste le premesse, ci si potrebbe aspettare una forte limitazione dell’elemento religioso durante l’emergenza sanitaria, che certamente c’è stata, ma non in modo omogeneo. Occorre distinguere infatti tra quanto si riferisce all’attività della chiesa cattolica e tutte le altre forme di culto. Per la prima, le limitazioni sono state le stesse che hanno riguardato le attività della chiesa all’esterno dal carcere. Durante il cosiddetto periodo del lockdown non è stato possibile celebrare le messe, né proseguire tutte le attività di gruppo normalmente attuate; tuttavia è stato possibile accedere al carcere non solo ai cappellani (che formalmente fanno parte del personale dell’istituto), ma anche ad altri membri della cappellania (religiose e seminaristi) e svolgere attività di assistenza spirituale individuale. Va detto che la presenza dei cappellani e delle religiose è stata ampiamente e prevalentemente impegnata nell’assistenza materiale alle persone detenute, solitamente svolta da molti altri volontari e associazioni. Non appena le disposizioni di legge hanno permesso la ripresa delle attività religiose collettive, anche all’interno carcere sono riprese la celebrazione delle messe domenicali e, parzialmente, anche altre attività.
Diversamente invece è avvenuto per le altre confessioni cristiane non cattoliche (ad esempio le chiese ortodosse o protestanti) e le altre religioni (ad esempio la religione islamica). Ad esclusione di un ministro di culto appartenete ai Testimoni di Geova, nessun altro ministro di culto ha potuto accedere all’istituto, né è stata possibile alcuna attività religiosa. Il periodo del Ramadan è stato vissuto individualmente dalle persone detenute di religione islamica che hanno scelto di praticarlo, senza possibilità di preghiera collettiva o altra attività specifica.
Se osservata dall’esterno, questa situazione potrebbe apparire come una arbitraria limitazione della libertà di culto e come una disparità di trattamento, o addirittura una vera e propria discriminazione. Senza negare che probabilmente di questo si tratta, è però necessario notare che tale oggettiva disparità non è causata da decisioni prese a seguito dell’emergenza sanitaria, ma è la logica conseguenza di ciò che normalmente avviene all’interno della maggior parte degli istituti penali italiani e, prima ancora, del quadro normativo che inerisce alla libertà religiosa all’interno del carcere.
La normativa che regola l’esercizio della libertà di culto nel carcere, contenuta nel cosiddetto Ordinamento Penitenziario (Legge 26 luglio 1975, n.354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in G.U. Del 9 agosto 1975, suppl. ord.), prevede che la religione non sia da considerare soltanto un diritto individuale, ma possa avere un ruolo rilevante nelle attività trattamentali, ovvero riabilitative. Ciononostante, nella legge citata e nei successivi aggiornamenti, si prevede che solo la chiesa cattolica sia presente in modo strutturato all’interno della stessa istituzione penitenziaria (con la presenza di cappellani assunti dalle amministrazioni penitenziarie e luoghi di culto dedicati), mentre l’accesso di ministri di culto appartenenti ad altre confessioni cristiane o ad altre religioni possa avvenire attraverso complesse procedure. Se questa disparità di trattamento era già evidente nel momento in cui la legge è stata redatta, seppur in un contesto socio-culturale ben diverso dall’attuale, al momento presente non è più sostenibile la sua adeguatezza a normare una realtà sociale caratterizzata dal pluralismo religioso, in uno stato, come quello italiano, che le cui istituzioni si ispirano al principio di laicità.
Lo stato effettivo delle cose è ancor più sbilanciato di quanto il quadro legislativo preveda, poiché la maggior parte delle persone detenute appartenenti a culti diversi da quello cattolico, non sa nemmeno di avere diritto di contattare ministri di culto della propria religione, né ha gli strumenti o le informazioni necessarie per farlo. Nelle poche occasioni in cui questo avviene, i tempi burocratici delle prassi autorizzative e le difficoltà pratiche per realizzare l’incontro tra il ministro di culto e la persona detenuta (come ad esempio la mancanza di uno spazio idoneo deputato al culto) non possono che scoraggiare l’esercizio del diritto al culto, che risulta non solo mortificato nella sua tutela legislativa, ma anche difficilmente praticabile nei fatti. La situazione diviene addirittura paradossale, quando la persona detenuta si trova a doversi riferire al cappellano cattolico per poter accedere alla possibilità di contattare ministri di culto della propria religione.
Una trattazione specifica andrebbe poi riservata alla possibilità di esercitare il culto da parte di persone di religione musulmana e di essere istruite in esso da parte di persone competenti. Dalle informazioni da me raccolte, prima dell’11 settembre 2001, presso la Casa Circondariale di Milano San Vittore, vi era l’accesso regolare di imam selezionati, che svolgevano funzione di assistenza spirituale, istruzione e guida del culto. Successivamente le disposizioni ministeriali sospesero questa possibilità, lasciando fino ad oggi senza orientamento le migliaia di persone detenute di religione musulmana che sono passate per il carcere milanese in quasi vent’anni. Naturalmente le persone detenute si sono sempre organizzate anche senza una guida ufficiale, praticando il culto nelle celle o all’aria, ma nessuno può dare garanzie circa la coerenza religiosa dei messaggi trasmessi o la loro compatibilità con i principi costituzionali, né tantomeno verificare l’idoneità di imam informali tra la popolazione detenuta. C’è da domandarsi per quale motivo una così miope strategia di prevenzione della radicalizzazione religiosa non sia ancora stata formalmente rivista e corretta. In mancanza di segnali in questo senso, è ormai da diversi anni che la Cappellania, in collaborazione con l’Area Pedagogica e la Direzione (che si sono sempre dimostrate sensibili e attive nel lavorare su queste tematiche), promuove confronti e corsi di taglio culturale, rivolti alla popolazione detenuta, sul tema del pluralismo religioso e finalizzati alla conoscenza reciproca di coloro che professano religioni diverse. In questo senso è da menzionare l’iniziativa denominata “Progetto Simurgh”, con la quale una serie di soggetti tra cui il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, l’Università Cattolica e l’Università degli Studi di Milano e varie istituzioni ufficiali appartenenti alle religioni musulmana, ebraica, buddista e cristiana, tra il 2017 e il 2019 hanno promosso in nove istituti di pena lombardi (tra cui la Casa Circondariale di Milano) percorsi formativi al pluralismo religioso, rivolti sia alla popolazione detenuta, che agli operatori penitenziari.
Alla luce di quanto fin qui rappresentato, risulta evidente che l’emergenza sanitaria da Covid-19, obbligando ad una contrazione di tutte le attività intramurarie, ha ridefinito in modo eterogeneo le attività a carattere religioso o cultural-religioso in atto. Per la chiesa cattolica, che usufruisce di personale, spazi e soprattutto, riconoscimento istituzionale, le limitazioni non hanno comportato una compressione della libertà religiosa; c’è stata soltanto, per così dire, una riduzione delle attività. Per tutte le altre realtà religiose diverse da quella cattolica, che partono da una situazione di svantaggio normativo e di presenza minima, le limitazioni si sono trasformate di fatto in totale impedimento a garantire la libertà religiosa e l’esercizio del diritto al culto.
È chiaro che il tema della libertà religiosa nella Casa Circondariale di Milano va ben oltre il singolo istituto e si inserisce nel più ampio panorama penitenziario italiano, presentandosi alle istituzioni (da quelle legislative a quelle responsabili dell’organizzazione degli istituti di pena), con l’urgenza dettata dall’imperativo morale dell’equità e dalla coerenza con il principio della laicità. Ma forse ancor di più, l’urgenza è dettata dall’intelligenza: infatti un’istituzione incapace di leggere la realtà che ha di fronte, presto finisce per essere incapace di governarla. È altresì evidente che, per la posizione che attualmente occupa la chiesa cattolica all’interno del carcere, non potrà essa stessa esimersi dall’essere promotrice – all’interno dei singoli istituti, ma anche presso le istituzioni – di tutto ciò che è necessario perché la libertà religiosa sia realmente garantita a tutti, nei diritti e nei fatti.
Roberto Mozzi (cappellano presso la Casa Circondariale di Milano San Vittore “F. Di Cataldo”)
BIBLIOGRAFIA
Legge 26 luglio 1975, n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in G.U. n. 212 del 9 agosto 1975, suppl. ord..
D.p.r. 30 giugno 2000, n. 230, Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, in G.U. n. 195 del 22 agosto 2000, suppl. ord..
Le statistiche, in continuo aggiornamento, si possono visionare sul sito del Ministero della Giustizia all’indirizzo https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14.page.
Milani D., Il progetto Conoscere e gestire il pluralismo religioso nelle carceri lombarde, in Newsletter OLIR.it – Anno XIV, n. 1/2017 (https://archivio.olir.it/newsletter/archivio/2017_02_09.html),
Milani D., Negri A., Tra libertà di religione e istanze di sicurezza: la prevenzione della radicalizzazione jihadista in fase di esecuzione della pena, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 23, 2018.
Mozzi R., La fede cristiana come risorsa per le persone detenute, in Munera 3/2019, pp. 67-75.