Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 28 Luglio 2006

Sentenza 04 febbraio 1963

Tribunale penale di Roma. Sentenza 4 febbraio 1963:
“Oggetto specifico della tutela penale della religione cattolica dal reato di vilipendio”

Pres. Semeraro – Ect. Testi – Imp. G.

SVOLGIMENTO DEL FATTO.

Il giorno 6 luglio 1961, G. G. ministro di culto della Chiesa di Cristo in Civitavecchia, faceva affiggere in diversi punti della cittadina, in decine e decine di esemplari sei manifesti a lui inviati a quel fine dalla Chiesa di Cristo sede di Livorno.
Ritenuto che alcuni di detti manifesti costituivano vilipendio alla religione cattolica ed altresì offesa alla stessa mediante vilipendio dei suoi ministri, l’autorità di Polizia Giudiziaria di Civitavecchia, raccolte le proteste di alcuni cittadini e del sacerdote D. S., denunciava all’A.G. il G. con rap¬porto n. 06079 Div. I Cat. I, 3 B, del 12 luglio 1961.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma promuoveva pertanto l’azione penale nei confronti di G.G.in ordine ai delitti previsti e puniti dagli artt. 402 e 403 09V. del cod. pen. per rispondere dei quali il medesimo col rito direttissimo veniva tratto a giudizio di questo Tribunale competente per materia e per territorio alla odierna pubblica udienza.
Costituitosi ritualmente il rapporto processuale, il Pubblico Ministero prelimi¬narmente chiedeva, a norma dell’art. 421 cod. proc. pen. che venisse dichiarato non doversi procedere nei confronti del G. per essere i reati a lui ascritti estinti per avvenuta amnistia (art. 1 e seguentt del D.P.R. 24 gennaio1963, n. 5) non ostando nell’applicazione del beneficio i di lui precedenti penali.
Per contro la difesa del Giudici e lo stesso imputato, presente, chiedevano che fosse applicata in ordine ad entrambi i reati, dei quali per altro escludevano anche la legittimità costituzionale, il cpv. dell’articolo 152 cod. proc. pen. emergendo dagli atti evidenti a loro avviso che i fatti addebitati non costituiscono reato.
Al riguardo l’imputato precisava che in sostanza t set manifesti sequestrati da lui effettivamente fatti affiggere in luogo pubblico, altro non riportavano — sia pur succintamente, ma fedelmente — se non alcuni brani tratti dal testo del Vecchio e Nuovo Testamento e tratti teologici dei Padri della Chiesa e, ancora che il commento ad essi apposto doveva considerarsi pertinente e non vilipendioso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Senza alcun dubbio, ad avviso del Collegio, il contenuto di almeno quattro dei manifesti a stampa fatti affiggere in più esemplari dal Giudici in luogo pubblico nella città di Civitavecchia, è vilipendioso della religione cattolica e due hanno altresì contenuto offensivo di quella religione, mediante vilipendio dei suoi ministri.
Devesi pertanto escludere sul caso di specie l’applicazione del cpv. dell’art 152 cod. proc. pen. Innanzi tutto ritiene il Collegio di dover dichiarare manifestamente infondata, uniformandosi all’insegnamento della Corte dì Cassazione (Sez. III, 6 giugno 1961, P.M. c. Cretarolo) l’eccezione di illegittimità costituzionale degli artt. 402 e 403 del cod. pen., sollevata preliminarmente dalla difesa, alla luce altresì di quanto già ampiamente dichiarato al riguardo della Corte Costituzionale con la sentenza n. 125 del 28 novembre 1957 con particolare riferimento all’art. 404 cod. pen. (Offesa alla religione dello Stato mediante vilipendio di cose).
Occorre precisare che il criterio informatore dell’art. 402 del cod. pen. Del 1930, come degli altri articoli compresi nello stesso capo primo (“delitti contro la religione dello Stato ed i culti ammessi”) del titolo III («dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti») dei libro II dello stesso Codice, è diverso da quello a suo tempo adottato sulla stessa materia dal cod. pen. del 1889.
Questo mirava intatti a proteggere direttamente non tanto la religione in sé considerata, quanto la libertà religiosa individuale, si che le relative nozioni penali erano collocate sotto il titolo dei “Delitti contro la libertà”: per contro il legislatore del 1930 con le norme sopra precisate, ha inteso elevare ad oggetto specifico della tutela penale il sentimento religioso.
E ciò, come si sottolinea nella Relazione Ministeriale, in considerazione dell’importanza dell’idea religiosa che trascende l’esercizio di un diritto individuale, per costituire uno dei valori morali e sociali attinenti all’interesse oltre che del singolo, della collettività.
Il che spiega perchè i delitti contro il sèntimento religioso sono stati considerati dal legislatore come offesa dì un sentimento collettivo.
Va inoltre rimarcato che mentre il Codice del 1889 coerentemente al principio della riconosciuta eguaglianza dei diritti individuali, che mirava a proteggere come manifestazione di libertà religiosa, stabiliva le stesse pene per le offese alla libertà di tutti i culti, il Codice del 1930, assunto a soggetto autonomo di tutela penale l’idea religiosa in se e quindi il suo alto valore sociale, ha indubbiamente posto la religione cattolica (come già erasi stabilito nel Codice Sardo Italiano, in una situazione diversa da quella di altre confessioni religiose.
Infatti con gli articoli 402 C segg. si e stabilita, in favore della religione cattolica, una tutela penale differente da quella disposta nel successivo articolo 406 in relazione ai culti ammessi (a «tollerati » come si leggeva nel codice Sardo del 1859) nello Stato.
Questa particolare obiettiva situazione in cui legislativamente è stata collocata la religione cattolica, rispetto alle altre confessioni, che ben può spiegarsi col fatto della rilevanza storico-sociale che ha avuto ed ha la Chiesa cattolica in ragione dell’antica tradizione religiose del popolo italiano (il quale nella sua quasi totalità ad essa appartiene), trova il suo fondamento giuridico, in conseguenza della composizione del dissidio pluridecennale già insorto tra la Chiesa e lo Stato e della risoluzione della cosiddetta questione Romana, nei Patti Lateranensi (Trattato e Concordato dell’11 febbraio 1929).
Con essi appunto si è data attuazione ad un sistema di diversa tutela penale della religione cattolica rispetto agli altri culti, sistema recepito dal Codice Penale. Va escluso però che esso sia in contrasto coi dettami della Costituzione, con particolare riferimento agli artt. 7, 8, 19; la sollevata eccezione di incostituzionalità, deve essere quindi disattesa essendo manifestamente infondata.
E’ da notare preliminarmente che nessun contrasto può rilevarsi tra i citati artt. 7 e 8, giacché mentre il primo non fa che richiamare i Patti Lateranensi come fonte regolatrice dei rapporti tra Stato e confessioni religiose diverse dalla cattolica, rapporti che, come si è visto e meglio si dirà, non si identificano con i precedenti, tanto da ricevere una diversa regolamentazione. Che poi non sussistono incompatibilità di ordine sostanziale e contestuale tra le norme incriminatrici di cui agli artt. 402 e 403 cod. pen. e il principio della eguale libertà delle varie religioni, sancito nel primo comma dell’art. 8, secondo cui “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”) devesi fondatamente ritenere, perchè le norme penali citate (come le altre che riflettono la religione cattolica) non contengono limitazioni al libero esercizio (lei culti e alla libertà in genere delle varie confessioni religiose, né limitano o tendono a limitare la condizione giuridica di chi professi un culto diverso dal cattolico.
Tale condizione permane inalterata nella sua pienezza, pariteticamente a quella di chi professa il culto cattolico secondo quanto appunto dispone l’art. 19 della Costituzione.
Vero è dunque che la Costituzione garantisce per tutte le confessioni religiose (quella cattolica compresa) un regime di pari libertà; da ciò però non deriva, come da qualcuno sostenuto, che sia stato riconosciuto alle diverse confessioni religiose rispetto a quella cattolica, un regime dì parità, proprio avuto riguardo al contenuto delle norme costituzionali che regolano la materia.
Gli artt. 7 e 8 citati, rispettivamente per quanto concerne la religione cattolica o le altre confessioni religiose contengono infatti disposizioni esplicite che lungi dallo stabilire la parità ne differenziano invece la situazione giuridica. Ed invero, mentre il secondo comma dell’articolo 8 detta che le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastano con l’ordinamento giuridico italiano, il primo comma dell’art. 7 dichiara che lo “Stato e la Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani”.
Inoltre, mentre l’art. 7 comma secondo, dispone che i rapporti con la Chiesa Cattolica sono regolati dai Patti Lateranensi e che (“le modificazioni dei Patti accet¬tate dalle due parti non richiedono procedimento di revisione costituzionale” il terzo comma dell’art. 8 stabilisce che i rapporti dello Stato con le altre confessioni religiose sono regolati per legge sulla base di intese con le rispettive rappresentanze. Dovendosi dunque escludere che il sistema di diversa tutela penale della religione cattolica rispetto agli altri punti, così come è stato adottato dal Codice penale del 1930, sia contrario ai principi dell’ordinamento Costituzionale successivamente instaurato, osserva il Collegio, passando al merito della fattispecie, che sussistono gli estremi costitutivi dei delitti contestati, sia sotto il profilo dell’elemento materiale che sotto quello dell’elemento soggettivo.
Per quanto concerne l’espressione a Religione dello Stato » di cui e menzione nel titolo e nel testo delle norme in esame, non sarà inutile innanzi tutto notare che essa era contenuta nell’art. 1 dello Statuto Albertino, in cui era scritto che la “religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato”, come quella che è professata dalla quasi totalità degli Italiani. Tale constatazione, implicitamente abrogata dal Codice Penale del 1889 e da altre leggi, è stata ripristinata dall’art. 1 del trattato politico con la Santa Sede dell’11 febbraio 1929, con legge 27 maggio n. 810 (“L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’art. 1 dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, pei quale la religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato”).
Il Concordato con la Santa Sede, poi, contiene disposizioni che applicano que¬sto principio, regolando appunto i rap¬porti tra Stato e Chiesa.
Ora siffatta obiettiva situazione non e stata come si è visto modificata dall’avvento della Repubblica; anzi in forza dell’art. 7 non può disconoscersi a tale regolamento il carattere costituzionale. Con¬segue che la religione cattolica deve ritenersi una istituzione costituzionale dello Stato.
Ciò precisato, rileva il Collegio che il titolo delittuoso preveduto dall’ari. 402 cod. pen. ha carattere generico rispetto a quello specifico rispettivamente contemplato negli artt. 403, 404 405 cod. pen.
Oggetto specifico della tutela penale, in ordine a tutti i reati previsti con tali norme, è il pubblico interesse di proteggere la religione cattolica apostolica romana, quale istituzione appunto dello Stato, considerato io se stessa, nelle sue credenze fondamentali, indipendentemente dalle sue manifestazioni esteriori, diversamente da quanto è stabilito, come si e visto per i culti ammessi dallo Stato.
Più particolarmente va rilevato che il tatto costitutivo del delitto di cui all’articolo 402 cod. pen. consiste nel vilipendere pubblicamente la religione dello Stato; tale fatto concreta dunque l’oggetto materiale dell’incriminazione.
Ora, comunemente per vilipendere va intesa l’offesa grossolana e volgare che, esprimendosi con atti o con parole. assume il carattere della derisione, dei disprezzo. dei dileggio, si clic l’agente dimostri di tenere a vile l’istituzione della legge. Per quanto segnatamente concerne la norma io esame, il vilipendio deve essere diretto contro le credenze fondamentali della religione come è l’idea di Dio, e come in genere i dogmi della Chiesa, i suoi Sacramenti e i suoi riti (Cass.. Sez. III, 6 giugno 1961 cit.); ed esso sussiste, non soltanto quando l’offesa investa tutta la materia che forma oggetto della fede cattolica, ma altresì quando ne siano investiti uno o più punti (Cass., Sez. II, 20 ottobre 1959, P.M. c. Caronte).
Nella presente fattispecie è agevole rilevare che i manifesti incriminati hanno un contenuto vilipendioso della religione cattolica.
Invero, riportandosi brani isolati (le chiare e ortodosse affermazioni di fede degli Apostoli, di Evangelisti e di illustri Padri della Chiesa, in tale guisa che il loro genuino significato possa facilmente essere frainteso, con i manifesti incriminati si è voluto determinate chi legge a non dare assolutamente credito alla Chiesa Cattolica, che avrebbe creato una religione del tutto estranea al vero Cristianesimo avendone tradito lo spirito e l’essenza, così motivatamente insinuando tra l’altro nell’animo dei lettori e quindi anche dei fedeli, la certezza o quando me no il sospetto che molti sacramenti — tra cui quello della confessione — sarebbero stati arbitrariamente inventati dalle gerarchie ecclesiastiche cattoliche.
Neppure si è esitato, a mezzo di quei manifesti a negare apoditticamente l’infallibilità del Pontefice, a negare che egli rappresenti Cristo sulla terra e infine a negare che la Chiesa sta stata data da Gesù.
È agevole concludere che con i manifesti di cui sopra si sono intaccate le fondamenta di tali istituzioni della Chiesa, i suoi riti, i suoi dogmi, le sue gerarchie.
Ora a prescindere dall’esattezza davvero discutibile di taluni giudizi e richiami storico—dogmatici, che non interessa approfondire io questa sede, è chiaro che l’imputato. mediante i manifesti a stampa da lui diffusi in pubblico, ha schernito, deriso, dileggiato la religione dello Stato attribuendo attività, azioni, caratteri a lei del tutto estranei, al solo fine di screditarla nella sua autorità e nel suo prestigio.
Non vale obiettare che l’imputato in sostanza, più che la religione cattolica ha voluto aggredire le sue gerarchie che avrebbero tradito il Cristianesimo, tralignando dal retto sentiero delta verità e della virtù quale soltanto da Cristo era stato indicato e tracciato.
Invero non a può farsi distinzione tra fede e dottrina teologica e morale da un lato, e culto e organizzazione ecclesia¬stica dall’altro, perchè una e l’altra ma¬teria formano oggetto della fede (Cass., Sez. II, 20 ottobre 1959, cit.).
Certamente anche a proposito della religione cattolica è consentito nel nostro ordinamento giuridico la libera discussione e quindi la critica (naturale filiazione del diritto di opinione) e la censura e il biasimo, anche se aspri vivaci. La discussione in materia religiosa, infatti, è stata riconosciuta pienamente libera (art. 5 legge 24 giugno 1929, n. 1159), sul presupposto appunto della piena libertà di culto (art.1 cpv. legge citata) e quindi nella piena libertà di coscienza.
Ma quando, come nel caso di specie si sia manifestato un chiaro atteggiamento di disprezzo verso la religione cattolica disconoscendosi all’istituzione o alle sue essenziali componenti, attraverso un giudizio tanto grave e feroce, quanto immotivato, gratuito e superficiale, le ragioni di valore e di pregio ad essa invece riconosciute nel corso dei secoli dalla comunità, deve ritenersi realizzata la condotta tipica prescritta dall’art. 402 cod. penale.
Se l’imputato avesse inteso soltanto esprimere un giudizio critico nei confronti della religione cattolico e formulato e suggerire e formulare innovazioni o riforme, il che per altro richiede adeguata conoscenza dei problemi e idonea preparazione, non avrebbe dovuto ridursi a trinciato, mediante i manifesti incriminati sin¬tetici gratuiti giudizi di disvalore o di dispregio verso le sue fondamentali istituzioni, al solo fine di ingannare il lettore ignorante e sprovveduto.
La critica invero non costituisce vilipendio, come la Corte di Cassazione ha ribadito (Sez. III, 7 giugno 1961, cit.) solo quando, alimentandosi onestamente di dati e di rilievi già in precedenza raccolti ed enunciati, si traduce con espressione motivata, e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una indagine condotta con serietà di metodo, da persona o organizzazione fornita delle necessarie attitudini di adeguata preparazione.
L’imputato dunque, curando scientemente l’affissione di parecchi manifesti dal contenuto vilipendioso della religione cattolica, ha consumato la materialità del delitto ex art. 402 cod. pen.. Consegue che anche l’elemento intenzionale del reato (dolo generico) integro sussiste nella specie, non richiedendo infatti la norma incriminatrice il dolo specifico, bastevole essendo la volontà cosciente del fatto, cioè la volontà dell’azione rivolta alla produzione dell’evento lesivo (vilipendio) con la piena consapevolezza della sua idoneità a produrre tale risultato (Cass., Sez. III. 5 novembre 1959, Cavallaro). Per completezza di trattazione, va aggiunto che se il fatto costitutivo del delitto ex art. 402 cod. pen. consiste, come si è visto, nel vilipendere la religione dello Stato, esso, però, perché sia punibile deve avvenire pubblicamente, la pubblicità del fatto, operando sul reato come condizione di punibilità.
Ora già l’art. 16 dell’editto (Albertino) della Stampa, rimasto in vigore fino al 30 giugno 1931 (ancorché fosse caduto in desuetudine) e abrogato dal vigente codice penale, puniva il vilipendio della religione dello Stato, commesso a mezzo della stampa (con riferimento agli artt. 164 e 165 del 1839).
Nel vigente codice la nozione di pubblicità è data dall’ultimo cpv. dell’art. 266 cod. pen., con norma applicabile non solo in relazione ai delitto preveduto nel citato articolo ma altresì a ogni altro reato rispetto al quale la punibilità del fatto sia circostanza aggravante speciale (ex art. 595, I cpv. cod. pen.) o condizione obiettiva di punibilità, come nel caso chi specie.
Al riguardo nessun dubbio che l’imputato ha vilipeso la religione dello Stato: furono infatti sequestrati dalla polizia circa 90 manifesti.
Ora è vero clic la stampa non costituisce di per se solo pubblicità, anche se è un mezzo di pubblicità e che quindi ove sia considerata non già circostanza aggravante speciale bensì condizione obiettiva di punibilità, essa non sussiste se il prodotto della stampa non sta stato portato o effettiva conoscenza e conoscibilità del pubblico; nel caso di specie devesi però aggiungere che il G. ha certamente diffuso il suo pensiero vilipendioso della religione cattolica, mediante l’affissione in luogo pubblico di decine e decine di copie dei manifesti incriminati.
Per quanto poi concerne il reato contestato al G. al capo b) della rubrica (art. 403 cod. pen.) osserva il Collegio quanto segue:

Si è sopra osservato che il ruolo deli¬ttuoso preveduto dall’art. 402 cod. pen. ha carattere generico rispetto a quello specifico contemplato negli artt. 403, 404, 405, rilevandosi però che l’oggetto specifico della tutela penale in ordine a tutti i reati preveduti con tali norme è quello di proteggere la religione cattolica apostolica romano quale istituzione appunto dello Stato.
Quanto sopra premesso non ignora il Collegio che se l’offesa della religione dello Stato è compiuta mediante vilipendio di persona o di cose, ovvero con turbamento di funzioni, cerimonie o pratiche religiose, al titolo dell’art. 402 cod. pen. deve sostituirsi rispettivamente quello dell’art. 403 e dell’art. 404 C dell’art. 405 cod. pen. Ciò a condizione che si tratti di un fatto unico, perchè in tal caso l’offesa della religione, essendo inerente al fatto, diviene almeno elemento costitutivo di uno di questi delitti art. 84 c.p. e perchè essi concretano, come si è detto titoli specifici in relazione a quello generico preveduto dall’art. 403 cod. pen. (art. 15. cod. pen.).
Nella fattispecie di che trattasi deve però ammettersi il concorso materiale dei delitti di cui agli artt. 402 0 403 cod. pen., giacché se parte del contenuto di quattro dei manifesti incriminati va ritenuto vilipendioso della religione cattolica, in almeno due di essi sono pure contenute espressioni, come meglio si rileverà in seguito, che di certo costituiscono offesa di quella religione, mediante vilipendio dei suoi ministri.
Senza voler ripetere quanto già precisato a proposito della nozione di vilipendio, l’affermare mediante l’avallo di travisati o malintesi brani dei testi Sacri, che i dogmi sono «una invenzione dei preti» significa accusare o additare immotivatamente o gratuitamente alla pubblica censura, disistima, disprezzo, l’attività religiosa dei ministri della religione cattolica, quali individui che lungi dall’esercitare la loro mistica, sublime funzione di mediatori o intercessori presso Dio, per l’umanità, solo si premurano di creare a loro esclusivo beneficio e tornaconto e a mortificazione delle anime dei fedeli istituzioni e credenze religiose estranee al vero Cristianesimo, di cui peraltro il Cattolicesimo è diretta emanazione.
Al riguardo è il caso di sottolineare che i brani incriminati ebbero a turbare il sacerdote D. S. il quale del fatto interessò l’autorità di P.S. dopo di aver lacerato personalmente un manifesto per essersi ritenuto personalmente offeso da quanto scrittovi in esso contro il clero.
Ad avviso dei Collegio tale dileggio e dispregio manifestato contro a ministri del culto cattolico costituiva offesa delta religione dello Stato quale conseguenza diretta del fatto oltraggioso; invero il vilipendio del ministro del culto, in quan¬to tale e per la missione che rappresenta, costituisce offesa a materia di fede della religione dello Stato, nonché a persona che per la religione stessa deve essere fatta oggetto di particolare rispetto (Cass. 22 aprile 1950 A., Cass. 22 ottobre 1954 P.M. c. P:).
Sussiste dunque integro l’elemento materiale del delitto di coi all’art. 403 c.p. sul quale concorre la circostanza aggravante speciale di cui al cpv. che rende indipendente aumentandola la misura della pena da quella ordinaria, in considerazione, è ovvio, della maggiore offesa che reca alla religione colui che vilipende chi non solo la professa, ma la amministra e quindi la rappresenta.
Può aggiungersi che a differenza del delitto di cui all’art. 402 c.p. quello ex art. 403 c.p. so non richiede nella sua materialità il verificarsi della condizione obiettiva di punibilità della pubblicità della condotta vilipendiosa esige però oltre al dolo generico che consiste nella volontà cosciente e libera e nell’intenzione di compiere il fatto vilipendioso anche il dolo specifico rappresentato dal fine di offendere la religione dello Stato.
Ora alla luce di quanto finn qui detto, anche dell’elemento morale del reato di cui all’art. 403 c.p. deve ritenersi la ricorrenza essendo evidente che il fine precipuo del G., nel diffondere i manifesti incriminati fu quello di recare offesa alla religione cattolica mediante il vilipendio dei suoi ministri, a tutto vantaggio della propria professione religiosa.

Stando così le cose non soltanto a parere del Collegio, non emerge evidente dagli atti la prova che i fatti addebitati al G. non sono preveduti dalla legge come reato; ma si dovrebbe addirittura affermare la penale responsabilità dell’imputato in ordine ad entrambi i delitti ascrittigli esattamente contestati attese le modalità dei fatti nelle forme della continuazione.
Rileva però il Collegio che tali delitti rientrano tra quelli per cui è stato concessa amnistia con D.P.R. 24 gennaio 1963, n. 5.
Non ostandovi i precedenti penali del Giudici deve dunque dichiararsi non doversi procedere nei suoi confronti in ordine ai delitti addebitatigli per essere gli stessi estinti per intervenuta amnistia.

(Omissis).