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    Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose
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    Roberto Maier, Libertà religiosa e pandemia: tre paradossi invisibili e tre varchi per abitarli. Parte I – Tre paradossi invisibili

    11 Maggio 2020

    Questo lungo articolo, per motivi editoriali, viene pubblicato in due parti separate, sebbene strettamente connesse l’una con l’altra. La prima individua i temi, la seconda cerca dei varchi e delle vie percorribili. Per la natura unitaria del testo, si consiglia la lettura di entrambe le parti, rispettandone l’ordine.

    Ci sono delle questioni, talvolta fondamentali, che la concitazione della polemica rende invisibili. Per questo è opportuno che alle polemiche non si prenda tutti parte e che qualcuno provi a rimanere non solo fuori dall’arena, ma, soprattutto, fuori dalla cornice teorica in cui ogni polemica costringe la realtà. Queste note, per nulla risolutive (e limitatissime rispetto alla vastità di ciò che sollevano), sono solo un tentativo di guardare altrimenti e un invito a pensare meglio. Nella prima parte cercherò di mettere in evidenza tre grandi tensioni rimaste sotto traccia nel dibattito pubblico: la tensione tra il soggetto e la totalità, la tensione tra la libertà e le libertà, la tensione che è il corpo. Nella seconda parte proverò a immaginare altrettante vie possibili per abitarle.

    Soprattutto, queste note vorrebbero ricordare che l’uomo — questa creatura singolare che da sempre abita i luoghi più impensati — può dimorare nei paradossi non risolti e, in essi, essere pienamente uomo. Nel Vangelo di Giovanni il verbo manein (rimanere) ha un’importanza speciale; chi scrive, ritiene che stare nella complessità sia non solamente il grande paradigma dell’epoca, ma soprattutto uno dei contributi più rilevanti che il cristianesimo può ancora portare in dono alla contemporaneità.

    1. Soggetto e totalità: non barattare l’umano con trenta idee luminose

    Una prima questione che spesso finisce per essere invisibile è la profonda rilevanza del soggetto, che è ormai da secoli protagonista del pensiero occidentale e del suo mondo. In molti hanno ribadito che si potrebbero considerare questi mesi di lockdown come un gigantesco esperimento sociale: la prima grande messa alla prova del mondo contemporaneo. La dimensione globale della crisi sanitaria (neppure le guerre del Secolo Breve, pur definite ‘mondiali’ raggiunsero una tale estensione geografica), le misure di distanziamento sociale che hanno interessato le nostre società, il coinvolgimento di tutti i livelli istituzionali (dal piccolo comune agli organismi internazionali) forniranno motivi di riflessione per i prossimi decenni.

    L’osservazione sarebbe inoppugnabile solo a patto di dimenticare l’alto prezzo di vite umane che questo tempo ha comportato. Nessuna riflessione, infatti, è al pari del dramma di vite spezzate, della devastante esperienza di chi non ha potuto dire addio si suoi cari, dell’incertezza che molti uomini e donne sperimentano guardando al futuro. Patrice de la Tour du Pin, in un suo salmo memorabile (1)  prega di essere riconosciuto da Dio, al termine della sua vita, come uno che «non lo ha barattato in cambio di trenta idee luminose». La fine di una singola vita umana comporta una perdita immensa di affetti e relazioni, di esperienza e di realtà: con il soggetto, unico e irripetibile, scompare un intero mondo, il suo infinito mondo. Questo infinito è la ragione per cui il soggetto è irriducibile alla statistica: il totale dei decessi è sempre una somma di infiniti perduti. Il serale macabro rito dei numeri di questi mesi — proprio come il conto delle vittime della guerra in Siria o dei profughi al confine tra Grecia e Turchia, di cui l’Occidente ha elegantemente smesso di parlare — non renderà mai ragione del dramma di chi perde un padre, una madre, un figlio o un compagno di vita. Per il soggetto la somma dei numeri è indifferente perché proprio la negazione della differenza, l’equivalenza, permette di misurare la catastrofe (2). Non è certo un caso che la gravità dell’epidemia sia stata percepita dalla maggior parte dei cittadini solo nel momento in cui ha smesso i panni della totalità e ha iniziato a toccare l’alterità nominata, l’altro che risponde ad un nome, l’altro che ora non può più rispondere. Chi non ha conosciuto da vicino la tragedia, si trova di fronte una realtà fatta di numeri e di percentuali poco eloquenti e sempre comunque discutibili. Da questo punto di vista, egli si trova ad affrontare una limitazione delle libertà che farà sempre fatica a comprendere.

    Non serve obiettare che si tratta di una mera questione psicologica: in questo caso lo psichico ha un ruolo determinante nella gestione della realtà. In una crisi pandemica globale le trame individuali si riprendono la rilevanza che la scienza dei numeri ha loro costantemente sottratto e lo fanno anche da un punto di vista politico. Il ritardo con cui molte nazioni hanno affrontato l’epidemia non dipende forse anche dalla fragilità con cui il reale si presenta alla coscienza quando viene letto in termini statistici? I politici che per alcune settimane hanno parlato con leggerezza di centinaia di migliaia di morti e di immunità di gregge, si sono dovuti arrendere quando il virus ha incominciato a colpire la vita reale dei cittadini. Allora sì, la realtà è diventata reale e i numeri hanno incominciato a significarla.

    Queste osservazioni, persino banali nella loro evidenza, mostrano il paradosso della situazione presente: l’emergenza sanitaria ha di fatto realizzato un regime bio-politico — peraltro ampiamente previsto (3) — proprio appoggiandosi sulla condivisa consapevolezza dell’incommensurabile valore della vita individuale. La stretta tra la cogenza della legge (con la conseguente limitazione delle libertà personali) e la difesa della vita si alimenta, nella post- modernità, ad un sistema simbolico nel quale il soggetto è ancora l’orizzonte ultimo. In un tempo che non conosce più la retorica del bene superiore (la patria, la fede, l’ideologia) si ragiona con le statistiche, ma è la vita del soggetto l’unico bene per cui gli uomini sono disposti a mettere in gioco il presente.
    In questo frangente, riflettere non significa solamente chiedersi cosa abbia e cosa non abbia funzionato, quanto piuttosto come funzioni il mondo contemporaneo. Nell’affrontare l’imprevedibile i sistemi complessi svelano i propri dispositivi in un modo inedito e — sebbene occorra discutere su quanto fosse realmente imprevedibile — la pandemia, cogliendoci di fatto impreparati, ha illuminato in modo nuovo i nostri processi.
    Il pensiero, occorre riconoscerlo, si è messo in moto sin dalle prime settimane, al di là di molta chiacchiera e di una forse inevitabile confusione. È confortante notare la quantità e la qualità delle pubblicazioni scientifiche prodotte in tutti gli ambiti disciplinari, spesso in forma totalmente opensource e quindi all’insegna di una assoluta gratuità: un virus «non ne sa nulla» (4), ma l’uomo contemporaneo risponde, pensando, alla chiamata della realtà. La ricerca medica e le scienze biologiche e microbiologiche si sono concentrate con tutti i mezzi a loro disposizione sullo studio del nuovo virus, condividendo informazioni e ricerche. L’epidemiologia ha usato tutte le sue armi, elaborando dati e strategie. Ma lo stesso hanno fatto tutti gli ambiti del sapere: si studiano scenari economici e politici, si cercano strumenti finanziari, si scrive sulla tenuta delle istituzioni, sull’efficacia dei modelli amministrativi, sulle conseguenze del lockdown sulle diverse fasce della popolazione, si cerca di ricostruire gli equilibri tra la legge e le libertà personali.
    Anche in teologia le circostanze hanno riattivato riflessioni a proposito del dispositivo sacramentale, della realtà ecclesiale, dell’effettiva resilienza dell’azione pastorale. Si è riflettuto, in tutti questi campi, con un coraggio e una spudoratezza che da tempo non si vedevano e con una singolare capacità di pensare al di fuori di schemi ormai consolidati e spesso consunti che sembravano imprigionare le discipline negli ultimi decenni.
    Eppure, se non vogliamo che il prezzo della razionalità sia barattare il valore di una vita con trenta idee luminose, è necessario che il pensiero ricominci a farsi carico della irriducibile tensione tra l’infinito del soggetto e la totalità, onorando un’eredità che il filosofo Emmanuel Lévinas (5), tra gli altri, ma in modo forse più esplicito, ha consegnato all’epoca dell’auspicata fine dei totalitarismi (6). In particolare sarà compito del pensiero rendere ragione della coesistenza di diversi modi ugualmente validi di misurare l’esperienza (la misura della statistica e la misura del soggetto, la misura dell’equivalenza e la misura dell’incommensurabile). Nella sua riflessione su una delle grandi catastrofi della nostra epoca, l’incidente di Fukushima, Jean-Luc Nancy chiede di rispondere all’equivalenza con un principio diverso: quello dell’uguaglianza.

    Esigere l’uguaglianza per domani, significa in primo luogo affermarla oggi, e con il medesimo gesto denunciare l’equivalenza catastrofica. Affermare l’uguaglianza comune, comunemente incommensurabile: un comunismo dell’inequivalenza (7).

    Non si vuole qui mettere in discussione la pertinenza dell’equivalenza statistica o economica: essa rimane un metodo utile per leggere la realtà. Il futuro, tuttavia, porrà sempre più tutti noi, scienziati inclusi8, di fronte a valori impossibili da misurare in modo univoco. È necessario che la società degli uomini sia in grado di sostenere un principio di uguaglianza tra punti di vista molto diversi: quello del cittadino che fa i conti con la propria quotidiana responsabilità e quello dell’epidemiologo che deve studiare i fenomeni sociali, quello di chi ha visto casse di legno ammassate l’una sopra l’altra e quello di chi freme per la ripartenza del mondo.
    C’è, però, un altro compito di cui il pensiero può farsi carico: la ricerca di varchi all’interno di questo paradosso, il tentativo di creare le condizioni e, soprattutto, i luoghi affinché percezioni così differenti della realtà siano attori di un dialogo comune che ci insegni ad abitare l’epoca. È caratteristica originaria del cristianesimo proporsi come uno di questi varchi: la Rivelazione stessa si appoggia su quell’universale concretum che è la vicenda del Figlio di Dio nella carne. Nella sua passione, Gesù al contempo smentisce e conferma la Realpolitik di Caifa, secondo cui «è meglio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca la nazione intera» (9). L’Unico è per tutti, è universale proprio in virtù della sua assoluta singolarità.

    2. Libertà propria e libertà altrui: culto e esistenza simbolica

    Una seconda questione che il presente ci sta ponendo di fronte (e che rischiamo di ignorare) è l’articolazione tra una libertà (quella religiosa, nello specifico) e le libertà dell’uomo. Come è noto, la sospensione delle celebrazioni per motivi sanitari ha acceso discussioni infinite, sebbene non sempre pertinenti, sul tema della libertà religiosa. In alcune occasioni i toni polemici, uscendo dal sottobosco caotico della rete, hanno inaspettatamente raggiunto anche i livelli istituzionali più alti (10).

    Sebbene le prevedibili strumentalizzazioni e lo schieramento delle rispettive tifoserie, come sempre, rendano difficile una riflessione pacata, mi sembra più che mai necessario sfidare il rumore dell’irragionevole e azzardare una ripresa di pensiero. Per sgombrare il campo dalla molta spazzatura ideologica — esercizio che il pensiero ultimamente è purtroppo costretto a fare sempre più spesso — sarà sufficiente notare che alcune tra le voci più pretestuose sono le medesime che in passato hanno invocato la chiusura di spazi religiosi (ovviamente altrui) tifando, in quel caso sì, a favore di una reale ed effettiva limitazione della libertà religiosa. Non solo il concetto di libertà religiosa, ma in generale l’idea di libertà, non si adatta alle pretese di parte: se essa è, come fin dal Rinascimento la intese Pico della Mirandola (11), libertà di essere qualcuno, più che di fare qualcosa, allora la sua tutela prevede il rischio della identità plurali. Le libertà si difendono tutte insieme.

    È evidente che i decreti d’emergenza, vietando gli assembramenti di persone, hanno colpito innumerevoli libertà. Tra tutte spicca il diritto all’istruzione: la chiusura delle scuole e quella dei luoghi di culto sono avvenute pressoché insieme, anche per una certa somiglianza delle condizioni di permanenza in un’aula scolastica e in un aula celebrativa. Le conseguenze della sospensione delle lezioni e del passaggio ad una didattica digitale, soprattutto per alcune fasce di età e per i ragazzi economicamente e culturalmente più svantaggiati, saranno verosimilmente gravissime. Gli Atti degli Apostoli, descrivendo le prime comunità cristiane, ricordano che i credenti erano «assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (12): la celebrazione cristiana non è una realtà solitaria, si accompagna sempre alla complessità della vita, attraverso le forme della carità e della catechesi da cui si alimenta e che essa stessa alimenta. In molti, tra cui la Conferenza Episcopale Italiana, hanno ricordato che la carità trova la sua fonte nella vita sacramentale; ma la regola vale anche al contrario: la celebrazione (fons ma anche culmen dell’esperienza cristiana) è inseparabile dalla carità. Concentrare la discussione su un unico aspetto di questa complessità, per quanto comprensibile, è uno sbaglio. Il lockdown ha mutato in modo così radicale la vita di tutti, che un tempo in cui fosse ripristinato il culto e non gli altri spazi comuni, difficilmente ci restituirebbe una liturgia vivibile. Davvero ci andrebbe bene una realizzazione paradossale del detto «casa e chiesa»? Credo che sia nei confronti di quell’infinito che è la vita che occorra intervenire, difendendo tutto insieme.

    È nella natura stessa della liturgia suggerire questo sguardo: il culto, anche in un tempo di pandemia, esiste in virtù di una continuità simbolica con la vita- che-si-vive. Può essere utile ricordare qualche esempio. Nella cattedrale di Toledo ancora oggi si celebra ogni giorno l’eucarestia in rito mozarabico. Questo antichissimo rito ha attraversato i secoli della caduta dell’Impero Romano e della dominazione araba: è la liturgia di un cristianesimo che è sopravvissuto a lungo come una minoranza mal sopportata e che ha abitato un mondo ostile. Si avvertono immediatamente, assistendo al rito, le frequenze di un percorso tortuoso e agguerrito, di una fede eroica e combattiva. Le grandi epidemie del passato non hanno prodotto rituali stabili, ma ci hanno lasciato — ad esempio — quegli strani affreschi pieni di scheletri in cui la morte prende per mano il nobile e il povero, il vescovo e lo straccione. Le danze macabre sono una forma simbolica indimenticabile nata da un’esperienza molto simile a quella che stiamo vivendo. La messa celebrata di nascosto in un campo di prigionia da un sacerdote perseguitato (che è stata talvolta evocata in questo tempo per affermare la liceità delle celebrazioni solitarie) non è semplicemente una messa sine populo, bensì un atto sacramentale che, nella sua pericolosa clandestinità, porta realmente su di sé le stigmate della contraddizione di un’epoca di persecuzione e di prigionia, di fronte alla quale il sacerdote clandestino rischia di persona per tutti. Questi sparuti esempi ricordano che è un vizio inguaribile di Dio (ma anche del rito cristiano) farsi carico della storia.

    Nella nostra situazione, non credo si debba escludere che l’interruzione momentanea della celebrazione comune (con il conseguente richiamo alla preghiera personale e famigliare e alla concentrazione sulla Parola di Dio) sia di fatto la forma paradossale di una liturgia in tempo di pandemia, non la sua negazione. Paradossale, ma non così tanto, perché non è in gioco solo paura del contagio, ma anche la continuità con tutte le libertà che l’atto sacramentale porta abitualmente su di sé. Come è noto, nel rito ambrosiano la celebrazione dell’eucarestia è sospesa nei venerdì di quaresima (13): si tratta di una scelta della liturgia, non contro la liturgia, che caratterizza i venerdì quaresimali.

    Non pochi sacerdoti hanno di fatto vissuto così in queste settimane: sospendendo la celebrazione dell’eucarestia in assenza di popolo, pur avendone la possibilità, per vivere il medesimo digiuno eucaristico dei loro fedeli. È stata una possibile risposta a ciò che rende così unica la situazione presente: l’impossibilità di isolare singoli destini dagli altri. Ne usciremo solo insieme: il Vangelo insegna che la salvezza, ben prima dell’immunità, è sempre ‘di gregge’. Vi è un ultimo aspetto rilevante: mentre le restrizioni hanno coinvolto tutte le comunità religiose, le proteste, anche le più composte e comprensibili, sono state sempre, di volta in volta, di una parte: non c’è traccia, per quanto mi risulta, di una presa di posizione delle grandi realtà ecumeniche e inter-religiose per contendere contro i governi. Se davvero ci fosse stata una inopportuna limitazione della libertà di culto, avremmo forse visto un fronte ben distinto tra credenti e non credenti, tra uomini religiosi — che vedono calpestato il loro diritto alla dimensione religiosa comunitaria — e uomini laici che sottovalutano o addirittura negano questa dimensione. Invece vi è stata una spontanea convergenza delle grandi religioni, pur con le dovute differenze, nel riadattare la propria vita di preghiera alla situazione presente. Non è solo un gesto di responsabilità, ma anche un evento ecumenico che, se non viene ridotto ad una supina prostrazione alle istituzioni civili, ribadisce una continuità tra esperienza e culto che è propria del fenomeno religioso in quanto tale.

    A fronte di tutto questo, credo che la continuità tra il culto e l’esistenza simbolica complessiva dell’uomo sia un varco importante per abitare il presente: il culto ne esce rafforzato, piuttosto che minacciato. Anche in questo varco, come cercherò di approfondire ulteriormente, il cristianesimo ha le risorse necessarie per rimanere.

    3. Spiritualità e corpo: sbaciucchiare e curarsi

    Una terza questione che rischiamo di non vedere, sebbene sia sotto gli occhi di tutti, è quella del corpo. Molti filosofi dichiaratamente laici sono intervenuti sul tema delle celebrazioni; talvolta, tuttavia, è difficile evitare l’impressione che per molti di loro il cristianesimo sia una interessante ipotesi teorica (14), più che l’esperienza viva di uomini e corpi. Ciò che è più paradossale, tuttavia, è che anche molti interventi di uomini religiosi, sia a sostegno del lockdown, sia in difesa della libertà di culto, parlino della fede con una simile freddezza teorica. Un’ipotesi teorica non è lontana dal reale per mancanza di realismo, ma, molto spesso, per una caparbia distanza dal corpo. In particolare, capita spesso che la teologia più raffinata mostri tutta la sua estraneità da un’esperienza religiosa che include sempre, seppure in misura diversa, forme della devozione (15). La devozione — che come tutte le cose degli uomini (compresa la freddezza razionale) non è priva di ambiguità — è bisogno di toccare, abbracciare, baciare che non può essere liquidato con un’alzata di spalle. Dovrebbe essere assodato, oggi, che pensare l’umano e i suoi misteri significa sempre pensare un corpo.

    È proprio nell’intreccio di corpo e libertà, di necessità di toccare e di pericolo di ammalarsi, di prossimità e di distanza, che la situazione presente mostra i suoi paradossi. Vorremmo toccare ma non possiamo: chi sottovaluta questo bisogno è altrettanto fuori luogo di chi lo pretende come un diritto inderogabile. Per gli uni come per gli altri il soggetto continua ad essere una mente (res cogitans) che trascina con sé lo scomodo fardello del corpo (res extensa). Chi oggi afferma con sicumera di avere tra le mani la soluzione, in un modo o nell’altro sta immolando il corpo alle proprie granitiche evidenze. I difensori del culto a tutti i costi sacrificano il diritto del corpo ad essere sano, chi si accontenta di una fede fatta di parole o di streaming sacrifica il diritto del corpo a toccare, abbracciare o sbaciucchiare. Per gli uni come per gli altri il corpo scompare, con il suo diritto di non essere esposto al male e di poter contemporaneamente abitare il mondo. Se invece di perder tempo a stabilire chi ha ragione cercassimo di custodire la complessa realtà dell’umano, giungeremmo ad un’unica conclusione: che talvolta non vi siano vie d’uscita, che si debba abitare il reale così, nel suo paradosso.

    Una delle espressioni spesso citate, non necessariamente a proposito, nel
    magistero di Papa Francesco è l’invito rivolto ai sacerdoti di essere «pastori con l’odore delle pecore» (16). Sono i corpi ad avere e sentire odori. Ma i corpi sono anche ciò con cui molto spesso i conti non tornano. Il reale, ricorda Jacques Lacan, è ciò che non funziona:

    Ciò che funziona è il mondo.  Il mondo va, gira bene, è la sua funzione di mondo. Per accorgersi che non c’è il mondo, vale a dire che ci sono cose che solo gli imbecilli credono che siano nel mondo, basta notare che ci sono cose che fanno sì che il mondo è immondo, se posso esprimermi così (17)

    Nella distretta paradossale del nostro presente è proprio con il corpo che i conti non tornano, è il corpo ad essere immondo. La vita al tempo della pandemia non è molto differente dall’esperienza personale di chi è malato, di chi si è scoperto tradito dal proprio corpo e non sa più come abitarlo. Siamo tutti malati, sintomatici o asintomatici: fino a che non ci saranno test sierologici (ma anche di questo tema è bene che si occupino altri), questa è la nostra realtà, nonché la ratio delle misure di lockdown. Se non possiamo celebrare insieme non è in virtù di una persecuzione, ma di una malattia che ha colpito il corpo, questo corpo che abbiamo e che siamo, di questo corpo che, se smettesse di funzionare, non saremmo più. Pare che le messe ricominceranno con accorgimenti particolari: mascherine, guanti, distanza, numero chiuso. Ma la ritualità è fatta di volti, di mani intrecciate, di corpi che si nutrono insieme, di immagini da baciare e da toccare, di umori e di unguenti, di sapori e di odori: se ricominceranno così, le messe continueranno ad essere le celebrazioni di un unico grande corpo ammalato.

    Non tornano mai i conti quando i corpi si ammalano; chi l’ha provato sulla sua pelle lo sa bene. Sa che esistono malattie asintomatiche ma mortali e che esistono cure che fanno soffrire ben più del male. In questi casi la rabbia è un sentimento più che comprensibile; talvolta si riversa su chi è alla portata, primi tra tutti i medici. Ma è solo una fase di un percorso più serio: quello del rimanere. Sarebbe con il corpo, con questo caparbio non far tornare i conti del corpo, che bisognerebbe prendersela semmai. Con questo strano e insopportabile vizio del corpo di rallentare i nostri progetti, di andare più piano del cuore e della mente, di rivelare a noi stessi che siamo ciò che non vorremmo essere. E, infine, persino con questo affronto del morire.

    Il cristianesimo, anche in questo caso, avrebbe le risorse necessarie. Gesù ha messo in chiaro da subito di avere a cuore la salvezza del corpo e non semplicemente delle idee. Lo ha messo in chiaro con l’incarnazione: l’infinito di Dio rinchiuso in un tempo e in un luogo. In fondo, la vertiginosa avventura dell’incarnazione deve essere stata per Dio una limitazione ben più grave di quanto non lo sia una quarantena per noi.

    Roberto Maier, Università Cattolica del Sacro Cuore

    roberto.maier@unicatt.it

    _______________________________________________________________

    1 P. De la Tour du Pin, Salmi di tutti i tempi, Glossa, Milano 2015, p. 68.

    2 Cf. J-L. Nancy, L’equivalenza delle catastrofi. Dopo Fukushima, Mimesis, Milano 2016.

    3 Cf. R. Esposito, Immunitas, Einaudi, Milano 2002.

    4 «Quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile, perché l’universo non ne sa nulla». B. Pascal, Pensieri, Einaudi, Torino, 1967, p. 163.

    5 «Il volto dell’essere che si rivela nella guerra si fissa nel concetto di totalità che domina al filosofia occidentale. In essa gli individui sono ridotti ad essere i portatori di forze che li comandano a loro insaputa. Gli individui traggono da questa totalità il loro senso (invisibile al di fuori di questa totalità stessa). L’unicità di ogni presente si sacrifica continuamente ad un futuro che è chiamato a rivelarne il seno oggettivo. Poiché solo il senso ultimo conta, solo l’ultimo atto muta gli esseri in se stessi». E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980, p. 20.

    6 Molte delle questioni che la filosofia e la teologia del Novecento hanno affidato al nostro secolo, per la verità, si scoprono di questi tempi inevase e urgenti. In ambito liturgico, ad esempio, il disaccordo su temi sorprendentemente ancora aperti, pone in questione l’effettiva ricezione del Vaticano II e, più in generale, di quell’epoca sorprendentemente ricca che fu il Novecento teologico. Può essere che questa grande messa alla prova dell’epoca sia l’occasione per venirne un po’ più a capo.

    7 J-L. Nancy, L’Equivalenza delle catastrofi, cit. p. 93.

    8 Cf. S. O. Funtowicz – J. R. Ravetz, The worth of a songbird: ecological economics as a post-normal science in «Ecological economics» 10 (1994), 197-208.

    9 Gv 11, 50.

    10 «I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto», nota della CEI del 26 aprile 2020.

    11 «Non ti creammo né celeste né terreno, né mortale né immortale, in modo tale che tu, quasi volontario e onorario scultore e modellatore di te stesso, possa foggiarti nella forma che preferirai». Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, Ugo Guanda Editore, Varese 2014, p. 11.

    12 At 2, 42.

    13 Il comunicato con cui la Conferenza Episcopale Lombarda annuncia la sospensione delle messe con popolo ne fa esplicita menzione: «Ci aiuta, in questo caso, il rito ambrosiano nel quale in ogni venerdì di quaresima vi è il digiuno eucaristico».

    14 Si pensi, ad esempio, al modo con cui il filosofo francese Jean-Luc Nancy ha operato la sua originale de-costruzione del cristianesimo (J-L Nancy, Decostruzione del cristianesimo vol. 1. La dischiusa, Cronopio, Napoli 2007; Decostruzione del cristianesimo vol. 2. L’adorazione, Cronopio, Napoli 2012) o alla proposta di François Jullien di considerare il cristianesimo come risorsa (F. Jullien, Risorse del cristianesimo, ma senza passare per la via della fede, Ponte alle Grazie, Firenze 2018). In queste opere, talvolta capaci di intuizioni vertiginose, il cristianesimo non è molto diverso da ciò che la cultura classica era per gli uomini del Rinascimento: una religione morta.

    15 «Se ci sono luoghi veicolo di infezioni, questi sono proprio le chiese, perché la gente tocca, bacia, sbaciucchia». A. Maggi, Fede e pandemia 1. Dio è nella parola, non nella messa in streaming, pubblicato sul sito online di Adista (https://www.adista.it/articolo/63345)

    16 Papa Francesco, Omelia nella Messa del Crisma, 28 marzo 2013.

    17 J. Lacan, Dei nomi-del-Padre. Il trionfo della religione, Einaudi, Torino 2006, p. 97.

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