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    Roma: Si tenuto a Roma l’incontro su L’inizio e la fine della vita nelle tradizioni culturali e religiose del Mediterraneo. Per OLIR un resoconto di Tiziano Rimoldi (19 maggio 2005)

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    Incontri & Convegni

    Si è svolto a Roma il 19 maggio l’incontro di studio “L’inizio e la fine della vita nelle tradizioni culturali e religiose del Mediterraneo”.

    L’incontro era organizzato, nell’ambito delle attività del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB), dal gruppo di lavoro che all’interno del CNB si occupa della bioetica interculturale, con il contributo della Sezione di Diritto ecclesiastico e canonico dell’Istituto di Diritto internazionale – Università degli Studi di Milano, ed in particolare del prof. Silvio Ferrari.

    L’incontro è stato presieduto dal prof. Francesco D’Agostino, presidente del CNB, mentre gli interventi erano stati affidati al prof. Salvatore Amato (Università di Catania), alla prof.ssa Cinzia Caporale (Università di Siena), al prof. Riccardo Di Segni (Rabbino Capo della Comunità ebraica di Roma) e al prof. Hasan Hanafi (Università del Cairo).

    Il prof. D’Agostino, nell’introdurre i lavori ha sottolineato preliminarmente la consapevolezza della difficoltà, se non addirittura dell’impossibilità, di porsi al di fuori della propria ottica particolare, della propria tradizione, nel momento in cui si affrontano temi come quelli dell’inizio e della fine della vita, che da sempre “hanno costituito il centro della riflessione filosofica e religiosa delle civiltà che si sono affacciate sul Mediterraneo”: sarebbe quindi ormai tramontato il tempo nel quale si poteva ritenere di essere davvero al di sopra delle parti, di offrire un punto di vista obiettivo ed asettico.
    Negli incontri in cui si confrontano diverse tradizioni vi è dunque la necessità di andare al di là del confronto tra prassi, come mero esercizio intellettuale, per recuperare invece la dimensione filosofica e teologica che sta alla base dell’agire: “L’ortoprassi non può fare a meno dell’ortodossia”. L’”eccesso” di pragmatismo rischia di condurre al paventato relativismo e allo scetticismo. Il confronto e il dialogo tra culture e religioni diverse non deve scadere ad “intrattenimento”, ma deve essere vera ricerca dell’altro, così come egli è. Da questo tipo di incontro è possibile partire poi per la “ricerca di sé nell’altro”, nella consapevolezza che “è l’altro, e solo l’altro, che rivela noi a noi stessi”.

    Il prof. Amato ha affrontato il tema del “corpo”, nodo e centro della definizione di “vita”, presentando un breve excursus sull’evoluzione del concetto, a partire dalla cultura greca, per giungere al profilarsi di una linea giurisprudenziale, principalmente statunitense, che giunge ad applicare al corpo umano alcuni concetti e istituti normalmente associati alle commodities, cioè ai prodotti, ai beni, e da cui derivano tutta una serie di problematiche etiche che conducono a nodi apparentemente inestricabili, in contrasti etici difficilmente risolvibili, come il contrasto tra il nothing of death (rifiuto della morte) e la nothingness (assenza della vita).

    Per la prof.ssa Caporale sono gli orientamenti filosofici e spirituali che determinano le aspettative nei confronti della medicina. Non si dovrebbe quindi parlare di “bioetica”, ma la si dovrebbe declinare al plurale, parlando di “bioetiche”. Partendo da questo assunto, diventa decisivo stabilire “quanta omogeneità è necessaria”. Questa ricerca dovrebbe essere condotta anche attraverso una sana “competizione tra le morali”, nella quale il diritto non ha (soltanto) il compito di dettare le norme che devono essere osservate da tutti, ma anche di “scoprire” le regole socialmente accettate. Una legge “laica” non deve assumere una visione etica, anche se maggioritaria, a discapito delle altre. Neppure deve essere un compromesso tra etiche diverse. Dovrebbe invece identificare i principi universali, “costituzionali”, i diritti dell’uomo che preesistono al contratto sociale. L’approccio laico o liberale alla bioetica propone soluzioni umane a problemi umani in tempi umani, ed è quindi certamente anti-dogmatico, ma non anti-religioso o relativista.

    Il rabbino Di Segni ha ricordato preliminarmente la difficoltà di identificare il momento della fine della vita, tenendo conto che la morte è, in definitiva, un processo continuativo che comincia sin dalla nostra nascita, con la morte e la mancata sostituzione di alcune cellule del nostro corpo. Nel passato, normalmente, i “segnali” della vita, respiro, battito cardiaco, attività cerebrale, ecc., terminavano pressoché contemporaneamente, mentre la moderna medicina consente in alcuni casi di prolungare alcuni di questi “segnali” anche in assenza degli altri. Questo pone problemi nuovi, come quello di sapere se una persona il cui cuore batte, ma che non ha attività cerebrale rilevabile, è ancora “viva”. Il mondo giuridico ebraico non ha ancora risolto univocamente questo dilemma, ma si divide grossomodo in due orientamenti. Entrambe le correnti partono però dal principio talmudico per il quale non si può far cessare una vita per salvarne un’altra. Il Gran Rabbinato di Gerusalemme nel 1986 ha stabilito che possa parlarsi di “morte” laddove viene a cessare l’attività cerebrale, consentendo quindi la possibilità dell’espianto di organi da persone irreversibilmente morte cerebralmente, ma il cui cuore è ancora battente. Esiste invece una corrente che considera che in presenza di battito cardiaco si debba ancora parlare di “vita”.
    Quale medico, il rabbino Di Segni ha ricordato quanto sia labile il confine tra “accanimento terapeutico” e cura. Anche in questo campo la sapienza rabbinica ha elaborato l’idea che sia “consentita la rimozione degli impedimenti artificiali alla fine della vita”, di cui però non si danno definizioni astratte, ma che devono essere valutati caso per caso, secondo il costume della riflessione talmudica.
    Per quanto riguarda il “diritto alla vita”, il rabbino ha ricordato come la cultura religiosa ebraica spesso affronta il tema partendo da un comando negativo: “non uccidere”. In caso di contrasto tra la vita “piena” di una madre, e una vita “meno piena” del bambino ancora non nato, deve prevalere la vita manifestata in maniera più piena, cioè quella vita. Si introduce dunque una valutazione tra gli interessi eventualmente configgenti. In questa valutazione, il valore della “vita” extracorporea, cioè dell’embrione fecondato in vitro nella fase pre-impianto, pur dovendo essere trattato con il massimo rispetto, non può essere equiparato al valore attribuito alla vita della madre. Per esemplificare questo concetto, il rabbino Di Segni ha proposto uno esempio nel quale ha accostato la difesa della vita al rispetto del riposo sabbatico, punto centrale della fede ebraica, vero e proprio santuario nel tempo: se, per il pericolo di vita di una madre, o di un bambino nato prematuro, è possibile profanare lo shabbath, intervenendo per prestare le cure necessarie, in caso di guasto al frigorifero che contiene embrioni fecondati in vitro non è consentita la violazione del riposo sabbatico per effettuare la riparazione.
    Facendo riferimento al referendum concernente la fecondazione medicalmente assistita, il rabbino Di Segni ha ricordato come sia prevalente nel mondo ebraico l’orientamento che consente la selezione pre-impianto degli embrioni, almeno per la prevenzione della malattie genetiche più gravi, anche in considerazione dal fatto che esiste nella popolazione di origine ebraica una maggiore incidenza di particolari patologie ereditarie.

    Il prof. Hanafi ha presentato alcune considerazioni critiche dal punto di vista islamico rispetto ad alcuni presupposti filosofici che stanno alla base della moderna bioetica. Il prof. Hanafi ha ricordato come la scienza sia una parte importante di una cultura, e che la scienza segue il destino della cultura che l’ha generata. Se una cultura muore o cambia, cambia o muore anche la scienza che ad essa è collegata. La bioetica, che della scienza è una parte importante, parte dunque da presupposti diversi a seconda che sia vista in ambito occidentale o in ambito islamico. Tuttavia, il prof. Hanafi ha identificato una sorta di decalogo, che partendo da una visione islamica, vuole proporre “avvertimenti” che abbiano un valore di proposta universale, incentrati sull’idea che i “tecnici” non sempre potrebbero essere in grado di prevedere le implicazioni regressive di determinati processi, avendo quindi la necessità di essere affiancati dai filosofi, che “con il loro senso della proporzione e della moderazione, possono avere uno sguardo migliore sull’eternità”. Interessante, tra gli altri, il principio n. 8, che ricorda come “la ingegneria genetica sia un processo costoso, tanto che soltanto i ricchi possono permetterselo”, la bioetica quindi come possibile fonte di ulteriore squilibrio e disuguaglianza tra gli essere umani.

    Al termine delle esposizione, uno spazio è stato dedicato alle domande del pubblico e alla risposta dei relatori.

    (Tiziano Rimoldi)

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