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    Roberto Maier, Streaming eucaristici in tempo di epidemia. Una riflessione in seconda battuta

    29 Marzo 2020

    L’emergenza sanitaria che l’umanità sta vivendo non ha solamente modificato le nostre abitudini e sconvolto equilibri che apparivano consolidati: lo ha fatto gradualmente, come graduale è stata la consapevolezza della gravità della situazione. Mai come in questo momento la conoscenza si mostra come un faticoso processo di presa di consapevolezza, svelando il proprio legame con il tempo. In ragione di questa dimensione, affermazioni che ieri erano sensate e pertinenti diventano oggi imperdonabili; ciò che ieri era da difendere, oggi è da lasciare. Ne approfittano (più o meno consapevolmente) i leoni da tastiera che si indignano, a giorni di distanza, per dichiarazioni che l’incertezza rendeva plausibili solo qualche giorno prima: ciò che resta sulla rete non ha tempo e l’appiattimento cronologico del digitale genera imperdonabili errori di parallasse, che dovrebbero bastare, di per sé, a pregiudicare la credibilità di tante inutili polemiche.

    Vi è anche in questo una lezione da imparare. Abituati a pensare la realtà nelle due dimensioni dello spazio e del tempo, abbiamo finito per dimenticare ciò che le rende differenti. Lo spazio, infatti, è ospitale nei confronti dell’agire, si lascia trasformare e plasmare, è generato esso stesso dai luoghi che l’uomo dispone; il tempo, al contrario, è indisponibile, refrattario ad ogni presa e ineluttabile: non ci appartiene. È in questa prospettiva che vorrei azzardare qualche pensiero sul rapporto tra la ritualità del sacramento e l’uso dei nuovi media, nella consapevolezza dell’inevitabile transitorietà anche dei pensieri che propongo.

    Fin dai primi giorni dell’emergenza, dopo il decreto che, vietando gli assembramenti di persone ha di fatto impedito la liturgia comunitaria, si sono aperti numerosi dibattiti nel mondo cristiano. Superate le prime polemiche circa la necessità o meno di accettare le misure imposte, la maggior parte di essi si concentrano sul nodo ecclesiologico presbitero-popolo di Dio, questione resa ancora più urgente dal dibattito contemporaneo sul sacerdozio e ancor più complessa da indicazioni discordanti. Da un lato, la teologia del Vaticano II ha strenuamente combattuto l’idea che possa esistere una messa privata, dall’altro il diritto canonico (che, peraltro, nel 1917 la proibiva esplicitamente) lascia aperta, dal codice del 1983, la possibilità di una Missa sine populo. Molte cose giuste sono state dette in quest’ambito e mi auguro che la riflessione continui feconda. Non è, tuttavia, su questo che vorrei ragionare.

    In questa situazione si è fatto ricorso da più parti alla trasmissione via streaming di messe celebrate senza assemblea. È accaduto a tutti i livelli ecclesiali e, se non vedo male, in modo piuttosto bipartisan, senza sostanziali differenze tra gli spiriti più progressisti o più conservatori. Peraltro sul web fanno bella mostra di sé — da ben prima dell’emergenza — un buon numero di messe in Vetus Ordo, con persino i relativi tutorial per la celebrazione.

    Se la trasmissione delle celebrazioni a favore di chi è impossibilitato a parteciparvi è prassi consolidata, la situazione attuale è tuttavia inedita: fino ad oggi si era soliti trasmettere eucarestie domenicali — che radunano, dunque, la complessità dell’assemblea — a favore di fedeli malati; oggi si tratta di messe sine populo in cui spesso chi presiede si rivolge ad una webcam. Il gesto testimonia una genuina attenzione dei preti per il popolo di Dio, un tentativo di farsi vicini, di rassicurare gli animi, di portare una testimonianza in ordine alla fede e alla forza del sacramento. Questa vicinanza è resa evidente, se mai ce ne fosse bisogno, dal gran numero di presbiteri contagiati e deceduti nelle ultime settimane nel nostro Paese. Nei confronti di un gesto di vicinanza non credo che vi sia nulla da eccepire: la teologia può serenamente fare un passo indietro, rinunciando al ruolo di censore e lasciando alla prassi ecclesiale la scelta delle forme più adatte ad esprimere la carità e la Pietas cristiane. Tempi di eccezione si abitano con forme eccezionali, non può che essere così: sarebbe ben strano che la Chiesa rimanesse impassibile e imperturbabile in un mondo sconvolto. Il pensiero teologico, tuttavia, non può abdicare ad una riflessione in seconda battuta, forse anche per consolidare ciò che la pratica mette in luce.

    Il sacramento cristiano per eccellenza, l’eucarestia, deve essere pensato nel suo rapporto con l’ordine della temporalità. Essa, nella sua forma di memoriale, è l’accadimento nel tempo presente del sacrificio — inattingibile — del Figlio. Non si tratta, dunque, di rendere presente l’assoluto nella storia, atto che Dio ha compiuto nell’incarnazione. Piuttosto, il sacramento rende presente (realmente presente) un evento che ha avuto luogo in uno spazio (teoricamente ancora raggiungibile) e in un tempo per noi oggi inattingibile. L’inattingibilità della Pasqua non è a carico della sua natura trascendente, bensì della sua natura storica ed evenemenziale. A fronte di questo l’eucarestia — memoriale della passione, croce e risurrezione del Signore — realizza ogni volta in modo reale il medesimo mistero. Lo realizza «in memoria di lui», in una forma radicalmente diversa da una semplice riproposizione in immagine, da un allestimento scenico o da un ricordo affettuoso: sta in questo (nella sua «efficacia») la radice del sacramento. Non a caso la struttura della liturgia non mima gli eventi della passione e resurrezione del Signore: è a tutti gli effetti un atto liturgico, non una drammatizzazione del Vangelo. La drammatizzazione, muovendo gli affetti nella forma della mimesis, ne incarna tutte le virtù e i difetti, in particolare la tentazione di ridurre la distanza tra l’Originale e la sua immagine. È nella confusione con l’Originale, nella pretesa di sostituirlo che l’immagine mostra tutta la sua ambiguità. L’accesso al sacrificio di Cristo che la messa cristiana rende disponibile non è mai dimentico della insopprimibile differenza tra il rito e l’evento. Il sacramento vive della distanza con l’Originale, poiché l’Originale è presente (egli è il Presente del sacramento), agente e operante nell’atto rituale.

    L’efficacia con cui il sacramento (signum efficax Gratiae) realizza la presenza di Cristo, d’altra parte, non si è mai contrapposta alle altre forme (“diversamente efficaci”). La Chiesa non ha mai pensato di dover negare il valore del ricordo affettuoso o della rappresentazione immaginifica del Signore Gesù per rafforzare l’unicità della presenza sacramentale o la sua esclusività. Al contrario, proprio nei luoghi destinati alla celebrazione del sacramento sono fiorite infinite altre forme della memoria: mosaici, affreschi, sculture ma anche musiche, suoni e gesti evocativi. La presenza di Cristo nel suo sacrificio non ha mai inteso annichilire la sua presenza nel cuore, nella mente o nelle parole dei suoi discepoli: piuttosto, ha inteso raccoglierne e testimoniarne l’autenticità. Si potrebbe dire che l’eucarestia, per l’efficacia con cui rende reale la presenza del Sacrificio di Cristo, riassume in sé le infinite forme con cui esso si rende presente nella mente e nel cuore dei credenti, piuttosto che entrare in concorrenza con esse.

    Ciò che la tradizione cristiana non ha cessato di ribadire, piuttosto, è che la presenza del Signore Gesù nel sacramento eucaristico avviene in una forma compiuta. “Compiuta” non allude solamente alla sua perfezione e pienezza, ma anche alla sua finitezza: compiuta perché fatta, finita, puntuale, nell’evento del sacramento. L’accesso alla Pasqua che l’eucarestia attua è un accesso che si compie: esso è ogni volta puntuale, inizia e termina con il rito. In esso il sacrificio del Signore è fatto, “fatto e finito”, irrevocabile come un evento. La permanenza di Cristo nel pane eucaristico conservato nel tabernacolo allude a questo: non si tratta di una prosecuzione che perfeziona l’eucarestia, ma della conseguenza irretrattabile di un evento. In questo si differenzia la presenza reale dalla presenza al pensiero e al discorso: il pensiero è un percorso infinito, vive di successivi incrementi senza mai realizzare realmente la presenza; incrementi di conoscenza possono perfezionare il pensiero, ma non giungono mai a rendere presente il Pensato. Il sacramento, invece, accade nella forma dell’evento che, compiendosi, termina, lasciando le conseguenze del suo accadere. Per questo motivo la forma propria del sacramento è la ripetizione: le parole sono normative (sono sempre le stesse, non possono essere cambiate se non con il consenso ecclesiale), il rito — sebbene abbia delle parti variabili — non muta: l’accesso al mistero è vincolato al risuonare ripetuto delle medesime parole. Esso è simile, potremmo azzardare, al senso dischiuso dall’atto poetico: anche le poesie sono fatte per essere lette e rilette con le medesime parole. A nessuno verrebbe in mente di perfezionare L’infinito di Leopardi, aggiungendo nuovi versi; anche per la poesia il senso si dischiude non in virtù di un incremento del testo o di un suo miglioramento, ma in virtù della sua ripetizione. Ogni volta in modo compiuto, ogni volta in modo finito l’eucarestia attua la presenza del Signore.

    Cosa, di tutto questo, si realizza durante un’eucarestia in  streaming? In modo per nulla esaustivo, vorrei provare a sottolineare tre aspetti.

    (1) L’utente ha la consapevolezza che in sua assenza è stata celebrata un’eucarestia, che il sacrificio del Signore (altrimenti inattingibile) si è reso realmente presente là dove l’eucarestia è stata celebrata. Non sa più di questo, tuttavia: il luogo della celebrazione è irraggiungibile, non a motivo della sua trascendenza, ma a motivo della sua storicità. Il medium che trasporta immagini e voce non è in grado di far fronte all’irraggiungibilità dell’evento proprio perché è una sua riproduzione. Il virtuale si distingue dal reale non perché manchi di forza (al contrario: “virtuale” allude proprio a una vis), ma perché manca della materialità del sacramento, della sua forma di evento. Non è, questo, un buon motivo per negare che lo streaming possa generare una sincera partecipazione della preghiera e del ricordo affettuoso: la presenza reale raccoglie volentieri tutte le altre forme di presenza. Tuttavia questa ospitalità non è rafforzata dal flusso di dati o dalla diretta live: essa non è diversa dall’ospitalità che l’eucarestia offre nei confronti di una preghiera fatta davanti a un crocifisso, ad un’immagine sacra, ad una candela accesa. Credo sia essenziale ribadire questo, non tanto per dissuadere dall’uso delle trasmissioni, ma per collocarle nel loro ambito più proprio. Un meccanismo delicato come quello della fede e della partecipazione al sacramento merita una grande attenzione, l’ambiguità dell’immagine e i rischi dell’atto iconico sono noti fin dall’alba del pensiero: l’immagine ha la forza di un inganno teso a uno che vuole lasciarsi ingannare. Terminata l’emergenza, la sapienza pastorale saprà distinguere i guadagni dalle ambiguità. Personalmente non nascondo il timore che il moltiplicarsi degli streaming, soprattutto per la celebrazione quotidiana, finisca per indebolire non tanto la forza del sacramento, quanto le altre forme più comuni dalla presenza di Cristo nel cuore e nella mente dei suoi discepoli: la preghiera silenziosa, la meditazione della sua Parola, la contemplazione di un’immagine cara. L’attenzione a rafforzare questi luoghi più abituali, meno virtuali ma antropologicamente più originari credo sia un buon suggerimento per la pratica pastorale, anche in questi tempi di emergenza.

    (2) Una seconda questione che merita particolare attenzione è certamente l’assenza dell’assemblea. Non voglio entrare in un dibattito già molto ricco se non con un’osservazione. È evidente che la ripresa streaming di una messa sine populo non rende ragione della raccolta del popolo di Dio attorno all’altare. Al contrario, l’immagine visiva di un presbitero da solo accentua ancor più una figura di sacerdozio che da tempo la Chiesa ha scelto di abbandonare. È vero: vi sono momenti in cui l’uomo spirituale, il pastore, il capo intercede in solitudine davanti a Dio per il bene del popolo; tuttavia non è l’eucarestia il luogo di questa intercessione solitaria. Non a caso i gesti più significativi che vengono da Papa Francesco si muovono nella direzione della preghiera silenziosa e della benedizione: l’immagine del pastore della Chiesa che benedice il mondo non si sovrappone a quella del popolo di Dio radunato attorno all’altare. La forza delle immagini sta nel fatto che esse non sempre ci avvertono di ciò che creano in noi, non sempre rendono conto di sé: ci abitano e ci diventano familiari senza fatica; depositandosi in noi modificano l’immaginario i cui viviamo. Il rischio che la ripetizione quotidiana della messa sine populo finisca per confermare una visione del ministro ordinato come gestore del sacro non è, mi pare, pura fantasia. In questo tempo è bene ricordare sempre — in ogni ambito di una vita così drasticamente cambiata — che le emergenze generano scelte mirate a ripristinare equilibri, ma che quelle scelte, allo stesso tempo, creano altri squilibri. L’emergenza sanitaria ha generato, in ambito legale, una impressionante limitazione delle libertà personali. Questa limitazione è necessaria, ma non se ne possono ignorare le conseguenze e occorre da subito mitigarle il più possibile e immaginare strategie per porvi rimedio, quando l’emergenza terminerà. Lo stesso vale, senza dubbio, per gli squilibri generati nell’immaginario del credente cristiano.

    (3) Vi è un’ultima caratteristica ben nota (ma forse non ancora sufficientemente pensata in questo particolare ambito) che rende il momento digitale diverso da tutti gli altri. Esso rimane nella rete: non si consuma, non ha tempo. Le messe in streaming restano nella rete, possono essere viste e riviste, come tutto il digitale, anche a distanza di anni. Il replay dello streaming, tuttavia, non ha nulla a che fare con la ripetizione rituale. Nel rito, ciò che accade sempre nuovamente è l’evento del sacramento: la sua ripetizione è a carico dell’assemblea che lo celebra, non dell’etere che lo diffonde. Il valore di ogni singola eucarestia è custodito dall’atto della sua ripetizione, che quotidianamente raccoglie un popolo attorno all’altare, attorno ai medesimi gesti e alle medesime parole. In questo senso il sacramento si compie proprio terminando, si compie nella sua mortalità. Ancora una volta la metafora della poetica e dell’arte ci viene in aiuto. Alcuni artisti contemporanei — penso, tra i molti, a Dan Flavin e Alberto Burri — hanno a tal punto riflettuto sulla mortalità dell’opera d’arte da creare opere destinate a consumarsi in tempi brevi. Il sacramento eucaristico, i cui effetti sono conservati nel tabernacolo, è una ripetizione di ciò che avviene ogni volta in modo unico. Molti presbiteri amano una frase suggestiva: «che la tua Messa sia sempre come la prima, come l’ultima e come l’unica». L’apparente perennità del digitale — che è certamente parte fondamentale della sua vis virtuale — è in aperto contrasto con l’unicità dell’evento. Questa unicità è dolorosa, come dolorosa è l’unicità di ogni vita nel momento in cui la si perde. Sostituire ciò che perdiamo con un suo feticcio può essere un passaggio temporaneo per elaborare un lutto, ma non è ancora la sua soluzione. Stare di fronte al fatto che ad alcune perdite non vi è soluzione è ciò che ci rende uomini migliori e migliori credenti. L’unicità del sacramento ci fa soffrire, ma è anche ciò che ci garantisce quella vita che in esso incessantemente cerchiamo.

    Roberto Maier, Università Cattolica del Sacro Cuore

    roberto.maier@unicatt.it

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