Michele Madonna, Diritto e letteratura ai tempi del Coronavirus: gli ‘occhiali’ dei giuristi e lo sguardo ‘lungo’ dei letterati
“Oh sì, furono giorni infelici, i più felici della mia vita”
(Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, Palermo, 1981)
Prologo
Da diversi anni, il filosofo del diritto Giampaolo Azzoni, a cui rivolgo un pensiero grato per il suo impegno a tutto campo in questo difficile momento come Prorettore dell’Università di Pavia, tiene un bellissimo insegnamento di Diritto e Letteratura nel nostro Dipartimento di Giurisprudenza. Ispirandomi alla sua esperienza anch’io cerco di proporre ogni anno agli studenti dei corsi di Diritto ecclesiastico e Diritto canonico alcune lezioni sui rapporti tra la letteratura e le nostre materie. Il Dossier che Olir sta opportunamente dedicando all’emergenza Coronavirus, nato da una tempestiva intuizione di Daniela MIlani, si è significativamente aperto con un ‘consiglio’ di lettura (José Saramago, Cecità, Lisbona, 1995). Un passaggio del romanzo di Saramago è stato poi richiamato da Anna Gianfreda nella sua lucida analisi dedicata al culto dei defunti in questa drammatica fase (Libertà religiosa e culto dei defunti nell’epoca del Coronavirus). E Vincenzo Pacillo, con la sua consueta capacità di stimolare riflessioni che vanno al di là del ‘contingente’, ha posto in epigrafe al suo contributo sul diritto di libertà religiosa in questo periodo (La sospensione del diritto di libertà religiosa nel tempo della pandemia) dei versi ‘abissali’ di Pier Paolo Pasolini.
Tutto ciò sembra ricordarci, mai come in questo momento, che è l’arte (ad esempio la grande letteratura) ad indicarci la strada, andando al cuore dei problemi e illuminando i fenomeni molto meglio dei nostri ‘occhiali’ di giuristi (espressione cara ad Arturo Carlo Jemolo), pur sempre ‘necessari’, ma talvolta ‘deformanti’.
Profondamente convinto di questo, avverto l’urgenza di porre l’attenzione su alcuni ‘frammenti’ (tra i moltissimi che potrebbero essere proposti) tratti da opere letterarie. L’auspicio è che essi, nella totale ‘arbitrarietà’ della scelta di cui sento la ‘sproporzione’, possano offrire qualche spunto di riflessione e sollecitare quel ‘dialogo’ tra gli ‘antichi’ e i ‘moderni’ che è sempre utile, ma che oggi appare veramente vitale.
Primo quadro
Sono ben note le pagine dello storico greco Tucidide che, nella sua Guerra del Peloponneso, descrive la peste di Atene del V secolo A.C. che uccise migliaia di abitanti di una delle città più importanti del mondo antico. “I medici non riuscivano a fronteggiare questo morbo ignoto ma, anzi, morivano più degli altri, in quanto più degli altri si avvicinavano ai malati, né alcuna tecnica umana veniva loro in soccorso. Per quanto si formulassero suppliche nei templi o si ricorresse agli oracoli e a cose del genere, tutto si rivelò inutile”. Queste sono solo alcune delle annotazioni di Tucidide scritte più di 2400 anni fa, la cui potenza evocativa interpella con forza anche noi. Nel I secolo A.C., anche il poeta latino Lucrezio offrirà un’immagine cruda dello stesso evento nel libro VI del suo De rerum natura. Ma dalla sapienza del mondo classico giunge oggi a noi anche un insegnamento di carattere etico e giuridico di perenne attualità, sempre con le parole di Tucidide: “il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non lo impedisce”.
Secondo quadro
La parte conclusiva di uno dei romanzi ‘fondanti’ della cultura italiana, I promessi sposi (1825-1827) di Alessandro Manzoni (capitoli XXXI-XXXVIII) è dominata dalla peste di Milano del 1630. Sono troppo numerosi gli spunti di riflessione che un giurista può trarne per poterne dare conto sia pure solo in modo sintetico. Del resto la figura di Manzoni ha suscitato l’interesse di grandi maestri delle nostre materie (ad es. Jemolo, Il dramma di Manzoni, Firenze, 1973) ed è stato studiato anche da un punto di vista giuridico (cfr. ad es. S. Cotta, E. Opocher, D. Troisi, Se a minacciare un curato c’è penale. Il diritto ne I promessi sposi, Milano, 1985).
Mi limito qui solo a segnalare le osservazioni manzoniane sulla processione per debellare il flagello (capitolo XXXII) indetta dal pur inizialmente dubbioso Cardinale Federigo Borromeo, evento che diviene in realtà una delle cause dell’aumentare del contagio. Lo scrittore cattolico non si sottrae dal denunciare l’errore di valutazione di una delle grandi figure positive del romanzo, perché il Cardinale, forse anche per una “debolezza di volontà” che è uno dei “misteri del cuore umano”, finisce per cedere alla “forza de’ tempi” e all’“insistenza di molti”. L’attualità di tali considerazioni è dimostrata proprio dai problemi derivanti dalle limitazioni alla libertà di culto in questa fase emergenziale (affrontati su Olir da Vincenzo Pacillo e da Stefano Montesano), e dalle scelte in tale ambito della Chiesa cattolica e di altre confessioni religiose presenti sul territorio nazionale (cfr. ad es. il contributo sulle comunità islamiche di Miriam Abu Salem).
Ma il capolavoro manzoniano pone anche problemi decisamente più ‘alti’ inerenti al rapporto tra la fede, la speranza cristiana, e il male. Qui il richiamo è alla Provvidenza che costituisce il filo conduttore del romanzo: “Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne una più certa e più grande” (capitolo VIII). Peraltro, lo stesso Manzoni offrirà una lettura ben più ‘drammatica’ di tale rapporto nel Natale del 1833, lirica abbozzata quasi di getto sull’onda del dolore causatogli dalla morte della moglie Enrichetta Blondel e rimasta incompiuta. In essa il poeta guarda a Gesù bambino non nella dolce immagine del presepe, ma come a un Dio “terribile”, un “Fanciul severo” che di fronte alle trepidanti preghiere dei suoi fedeli rimane sordo e fa discendere la folgore sugli uomini (“dove tu vuoi ferir”). Eppure, anche nel dramma della Passione vi sarà un “prego inesaudito”, e Maria seguirà il Figlio sul “monte” e lo “vedrà morir” sulla Croce. Forse è proprio quest’ultimo il Manzoni che sentiamo più vicino a noi in questo momento. A lui Mario Pomilio, a conclusione di uno splendido romanzo (Il Natale del 1833, Milano, 1983), mette in bocca queste parole: “Potrà parervi disperante questo Dio disarmato. E invece che cosa c’è, riflettendoci bene, di più consolante che questa solidarietà non di forza e di giustizia, ma di compassione e d’amore? È in verità è questo semplicemente amico mio: la croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno; e il dolore di ciascuno è la croce di Dio”.
Terzo quadro
Nel celebre romanzo di Albert Camus La peste (Parigi, 1947), tra i notevoli spunti di interesse, si delinea un confronto tra due personaggi, il dottor Rieux, medico degli appestati di Orano, con il suo ‘umanesimo’ laico, e Padre Paneloux con la sua visione religiosa della vita e della storia. Entrambe queste impostazioni sembrano in qualche modo ‘necessarie’ nel momento presente. Paneloux afferma che “dobbiamo amare quello che non possiamo capire”, ma Rieux rifiuta di “amare” una “creazione” che contempla la sofferenza dei bambini e degli innocenti. Paneloux osserva che Rieux sta comunque lavorando per la “salvezza dell’uomo”, e il dottore risponde: “La salvezza dell’uomo è un’espressione troppo grande per me. Io non vado così lontano. La sua salute m’interessa, prima di tutto la sua salute”. E il pensiero di chi scrive corre con commozione e gratitudine ai tanti medici e operatori sanitari che oggi con coraggio e abnegazione stanno dando la loro vita per la cura degli ammalati di Covid 19. Ma anche al sacerdote bergamasco che si è sacrificato per benedire i malati fino a quando non è stato messo in quarantena, e agli stessi sanitari che in accordo con la curia di Bergamo impartiscono una benedizione agli infermi che lo desiderano e a chi è in fin di vita. Ambedue i personaggi del romanzo di Camus riconoscono, pur nella diversità delle rispettive posizioni, di impegnarsi insieme per qualcosa che riunisce “al di là delle bestemmie e delle preghiere”. E l’opera raggiunge il suo culmine con la seconda predica di Padre Paneluox, pronunciata dal religioso poco prima di ammalarsi e morire per un “caso dubbio” di peste. Questo è il passaggio decisivo del suo discorso: “Fratelli miei, il momento è venuto. Bisogna tutto credere o tutto negare. E chi mai, tra di voi, oserebbe tutto negare?”.
Quarto quadro
Nel già evocato romanzo di José Saramago Cecità (1995) si legge un passaggio inquietante per un giurista e non solo per un giurista. All’inizio dell’‘epidemia’ si leva il grido di alcuni ‘ciechi’ confinati in un ex manicomio: “Siamo rinchiusi, Moriremo tutti qui, Il diritto non esiste”. Queste parole ci spingono a riflettere sulla necessità della presenza del diritto e delle sue garanzie affinché l’umanità possa restare veramente tale. Certo, come l’esperienza di questi tempi dimostra in modo evidente, l’equilibrio tra sicurezza e libertà, specie negli ordinamenti democratici, è difficile da trovare, e ciò vale anche per il diritto fondamentale di libertà religiosa. Ma tale equilibrio deve essere comunque sempre cercato, per non precipitare nella ‘barbarie’ di un’umanità bestiale e feroce, quale quella che emerge dalle pagine del romanzo del grande scrittore portoghese. L’insegnamento principale che possiamo trarre dall’opera di Saramago sta nell’atteggiamento della “moglie del medico” che riesce a rimanere pienamente ‘umana’ di fronte all’orrore, nel suo difendere la “fragilità della vita giorno per giorno” e nell’indicare la “necessità” per i “vivi” di “risorgere da sé stessi”.
Epilogo
Come ci hanno insegnato, tra gli altri, i grandi maestri delle nostre discipline, il diritto, ora come sempre quanto mai necessario, non può tutto. Allo stesso modo, come ricorda Jemolo, anche la libertà “non può giungere a tutto, non può prendere il posto dell’amore, la forza che nulla riesce a sostituire”, pur soggiungendo significativamente che “l’amore non raggiunge la sua pienezza, non ottiene la sua dignità, non è pianta che si espanda, se non quando è libero” (I problemi pratici della libertà, Milano, 1961).
Concludo queste brevi note nella mia casa di Lodi, uno dei luoghi simbolo del contagio, la città in cui risiedo con la mia famiglia da quasi quindici anni e in cui è nato il mio figlio minore. In questa che è a tutti gli effetti la mia città e la mia terra, come lo sono il natio Abruzzo e la Sicilia di mia moglie dove ci sono molti nostri cari (preoccupati per noi e noi per loro in modi diversi), l’angoscia individuale, familiare, e collettiva è grande. Non mi vergogno di confessare all’inizio di questa epidemia in terra cinese di essere caduto anch’io nella tremenda indifferenza scolpita da alcuni versi di Eugenio Montale: “Se uno muore non importa a nessuno purché sia sconosciuto e lontano” (Fine del 1968). Oggi, di fronte alla terribile realtà che ci circonda, mi sforzo di sentire nel cuore l’ammonimento di John Donne: “La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te” (Meditazione XVII, in Devozioni per occasioni d’emergenza). Ma è troppo facile adesso che il suono delle campane, e delle sirene, si è fatto tremendamente vicino. E la poetessa lodigiana Ada Negri, in alcuni versi che danno il titolo alla sua ultima raccolta di liriche (Il dono, 1936) ad esprimere con forza i comuni sentimenti di questi giorni, in una riflessione sulla vita e su quanto dobbiamo essere grati di essere su questa Terra nonostante tutto: “e forse il dono che puoi darmi, il solo / che valga, o vita è questo sangue: questo/ fluir segreto nelle vene, e battere/ dei polsi, e luce aver dagli occhi; e amarti/ unicamente perché sei la vita”.
Michele Madonna, Università degli Studi di Pavia