Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 13 Aprile 2005

Sentenza 21 ottobre 2003, n.15753/2003

Cassazione civile, SEZIONE LAVORO, 21 ottobre 2003, n. 15753
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dr. Vincenzo Mileo
Presidente
” Alberto Spanò
Consigliere
” Mario Putaturo Donati Viscido ”
” Francesco Maiorano ”
” Pasquale Picone ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso proposto
da
CONGREGAZIONE DELLE SUORE DOMENICANE DI S. CATERINA DA SIENA
INSEGNANTI ED INFERMIERE, con Casa Madre in Roma, titolare della Casa
di Cura Suore Domenicane di Torino, via Villa della Regina n. 19, in
persona del legale rappresentante pro – tempore, elett. dom. in Roma,
via Ripetta n. 22, presso lo studio dell’avv. Gerardo Vesci che,
unitamente all’avv. Agostino Pacchiana Parravicini, la rappresenta e
difende, per procura notarile del 14 maggio 2001; Rep. n. 16693
RICORRENTE
CONTRO
ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE I.N.P.S., in persona
del legale rappresentante pro – tempore, elett. dom. in Roma, via
della Prezza n. 17 presso l’Avvocatura Centrale, unitamente agli avv.
Antonino Sgroi e Fabio Fonzo che lo rappresentano e difendono, per
procura speciale in calce al controricorso;
CONTRORICORRENTE
per l’annullamento della sentenza del Tribunale di Torino in data
20 maggio 2000, n. 3486 (R.G.N. 683-1994 + 370-1995);
udita, nella pubblica udienza tenutasi il giorno 12-6-2003, la
relazione della causa svolta dal Cons. Dr. Mario Putaturo Donati
Viscido;
uditi gli avv.ti Iside Starace, per delega dell’avv. Vesci, e
Antonio Sgroi;
udito il Pubblico Ministero, nella persona del Sost. Proc. Gen.
Dr. Renato Finocchi Ghersi che ha concluso per il rigetto del
ricorso.
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Fatto
Con ricorso depositato il 22 ottobre 1990 la Congregazione delle Suore Domenicane di S. Caterina da Siena insegnanti ed Infermiere, titolare della Casa di cura Suore Domenicane, proponeva opposizione davanti al Pretore del lavoro di Torino avverso il decreto monitorio emesso dallo stesso giudice con cui le era stato ingiunto il pagamento in favore dell’INPS della somma di lire 556.540.572, di cui lire 206.994.604 per contributi CUAF dovuti per il periodo 1 giugno 1974 – 31 dicembre 1988, lire 309.360.388 per sanzioni civili, ex art. 4, primo comma, lettera A, legge n. 48 del 1988, e lire 40.185.580 per interessi legali ex art. 4, secondo comma, della citata legge, oltre sanzioni, interessi ulteriori sino al saldo e spese.
La opponente eccepiva il decorso della prescrizione decennale e quinquennale per le contribuzioni CUAF, deducendo nel merito che: la Casa di cura Suore Domenicane, con sede in Torino, nei cui confronti era stato emesso il decreto ingiuntivo, era priva di personalità giuridica ed autonomia operativa la quale spettava alla Congregazione delle Suore Domenicane di S. Caterina da Siena che della casa di cura era l’ente proprietario e il gestore diretto; essendo la Congregazione un ente ecclesiastico erogante, senza fini di lucro e tramite la Casa di cura, prestazioni di assistenza sanitaria e sociale, doveva conseguentemente ritenersi insussistente il suo obbligo di iscrizione e contribuzione alla CUAF; in subordine, essendo stato l’INPS ad inquadrare la Congregazione tra gli enti esenti CUAF, non potevano applicarsi sanzioni e interessi sulle contribuzioni maturate nel periodo anteriore alla variazione d’inquadramento, mentre per il periodo successivo, data l’assenza di colpa del l’opponente, sussistevano i presupposti per applicare, in luogo delle sanzioni o in riduzione delle stesse, gli interessi legali al 5%, come previsto dall’art. 53 del RDL n. 1107 del 1935 e dall’art. 8, 1 comma, del DL n. 259 del 1990; l’accoglimento delle pretese dell’Istituto avrebbe fatto venire meno ab origine l’obbligo della Congregazione di accollarsi i trattamenti di famiglia spettanti ai lavoratori ed avrebbe reso indebito il versamento dei contributi pagati sugli stessi facendo acquisire il diritto alla fiscalizzazione degli oneri sociali, ammesso per le aziende industriali e commerciali di cui al richiamato art. 33.
Chiedeva pertanto la revoca del decreto ingiuntivo e, in subordine, la riduzione della pretesa per contributi, sanzioni e accessori nonché, in via riconvenzionale, il rimborso, dal giugno del 1974, dei trattamenti di famiglia erogati ai lavoratori, dei contributi sugli stessi versati e dei trattamenti di fiscalizzazione degli oneri sociali.
Nella resistenza dell’INPS e all’esito di prova per testi, il Pretore, con sentenza non definitiva del 21 gennaio 1992, dichiarava la Congregazione assoggettata alla normativa sugli assegni familiari quale azienda commerciale ex art. 33 legge n. 797 del 1955, relativamente al periodo preso in considerazione dal decreto opposto; dichiarava altresì ammissibile la domanda riconvenzionale proposta disponendo con separata ordinanza in ordine alla prosecuzione del giudizio. Quindi, con una seconda sentenza non definitiva del 26 aprile 1993, dichiarava che: l’opponente aveva diritto alla fiscalizzazione degli oneri sociali relativa agli assegni familiari oggetto della causa, a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 638 del 1983; erano prescritti i crediti dell’INPS anteriori al 1 giugno 1974; non erano dovute le sanzioni amministrative per i contributi omessi, relativi al periodo antecedente il 30 luglio 1979, mentre da tale data erano dovuti interessi legali su questi contributi sino al saldo effettivo; sui contributi omessi per periodi successivi al 30 luglio 1979 andavano calcolate le sanzioni ex art. 4 lett. A della legge n. 48 del 1988; disponeva con separato provvedimento per la prosecuzione ulteriore del giudizio.
Infine il Pretore, depositati i conteggi relativi alle somme dovute sulla base delle statuizioni contenute nelle pronunce parziali, con sentenza definitiva del 13 aprile 1994, revocava il decreto ingiuntivo opposto condannando l’opponente a corrispondere a controparte la somma di lire 881.912.626, oltre accessori di legge.
Avverso le sentenze proponevano gravame distintamente la Congregazione e l’Istituto e il Tribunale di Torino, riuniti i giudizi, con sentenza del 20 maggio 2000, condannava la Congregazione a corrispondere all’INPS la somma di lire 227.201.487, fatta salva l’efficacia sanante del condono in corso.
Osservava, in particolare, il Tribunale che: la Congregazione che aveva la gestione della Casa di cura in Torino era tenuta all’obbligo di iscrizione e contribuzione alla CUAF essendo risultato provato lo svolgimento di un’attività imprenditoriale a fine di lucro, incentrata sull’ospitalità alberghiera e sull’assistenza infermieristica nei confronti della generalità dei cittadini; poiché l’inizio dell’attività esercitata dalla Casa di cura e la stessa variazione d’inquadramento dell’INPS erano anteriori all’entrata in vigore della legge n. 88 del 1989 che, all’art. 49, aveva operato la classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali ed assistenziali, la Congregazione era tenuta al versamento dei contributi alla CUAF con efficacia retroattiva, con il solo limite della prescrizione.
La Congregazione ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito l’INPS con controricorso.
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Diritto
Con il primo motivo, denunciandosi violazione e falsa applicazione degli artt. 33, 34 e 79 DPR n. 797 del 1955, 23 bis DL n. 663 del 1979, convertito nella legge n. 33 del 1980, 7 legge n. 252 del 1974 nonché motivazione carente ed illogica, ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., si censura l’impugnata sentenza perché, in una fattispecie in cui è pacifica la mancanza di separazione, in termini di soggettività e gestionali, tra Congregazione e Casa di cura, ha considerato le stesse separatamente, quindi come due soggetti distinti, senza nemmeno porsi il problema della coerenza della scissione con le normative in materia.
Il Tribunale avrebbe dovuto, invece, rilevare che, nell’art. 33 DPR n. 797 del 1955, 11 termine “azienda” ricorre soltanto per indicare l’attività del datore di lavoro che conserva la sua inscindibilità e che, dall’altro, le normative di cui agli artt. 23 bis DL n. 663 del 1979, convertito nella legge n. 33 del 1980, e la legge n. 252 del 1974 si riferiscono ad enti che istituzionalmente erogano prestazioni sanitarie o di assistenza sociale purché non abbiano fini di lucro. Nè tanto meno ha spiegato le ragioni della considerazione separata della Congregazione rispetto alla Casa di cura. Tanto più che l’esenzione contributiva di cui è causa si colloca in un ambito normativo e specifico onde l’illogicità dello stesso processo logico – giuridico a base del convincimento espresso.
Ai fini dell’inquadramento e dell’imposizione contributiva rileva invece la sola Congregazione la quale va qualificata ex lege come ente morale ecclesiastico anche per i suoi fini istituzionali non lucrativi, bensì religiosi, educativi, socio sanitari assistenziali onde la non riconducibilità della sua attività all’ambito dell’art. 33 DPR n. 797 del 1955.
Il motivo va rigettato perché infondato.
L’esame dell’impugnata sentenza evidenzia nel profilo dell’iter procedimentale tre fasi: una prima, di ricostruzione del quadro normativo di riferimento; una seconda di carattere strettamente interpretativo; un’ultima fase, di identificazione dell’oggetto dell’indagine e di rassegna delle conclusioni raggiunte.
Nella ricognizione della normativa rileva l’art. 33 del T.U. 30 maggio 1955, n. 797, sostituito dall’art. 6 della legge 17 ottobre 1981, n. 1038, che ha previsto per i datori di lavoro l’obbligo di contribuzione alla CUAF “per le aziende esercenti attività di natura commerciale”.
Il successivo art. 79, alla lettera C, ha escluso, invece, tale obbligo per il “personale delle province, dei comuni, delle istituzioni pubbliche di beneficenza e degli altri enti pubblici, vincolato da rapporto di impiego, di ruolo e non di ruolo, compreso quello salariato, il cui trattamento di famiglia sia disciplinato per legge, regolamento o atto amministrativo o che non abbia diritto a tale trattamento per effetto delle limitazioni e condizioni previste dai rispettivi ordinamenti”.
Sempre sulla esclusione dell’obbligo di iscrizione e contribuzione alla CUAF, l’art. 23 bis del DL 30 dicembre 1979, n. 663, convertito con modificazioni nella legge 29 febbraio 1980, n. 33, attraverso il richiamo alle norme previste all’art. 7 della legge 11 giugno 1974, n. 252, ha circoscritto l’esclusione in favore degli “istituti, enti, ospedali e presidi delle Unità sanitarie locali che istituzionalmente erogano prestazione del Servizio sanitario nazionale o di assistenza sociale, anche in regime convenzionale, purché non abbiano fine di lucro ed assicurino un trattamento per carichi di famiglia non inferiore a quello previsto per gli assegni familiari dal DPR 30 maggio 155, n. 797”.
Con riguardo alla seconda fase, il Tribunale sulla base del criterio ermeneutico letterale ha respinto la tesi difensiva dell’applicabilità dell’art. 79, lettera C del TU n. 797 del 1955 – sostenuta dalla difesa della Congregazione sul rilievo della natura morale dell’ente e della equiparabilità legislativamente alle Istituzioni pubbliche di beneficenza e di istruzione – mediante richiamo dei principi affermati dalla giurisprudenza che ha riferito la norma de qua alle istituzioni di assistenza e beneficenza riconosciute come tali con decreto del Capo dello Stato ed agli altri enti pubblici in senso stretto, muniti del potere di emanare norme con efficacia precettiva esterna nonché di adottare provvedimenti di natura autoritativa (Cass., 23 gennaio 1989, n. 381, 13 dicembre 1983, n. 7357).
In tale aspetto il Tribunale ha rilevato che, in base al tenore letterale della legge – che ha posto a carico dei datori di lavoro l’obbligo di iscrizione e contribuzione alla CUAF relativamente alle aziende esercenti attività di natura commerciale – non era necessario stabilire, nella specie, se la Congregazione dovesse essere considerata imprenditrice commerciale e non ente morale, quanto piuttosto indagare sulla rispondenza o meno, a fine di lucro, dell’attività imprenditoriale concretamente svolta presso le singole strutture in cui era articolata l’organizzazione; quindi il Tribunale ha ritenuto che era risultato provato, in base alle dichiarazioni dei testi escussi, lo svolgimento da parte della Casa di cura torinese di ospitalità alberghiera e di assistenza infermieristica nei confronti della generalità dei cittadini mediante struttura all’uopo disposta ed impegno di una forza lavoro di ben 33 dipendenti, oltre a 13 suore, dietro la riscossione di tariffe rispondenti ai prezzi di mercato, in grado di assicurare un apprezzabile utile annuale (un miliardo e mezzo incassato a fronte di costi di gestione di circa un miliardo).
Il giudizio espresso, congruamente motivato ed esente da errori nel profilo logico- giuridico, è come tale incensurabile in questa sede.
D’altro canto, le censure formulate sono prive di decisività in quanto la ricorrente, al fine di assicurarsi l’esonero dall’obbligo della contribuzione alla CUAF, si è limitata a riproporre argomenti di carattere generale sulla natura della Congregazione e sui rapporti con la gestione della Casa di cura, senza involgere i nodi centrali dell’argomentare dell’impugnata sentenza i quali sono fondati sulla interpretazione letterale della normativa specifica. Nè va sottaciuto che la Congregazione -secondo quanto eccepito dal controricorrente (controricorso, pag. 7) – proprio in forza di quella singola attività svolta dalla Casa di cura, che vorrebbe oggi inficiare, ha fruito per il periodo in questione della fiscalizzazione degli oneri sociali in favore di dipendenti.
Con il secondo motivo, denunciandosi in via subordinata violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 8, della legge n. 335 del 1995 nonché carenza di motivazione, ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., si censura l’impugnata sentenza per avere respinto l’eccezione sollevata dalla difesa della Congregazione che aveva sostenuto che l’obbligo contributivo non poteva farsi risalire ad epoca anteriore alla variazione di inquadramento operata dall’INPS (con provvedimento assunto in data 12 maggio 1985 o, in via gradata, il 5 maggio 1982 ovvero ancora, in ulteriore subordine, il 30 giugno 1979), sul rilievo che l’art. 3, comma 8, ex adverso invocato, sancente il divieto di efficacia retroattiva delle riclassificazioni, era inapplicabile alle variazioni di inquadramento anteriori alla legge n. 88 del 1989.
Al contrario, il Tribunale avrebbe dovuto rilevare che sul piano generale, per espressa disposizione dell’art. 3, comma 8, della legge n. 335 del 1995, il menzionato divieto si applica con riferimento a tutte le controversie pendenti all’entrata in vigore di tale normativa (quindi anche a quelle sorte anteriormente) senza alcuna limitazione temporale o di materia, con l’unico limite della sentenza passata in giudicato.
Inoltre già prima dell’emanazione dell’art. 49 della legge n. 88 del 1989 e dell’art. 8, comma 3, legge n. 335 del 1995 le riclassificazioni dell’INPS avevano carattere provvedimentale, atteso che venivano definite quali provvedimenti dalla legislazione anteatta.
Quanto poi al fatto che l’art. 49 legge n. 88 del 1989 abbia stabilito l’efficacia erga omnes delle classificazioni attuate dall’INPS nonché al fatto che l’art. 1, comma 234, della legge n. 662 del 1996 e art. 27, comma 2, DL n. 669 del 1996 e successive modificazioni abbiano posto un limite al periodo transitorio di cui al comma 3 dell’art. 49 legge n. 88 del 1989, non si vede come tali norme, che riguardano diversa materia, possano inficiare la specifica e speciale normativa relativa al divieto di riclassificazioni INPS con effetto retroattivo. Peraltro, alla stregua dei verbali INPS e della nota 30 giugno 1979, la variazione di inquadramento era conseguita al provvedimento d’ordine generale di variare l’inquadramento di tutti gli Enti ecclesiastici o religiosi, sicché in tale caso non poteva dubitarsi della natura provvedimentale degli atti INPS. Doveva perciò trovare applicazione la specifica disposizione introdotta dall’art. 3, comma 8, della legge n. 335 del 1995, secondo cui le variazioni di inquadramento adottate con provvedimenti aventi efficacia generale riguardanti intere categorie di datori di lavoro producono effetti, nel rispetto del principio della non retroattività, dalla data fissata dall’INPS.
In definitiva, nel caso in esame, la variazione di inquadramento non poteva retroagire ai periodi anteriori su indicati, con conseguenti effetti sull’imposizione contributiva.
Il motivo va rigettato perché infondato.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, in materia di classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali, l’art. 3, comma 8, legge 8 agosto 1995, n. 335, secondo cui i provvedimenti adottati dall’INPS, d’ufficio o a domanda degli interessati, di variazione della classificazione dei datori di lavoro producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento o della richiesta dell’interessato (e quando si tratta di provvedimenti aventi efficacia per intere categorie di datori di lavoro, dalla data fissata dall’INPS nel rispetto del principio di non retroattività) – ha efficacia sostanzialmente interpretativa e chiarificatrice dell’art. 49 legge 9 marzo 1989, n. 88 e riconosce la natura di provvedimenti amministrativi in senso tecnico, costitutivi e non meramente ricognitivi, agli atti di classificazione adottati dall’INPS ai sensi dell’articolo citato. La stessa norma interpretativa non si riferisce – nonostante la prevista efficacia anche rispetto ai rapporti per i quali pendano controversie – agli atti relativi al quadro normativo anteriore all’art. 49 della legge n. 88 del 1989, che avevano (con l’eccezione dei decreti ministeriali cosiddetti di aggregazione emanati ai sensi dell’art. 34 del t.u. n. 797 del 1955 sugli assegni familiari) mero carattere ricognitivo, non soggiacevano a particolari formalità e potevano concretizzarsi nella stessa pretesa giudiziale al pagamento di somme maggiori di quelle ricevute (Cass., 4 maggio 2002, n. 6403; 3 marzo 1998, n. 2319).
D’altro canto va ricordato che, in tema di inquadramento delle imprese a fini previdenziali, i criteri di classificazione introdotti dalla legge n. 88 del 1989 non si applicano alle attività iniziate prima dell’entrata in vigore della citata legge, attesa l’ultrattività, nei loro confronti, degli inquadramenti derivanti dalla disciplina previgente, qualunque ne sia la fonte, e anche se il provvedimento relativo a periodo anteriore alla detta data sia intervenuto successivamente; su tali situazioni non ha inciso l’art. 3, comma 8, della legge n. 335 del 1995, posto che tale norma è stata dettata per la disciplina delle riqualificazioni disposte nel regime transitorio dall’INPS e secondo i criteri di cui alla legge n. 88 del 1989, con la conseguenza che da essa restano esclusi tutti i provvedimenti estranei alla nuova classificazione disposti secondo la disciplina ad essa anteriore (Cass., 2 luglio 1997, n. 5928; vedi anche Cass., 9 marzo 1999, n. 2017).
Siffatti principi sono stati applicati dall’impugnata sentenza che ha escluso l’applicazione dell’art. 3, comma 8, della legge n. 335 del 1995 avendo accertato che sia l’inizio dell’attività della Casa di Cura che la variazione di inquadramento operata dall’INPS erano anteriori all’entrata in vigore della legge n. 88 del 1989.
D’altronde, l’atto di modificazione dell’inquadramento emanato dall’istituto nel vigore della normativa anteriore alla legge n. 88 del 1989 non aveva natura provvedimentale per cui non era soggetto al limite dell’irretroattività degli atti amministrativi, nè ai principi disciplinanti gli atti di annullamento d’ufficio di precedenti determinazioni. Conseguentemente la Congregazione, a seguito della variazione disposta dall’Istituto, era tenuta al versamento dei contributi alla CUAF con efficacia retroattiva, con il solo limite della prescrizione.
Anche in questo aspetto il convincimento espresso, congruamente motivato ed esente da errori, è incensurabile in questa sede e, d’altro canto, la ricorrente ha finito col riproporre argomenti già valutati in secondo grado.
Con il terzo motivo, denunciandosi in via ancora più gradata violazione e falsa applicazione degli artt. 53 RDL n. 1827 del 1935, 3 della legge n. 166 del 1991, 1, commi 217-224 e 223 della legge n. 662 del 1996, 116, commi 8-18 della legge n. 388 del 2000 nonché carenza di motivazione, ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., si censura l’impugnata sentenza per avere ritenuto dovute le somme aggiuntive, sanzioni ed interessi ex art. 4 comma 1 lett. A e comma 2 DL n. 536 del 1997 sulle contribuzioni non regolate dal condono, quindi afferenti gli anni dal 1974 al 1982 nonché l’anno 1987, da calcolarsi per il periodo dal 39 luglio 1979 al 22 ottobre 1996, e sino al massimale del 100% dei contributi dovuti, ex art. 1 DL n. 538 del 1986 e art. 1, comma 217 della legge n. 662 del 1992, nulla essendo maturato a tale titolo per i periodi successivi.
Il Tribunale avrebbe dovuto, al contrario, rilevare che la condanna si poneva in contrasto con la decorrenza del nuovo inquadramento, come indicato al secondo motivo, e, dall’altro, sia con l’art. 53 RDL n. 1827 del 1935 che, nelle ipotesi di oggettiva incertezza sull’obbligo contributivo, come nella specie, prevede l’applicazione dei soli interessi legali, sia con le sopravvenute norme di cui all’art. 116, commi 8-18 della legge n. 388 del 2000 i cui punti essenziali consistono nell’abolizione delle sanzioni amministrative (comma 12); nell’applicazione in caso di oggettive incertezze di una sanzione pari agli interessi legali o al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti, con il massimale del 40% dei contributi dovuti (commi 10 e 15); nell’applicazione di una data sanzione in caso di omissione di pagamento dei contributi non costituente evasione (comma 8 lettera a); nella previsione di una sanzione graduata ma con massimale in caso di evasione.
D’altro canto, ai sensi dei commi 16 e 18 le nuove disposizioni si applicano immediatamente ai crediti in essere e accertati successivamente al 30 settembre 2000, quindi alla fattispecie in cui pende il giudizio di accertamento.
Sicché per i crediti accertati al 30 settembre 2000 le sanzioni-somme aggiuntive vanno calcolate secondo la normativa sopravvenuta e ciò al fine di elidere e-o ridurre sanzioni somme aggiuntive interessi ed eventuali accessori o, in subordine, il credito da addurre dai contributi futuri.
Il motivo va accolto nei limiti di seguito enunciati.
Con riguardo al quadro normativo di riferimento, l’impugnata sentenza ha rilevato che la materia delle sanzioni civili e degli interessi legali sul credito contributivo in esame è regolata dall’art. 4, 1 e 2 comma, del DL n. 536 del 1987, convertito con modificazioni nella legge n. 48 del 1988, applicabile, per effetto del successivo comma 6, anche ai contributi o premi relativi a periodi precedenti la data della sua entrata in vigore per i quali, come nella specie, non fosse stato effettuato il pagamento delle somme aggiuntive, nonché, a decorrere dal 23 ottobre 1996, dal DL n. 538 del 1996, i cui effetti, in mancanza di conversione in legge, erano stati fatti salvi dall’art. 1, comma 233, della legge 23 dicembre 1996 n. 662 ed infine, a decorrere dal 1 gennaio 1997, dall’art. 1, commi 217 e ss. della citata legge n. 662 del 1996.
In merito alla decorrenza, il Tribunale ha perciò ritenuto che non erano dovute le somme aggiuntive e gli interessi legali sino al 30 luglio 1979, stante il legittimo affidamento nell’inquadramento operato dall’Istituto che aveva escluso l’obbligo di iscrizione e contribuzione alla CUAF, mentre per il periodo successivo l’INPS aveva portato a conoscenza della debitrice il mutato orientamento richiedendo il pagamento dei contributi dovuti.
Per il periodo successivo e sino al 22 ottobre 1996 erano invece dovute le sanzioni di cui all’art. 4, primo comma, lettera A della legge n. 48 del 1988 e gli interessi di cui al successivo secondo comma. Dall’altro era inapplicabile l’obbligazione attenuata di cui alla successiva lettera B, poiché l’ultima parte di tale norma richiede che il versamento dei contributi (non versati o versati in ritardo a causa di oggettive incertezze connesse a contrastanti orientamenti giurisprudenziali o amministrativi) “sia effettuato entro il termine fissato dagli enti impositori” e non era risultato che fosse stato effettuato tale versamento da parte della Congregazione nel termine di 30 giorni dal ricevimento della nota 12 settembre 1995.
Per il periodo dal 23 ottobre 1996 al saldo l’INPS, in conformità dei conteggi prodotti, aveva escluso che la Congregazione fosse debitrice di somma alcuna per interessi e sanzioni, essendo già stato superato, per somme aggiuntive, il massimale del 100% dell’importo dei contributi non corrisposti previsto dall’art. 1 del DL n. 538 del 1996 e dall’art. 1, comma 217, della legge n. 662 del 1996.
Ora – a parte la genericità delle censure della Congrega z ione, con riflessi sull’interesse alla proposizione della impugnazione – la prima doglianza è subordinata all’accoglimento del precedente motivo in punto decorrenza del nuovo inquadramento per cui è da ritenersi travolta dal rigetto del motivo medesimo.
Per quanto riguarda l’art. 53 del RDL n. 1827 del 1935, convertito con modifiche nella legge n. 1155 del 1936 – abrogato dall’art. 1, comma 225, della legge n. 662 del 1996 – tale norma non disciplinava alcuna ipotesi di oggettiva incertezza sull’obbligo contributivo, ma si limitava a statuire, in caso di tardivo pagamento dei contributi all’AGO, l’obbligo di pagamento da parte del datore di lavoro degli interessi di mora.
Dall’altro, si lamenta l’erronea applicazione della legge n. 662 del 1996 senza che vi sia menzione specifica della disciplina sanzionatoria.
È invece fondata la censura di violazione dell’art. 116, comma 18, della legge n. 388 del 2000 che ha predisposto in materia di sanzioni per il ritardato e l’omesso pagamento di contributi un sistema più favorevole.
Prevede, invero, il detto comma che: “Per i crediti in essere e accertati al 30 settembre 2000 le sanzioni sono dovute nella misura e secondo le modalità fissate dai commi 217, 218, 219, 220, 221, 222, 223 e 224 dell’art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662. Il maggiore importo versato, pari alla differenza fra quanto dovuto ai sensi dei predetti commi del citato art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e quanto calcolato in base all’applicazione dei commi da 8 a 17 del presente articolo, costituisce un credito contributivo nei confronti dell’ente previdenziale che potrà essere posto a conguaglio ratealmente nell’arco di un anno, tenendo conto delle scadenze temporali previste per il pagamento dei contributi e premi assicurativi correnti, secondo modalità operative fissate da ciascun ente previdenziale”.
Nè sussistono dubbi sull’applicabilità della disciplina alla fattispecie in cui pende giudizio di accertamento, avendo questa Corte Suprema affermato il principio che, in materia di sanzioni per il ritardato o l’omesso pagamento di contributi previdenziali, l’art. 116, comma 18, della legge n. 388 del 2000 deve essere interpretato, in base al suo tenore letterale, nel senso che esso prescrive l’applicabilità della nuova disciplina sanzionatoria anche ai casi pregressi accertati al 30 settembre 2000 ma non ancora esauriti. Tale principio si desume invero, non dalla efficacia retroattiva della norma (che è da escludere, oltre che in base all’art. 11 delle preleggi al codice civile, anche per il richiamo esplicito alla normativa sanzionatoria precedente), ma dalla immediata applicabilità di nuove norme più favorevoli sia ai fatti avvenuti e contestati sotto il vigore della nuova legge, sia a tutti i casi non esauriti, ivi compresi quelli per i quali è sorta controversia dinanzi all’autorità giudiziaria, ma ancora non definitivi, con una sentenza passata in giudicato (cfr., Cass., 9 maggio 2002, n. 6680).
Alla stregua delle considerazioni svolte, va accolto il terzo motivo di ricorso, rigettati i primi due, e la sentenza impugnata deve essere cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa ad altro giudice che, uniformandosi ai principi e criteri enunciati, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte, accoglie il terzo motivo di ricorso, rigettati i primi due; cassa, in relazione al motivo accolto, e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Genova.
Roma, 12 giugno 2003