Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 30 Marzo 2009

Sentenza 02 febbraio 1982, n.18

Corte costituzionale. Sentenza 2 febbraio 1982, n. 18: “Delibazione delle sentenze ecclesiastiche in materia matrimoniale”.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

Prof. Leopoldo ELIA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810 (Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi, e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929) e 17 della legge 27 maggio 1929, n. 847 (Disposizioni per l’applicazione del Concordato dell’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, nella parte relativa al matrimonio), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa dalla Corte di cassazione il 31 marzo 1977, nel procedimento civile vertente tra Di Filippo Gigliola e Gospodinoff Aldomir ed altro, iscritta al n. 434 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 347 del 21 dicembre 1977;

2) n. 5 ordinanze emesse dalla Corte d’appello di Roma il 15 e 31 marzo 1977, 3 maggio 1977, 6 maggio 1977 (due ordinanze) nei procedimenti civili vertenti tra Papaleo Saverio e Medugno Liliana, Filippucci Lorenzo e Donati Paola, Mimmi Augusto e Olivieri Claudia, Cioci Nazareno e Oliva Lidia, Paolini Lorenzo e Berlen Elena, iscritte ai nn. 355, 313, 501, 303 e 385 del registro ordinanze 1977, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 258, 244, 353, 244 e 286 rispettivamente del 21 e 7 settembre, 28 dicembre, 7 settembre e 19 ottobre 1977;

3) n. 14 ordinanze emesse dalla Corte d’appello di Milano il 15 e 24 aprile 1977, 3 giugno 1977 (due ordinanze), 14 ottobre 1977, 30 giugno 1978 (tre ordinanze), 13 ottobre 1978, 23 marzo, 27 aprile e 18 maggio 1979, 25 gennaio e 15 febbraio 1980, nei procedimenti civili vertenti tra Rodi Renato e Del Bono Maria Luisa, Tuccio Adriana e Bisello Giorgio, Galeazzi Bruno e Cornali Silvia, Vignetta Silvio e Darosi Iolanda, Marazzi Giacomo e Ricchi Faustina, Mazza Ermanno e Di Cintio Carmela, Califano Prisco e Califano Carmela, Cola Romano e Guerriero Paola, Bertoli Silvano e Biffi Piera, Gallinoni Vincenzo e Pagani Paola, Ruggiero Vincenzo e Crotti Emiliana, Cugnasca Enrico e Levy Nella, Sabelli Fioretti Claudio e Oldrini Francesca, Bosoni Achille e Marchese Bruna, iscritte ai nn. 329, 451 e 452 del registro ordinanze 1977, ai nn. 79 e 68 del registro ordinanze 1978, ai nn. 10, 11, 12, 13, 625, 626 e 1025 del registro ordinanze 1979 e ai nn. 527 e 419 del registro ordinanze 1980, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 258, 320, 327 del 21 settembre, 23 e 30 novembre 1977; nn. 109 e 101 del 19 e 12 aprile 1978; nn. 80 e 310 del 21 marzo e 13 novembre 1979 e nn. 71, 270 e 194 del 12 marzo, l ottobre e 16 luglio 1980;

4) ordinanza emessa dalla Corte d’appello di Palermo il 14 aprile 1977 nel procedimento civile vertente tra Amodeo Francesco e Gioia Maria Aurora, iscritta al n. 407 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 293 del 26 ottobre 1977.

Visti gli atti di costituzione di Oliva Lidia, Medugno Liliana, Cioci Nazareno, Filippucci Lorenzo, Rodi Renato, Mazza Ermanno, Donati Paola, Papaleo Saverio, Amodeo Francesco, Di Filippo Gigliola, Gospodinoff Aldomir, Olivieri Claudia, e gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 9 dicembre 1981 il Giudice relatore Antonino De Stefano;

uditi gli avvocati Mauro Mellini per Oliva Lidia, Medugno Liliana e Di Filippo Gigliola; Paolo Barile per Di Filippo Gigliola; Cesare Mirabelli per Filippucci Lorenzo; Corrado Bernardini per Cioci Nazareno, Filippucci Lorenzo, Rodi Renato e Mazza Ermanno; Leo Leli per Papaleo Saverio; Pietro Gismondi e Filippo Satta per Gospodinoff Aldomir; e l’avvocato dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Le norme che attribuiscono ai tribunali ecclesiastici la giurisdizione in materia di nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili e delimitano i poteri spettanti al giudice italiano nel procedimento di esecutività delle sentenze di nullità che da quei tribunali provengono, sono oggetto di eccezioni di incostituzionalità formulate, sotto vari profili, con ordinanza 31 marzo 1977, dalle Sezioni unite della Corte di cassazione.

Il giudizio di legittimità costituzionale é stato promosso, su istanza di parte, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 29 e 101 della Costituzione, nei confronti dell’art. 34, commi quarto, quinto e sesto, del Concordato tra la Santa Sede e l’Italia, reso esecutivo dall’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810, nonché nei confronti dell’art. 17 della legge 27 maggio 1929, n. 847 (recante disposizioni per l’applicazione del Concordato medesimo, nella parte relativa al matrimonio; c.d. legge matrimoniale). Il giudizio a quo, pendente innanzi alle Sezioni unite, verte su un ricorso proposto da Di Filippo Gigliola contro l’ordinanza con cui la Corte d’appello di Roma aveva reso esecutiva la sentenza 6 marzo 1972 del tribunale ecclesiastico del Vicariato di Roma, dichiarativa della nullità, per riserva mentale consistente nella esclusione del bonum sacramenti, ex parte viri, del matrimonio da lei contratto con Aldomir Gospodinoff.

La pronuncia di questa Corte – si premette nel provvedimento di rimessione – viene sollecitata dopo che questioni in gran parte analoghe, ma formulate in termini più circoscritti, sollevate, nello stesso giudizio, con ordinanza emessa il 3 luglio 1975, nei confronti soltanto dell’art. 17 della legge matrimoniale, senza investire le correlative disposizioni dell’art. 34 del Concordato, erano state da questa Corte dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza, con la sentenza n. 1 del 1977. Essendo ora impugnato anche l’art. 1 della legge n. 810 del 1929, nella parte in cui inserisce nell’ordinamento dello Stato i commi quarto, quinto e sesto dell’art. 34 del Concordato, il giudice a quo afferma che, alla stregua delle stesse indicazioni desumibili dalla menzionata sentenza di questa Corte, “la rilevanza delle questioni proposte resta fuori di discussione”. Peraltro, anche in questa seconda ordinanza, con riferimento al giudizio a quo, si ribadisce che, avendo le parti, sia nel corso del procedimento dinanzi alla Corte d’appello, sia nella successiva fase di legittimità, discusso intorno alla portata e alla costituzionalità delle norme in parola, la Corte di cassazione non può, ai fini della decisione del ricorso, prescindere da tali questioni. Una volta ritenute le stesse non manifestamente infondate deve quindi sottoporle alla Corte costituzionale.

Ciò premesso, motivando ai fini della non manifesta infondatezza della prima delle suddette eccezioni, le Sezioni unite, rilevato che, in proposito, “salva, ove occorra, qualche ulteriore considerazione, può essere integralmente utilizzata” l’indagine svolta nella precedente ordinanza del 1975, fanno richiamo a due sentenze di questa Corte (n. 98 del 1965 e n. 183 del 1973) sulle condizioni di validità e sui limiti della rinuncia dello Stato alla propria giurisdizione in favore degli organi di giustizia delle Comunità europee, sottolineando come in queste pronunce l’assoggettamento alla giurisdizione previsto dai Trattati istitutivi delle Comunità medesime, è stato bensì ritenuto conforme a Costituzione, ma solo in quanto la Corte di giustizia delle Comunità é costituita ed opera secondo regole corrispondenti alle linee fondamentali dell’ordinamento giurisdizionale statale, ha natura giurisdizionale, ed é composta da membri che esercitano le proprie funzioni con indipendenza e imparzialità. La legittimità della produttività di effetti nell’ordinamento interno di sentenze emesse da parte degli organi comunitari risulta dunque subordinata, in quelle sentenze, al rispetto del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale.

Con richiamo, inoltre, alle sentenze di questa Corte n. 30 del 1971 e n. 175 del 1973, concernenti direttamente la rinuncia dello Stato, in base al Concordato con la Santa Sede, alla propria giurisdizione in materia di nullità del matrimonio canonico produttivo di effetti civili, il giudice a quo osserva che, mentre la prima di queste decisioni si era limitata ad affermare che il divieto di istituzione di giudici speciali, sancito dall’art. 102 della Costituzione, opera soltanto nell’ambito dell’ordinamento statale, la seconda, col chiarire che la sovranità dello Stato, proclamata dall’art. 1 della Costituzione, “non implica un’assoluta inderogabilità alla giurisdizione”, ha lasciato impregiudicato il problema (che ora si propone) se la riserva a favore della giurisdizione ecclesiastica (benché in linea di massima compatibile con la sovranità statuale) non si ponga, in considerazione dei connotati qualificanti dell’ordinamento canonico, in contrasto con uno degli altri principi supremi del sistema costituzionale. Di quei principi, cioè, alla stregua dei quali (come é stato affermato da questa Corte, nelle sentenze n. 30 e seguenti del 1971, e ribadito nella stessa sentenza n. 1 del 1977) l’art. 7 della Costituzione consente che anche le norme delle leggi che hanno reso esecutivo il Concordato tra Santa Sede e Italia, possano essere sindacate.

Sulle linee segnate dalla su ricordata giurisprudenza della Corte costituzionale – prosegue l’ordinanza di rinvio – si può e si deve dunque procedere – al fine di verificare il grado di tutela da esse garantito – ad un esame delle norme che regolano il procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale, vigenti le quali i tribunali stessi pronunciano le sentenze che, in forza delle norme impugnate, il giudice italiano deve poi rendere esecutive. L’esame di tali norme (che hanno fonte, da un lato, nel codex iuris canonici e, dall’altro, nella Instructio “Provida mater Ecclesia” emanata il 15 agosto 1936, e in una serie di testi successivi) conduce, secondo l’ordinanza, a rilevare che il sistema della giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale é caratterizzato:

I. Per quanto riguarda i giudici:

a) dal principio secondo cui il Pontefice é titolare nativo iure della potestà giurisdizionale ed é pertanto il massimo giudice naturale in assoluto (canoni 218, 1569);

b) dall’amovibilità dei giudici (prevista in via assoluta, ad nutum episcopi, dal canone 1573, paragrafo 5, e successivamente attenuata con l’attribuzione alla Conferenza regionale episcopale del potere di rimozione per causa grave) e dall’avocabilità al Pontefice, nella ricordata sua qualità, di qualunque causa in qualunque stato e grado, con conseguente deferimento a giudici da lui scelti (canone 1557, paragrafo 3);

II. Per quanto riguarda le parti:

c) dal riconoscimento della capacità processuale ai soli coniugi cattolici (canone 1971, art. 35 dell’Instructio), almeno nell’ordinamento vigente all’epoca dei fatti di causa, in quanto le limitazioni in danno degli acattolici non sono state rimosse che nel 1973;

III. Per quanto concerne il contraddittorio e il diritto di difesa:

d) da disposizioni per cui il convenuto conosce il contenuto integrale del libello introduttivo soltanto dopo il proprio interrogatorio (art. 113, paragrafo 1, dell’Instructio);

e) dalla possibilità che ai difensori sia interdetto il patrocinio “da parte dello stesso ordinario che regge il tribunale regionale” (art. 48, paragrafo 4, dell’Instructio, art. 1 delle Norme della Congregazione per la disciplina dei sacramenti del 10 luglio 1940);

f) dal divieto per le parti e per i loro difensori di assistere all’assunzione delle prove testimoniali (art. 128 dell’Instructio);

g) dalle limitazioni a testimoniare poste a carico degli scomunicati (art. 119 dell’Instructio);

h) dall’inesistenza di sanzioni – che non siano di natura meramente spirituale – per le ipotesi di mancata presentazione dei testimoni, di rifiuto di rispondere alle domande e di falsa testimonianza;

i) dal potere del Pontefice di rendere definitive decisioni ancora impugnabili, con conseguente discrezionale esclusione della garanzia del doppio grado di giurisdizione;

l) dall’insuscettibilità delle sentenze ecclesiastiche in materia matrimoniale di passare in giudicato (canone 1903, art. 217, paragrafo 1, dell’Instructio).

Tale sistema, che – osservano le Sezioni unite – trae la propria giustificazione e la propria interna coerenza, “fuori discussione in questa sede”, dalla natura sacramentale del matrimonio canonico, appare per più versi difforme da quello che la Costituzione vuole assicurato, e che risulta invece ispirato ai criteri fondamentali dell’imparzialità, della indipendenza (art. 101 Cost.) e della pre costituzione del giudice (art. 25 Cost.), nonché del potere di ciascuno di agire in giudizio e di esercitare, in ogni stato e grado del procedimento – partecipando ad ogni atto di esso – il diritto inviolabile di difesa, e di vedere altresì definitivamente accertata la conformità o meno di una determinata situazione alle norme dell’ordinamento (art. 24, commi primo e secondo, Cost.).

Per stabilire se, sotto questi aspetti, la questione sia proponibile innanzi alla Corte costituzionale, “non interessa stabilire – precisa ancora l’ordinanza di rinvio – se nel processo svoltosi dinanzi ai tribunali ecclesiastici che ha dato luogo alla presente controversia, abbiano o meno trovato puntuale applicazione tutte le su ricordate norme canoniche”. La prospettata violazione del diritto alla tutela giurisdizionale – si afferma – é ricollegabile invero non ad una lesione verificatasi nella singola fattispecie concreta, sibbene alla strutturazione generale del sistema che, nella sua istituzionalità, sembra insuscettibile di garantire congruamente quella tutela.

Né in contrario – si aggiunge – gioverebbe richiamare il “carattere sostitutivo”, per i matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, (che la motivazione della sentenza di questa Corte n. 1 del 1977 pone in risalto) della giurisdizione di nullità dei tribunali ecclesiastici. Proprio in quanto nella materia in esame la giurisdizione statuale é sostituita da quella ecclesiastica – le cui singole caratteristiche cospirano tutte a delineare un sistema profondamente diverso – viene infatti in evidenza il problema della difformità tra l’ordinamento canonico ed il tipo di tutela previsto dalla Costituzione.

Che, poi, il diritto alla tutela giurisdizionale, parametro della legittimità delle norme impugnate, abbia dignità di “principio supremo”, é punto sul quale – aggiungono le Sezioni unite – ogni decisione va lasciata alla Corte costituzionale. É comunque significativo – si aggiunge – che la Corte costituzionale, in una delle sentenze su richiamate (n. 98 del 1965), ha già inquadrato quello alla tutela giurisdizionale fra i “diritti inviolabili dell’uomo” riconosciuti e garantiti dall’art. 2 della Costituzione.

La seconda questione di legittimità costituzionale, questione che – si precisa ancora nell’ordinanza – dà per scontata la conformità alla Costituzione della riserva di giurisdizione in favore dei tribunali ecclesiastici, verte sui limiti dei poteri del giudice chiamato a dare esecutività, nell’ordinamento dello Stato, alle sentenze dei tribunali ecclesiastici. Le norme impugnate, secondo l’interpretazione datane da una consolidata giurisprudenza, altro non consentono al giudice italiano, una volta verificata la regolarità, puramente formale, della documentazione rimessagli dal tribunale della Segnatura apostolica, se non di prendere atto dell’esistenza del provvedimento emesso nell’ordinamento canonico, e che va reso esecutivo, senza che si possa compiere alcun esame, neppure sommario, delle modalità della procedura svoltasi innanzi al giudice ecclesiastico e delle questioni di diritto sostanziale da esso decise. Al giudice italiano é, dunque, precluso di accertare se nel procedimento in cui é stata resa la sentenza di nullità del matrimonio, sia stato assicurato l’effettivo rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa; se la sentenza sia o no definitiva; se siano stati realmente effettuati, da parte del tribunale della Segnatura, i controlli (circa la conformità della sentenza alle norme del diritto canonico relative alla competenza del giudice, alla citazione ed alla legittima rappresentanza o contumacia delle parti), controlli previsti dal comma quinto dell’art. 34 del Concordato; se, infine, le disposizioni contenute nella sentenza di nullità, siano conformi (come previsto dall’art. 797, n. 7, del codice di procedura civile, e segnatamente dall’art. 31 delle preleggi) al principio del rispetto dell’ordine pubblico italiano. Anche a questo riguardo al giudice a quo appare quindi dubbia la compatibilità delle norme impugnate con il “principio supremo” del diritto di agire e difendersi in giudizio, dinanzi a qualsiasi organo fornito dei poteri tipici della giurisdizione, che dagli artt. 2, 24 e 101 della Costituzione deve ritenersi garantito al cittadino anche in tema di riconoscimento di sentenze rese in altri ordinamenti.

Un “ulteriore profilo” di contrasto delle denunciate norme con “principi supremi del sistema costituzionale” viene infine ravvisato dalle Sezioni unite nel fatto che le disposizioni medesime, imponendo al giudice statale di rendere esecutive le sentenze ecclesiastiche anche se fondate su cause di nullità non previste dalla legge dello Stato, e in particolare (come nel caso di specie) sulla riserva mentale, “senza possibilità di rilevarne il conflitto con l’ordine pubblico italiano”, sembrano introdurre nell’ordinamento dello Stato “un tipo di matrimonio contrastante con quello previsto dalla Costituzione, in violazione dei canoni relativi all’eguaglianza dei cittadini senza distinzione di religione, ed al concetto medesimo di matrimonio accolto dalla Carta fondamentale (artt. 2, 3, 7 e 29 Cost.)”. Anche a questo proposito, circa la natura “suprema” dei principi invocati, il giudice a quo ritiene di non poter trarre conclusioni definitive, rimettendosi alla decisione della Corte costituzionale. Ricorda comunque che, riguardo alla scelta del regime matrimoniale, civile o canonico, questa Corte ha affermato (sentenze nn. 31 e 32 del 1971 e 175 del 1973) che tale libertà di scelta può riconoscersi conforme all’art. 3 della Costituzione, “purché nel regime prescelto non si abbia violazione di altri precetti costituzionali supremi”.

Dopo aver posto in evidenza “le differenze di fondo, certamente esistenti fra i due tipi di matrimonio”, canonico e civile, e la diversità che nei due ordinamenti caratterizza la regolamentazione delle cause di nullità, viene sottolineato come, mentre l’ordinamento dello Stato considera primaria l’esigenza di salvaguardare la “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 della Costituzione) e il mantenimento del rapporto familiare, anche se costituito in virtù di un atto invalido (come le norme del codice civile in materia, specie quelle sulla “sanatoria” delle nullità, per più versi largamente concorrono a dimostrare), nell’ordinamento canonico per contro, in ragione della natura sacramentale del matrimonio, riveste decisiva importanza “la verifica della puntuale adesione della volontà del nubente a ciascuno dei caratteri tipici del sacramento”. Cosicché né l’oggetto del consenso, né il protrarsi della convivenza impediscono l’accertamento di una eventuale mancata corrispondenza fra la volontà di ciascuno dei nubenti e le finalità sacramentali, ancorché tale difformità, come nel caso (che é quello che si verifica nella fattispecie) della riserva mentale, sia rimasta del tutto sconosciuta all’altro coniuge, con la possibile conseguenza che in base alla regolamentazione canonica, in forza delle norme impugnate, può liberarsi dal vincolo, anche agli effetti civili, deducendo la nullità del matrimonio, proprio il coniuge che abbia posto a suo tempo le relative condizioni, vedendo così premiata la sua mala fede.

Sotto tutti gli aspetti considerati, perciò – concludono le Sezioni unite – le questioni sollevate, anche per gli argomenti offerti dalle numerose conferme di ordine dottrinale, devono ritenersi non manifestamente infondate.

2. – Innanzi a questa Corte si sono costituiti sia la Di Filippo che il Gospodinoff. E anche intervenuta, per il Presidente del Consiglio dei ministri, l’Avvocatura dello Stato.

Per i motivi esposti nell’ordinanza di rimessione, ai quali si riporta integralmente, la difesa della Di Filippo chiede che le norme impugnate vengano riconosciute illegittime. Dal canto suo la difesa del Gospodinoff chiede invece che la Corte dichiari la questione sollevata inammissibile, e comunque infondata. In via pregiudiziale, infatti, sostiene che le eccezioni prospettate dalla Cassazione sarebbero irrilevanti perché astratte e formulate senza specifico riferimento alla concreta vicenda procedurale.

Nel merito, la difesa del Gospodinoff fa richiamo alle sentenze di questa Corte n. 31 del 1971 e n. 175 del 1973, secondo le quali né la semplice differenza di regime riscontrabile fra matrimonio civile e matrimonio canonico né la rilevanza della giurisdizione canonica nell’ordinamento italiano comporterebbero violazione di principi supremi. Aggiunge che non dovrebbe essere dimenticato che fra i principi qualificanti il vigente sistema costituzionale rientra certamente l’art. 7, primo comma, della Costituzione, il quale riconosce che “lo Stato e la Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani”. Di tutto ciò, del resto, si avrebbe conferma nella stessa più recente sentenza n. 1 del 1977, là dove questa Corte afferma che “le disposizioni dell’art. 34 del Concordato e della legge n. 810 del 1929 godono attualmente della copertura costituzionale fornita dall’art. 7, secondo comma, della Costituzione”.

Secondo la difesa del Gospodinoff, anche il dubbio prospettato dall’ordinanza di rinvio riguardo alla diversa disciplina delle cause di nullità del matrimonio civile e del matrimonio canonico dovrebbe ritenersi già risolto dalla precedente giurisprudenza di questa Corte. Non si vedrebbe, tuttavia, in qual modo la dichiarazione di nullità del matrimonio – prevista dall’ordinamento canonico – per simulazione, possa ledere i principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Si tratta infatti di una causa di nullità che, sia pure con disciplina parzialmente diversa, é ammessa ora, dopo la riforma del diritto di famiglia, anche dall’art. 123 del codice civile.

A sua volta, nel chiedere che le eccezioni di illegittimità costituzionale formulate dalle Sezioni unite della Corte di cassazione vengano respinte perché infondate, l’Avvocatura dello Stato fa richiamo, oltre che alla sentenza n. 175 del 1973, alla sentenza n. 30 del 1971 di questa Corte. Sia l’una che l’altra, infatti, col riconoscere la legittimità della riserva per le cause di nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili alla giurisdizione canonica, avrebbero implicitamente riconosciuto anche la sufficienza delle garanzie processuali previste da quell’ordinamento. Alla luce di queste pronunce, perciò, il rilievo mosso nell’ordinanza di rinvio alle disposizioni impugnate in base alla pretesa minore tutela giurisdizionale che il processo canonico offrirebbe alle parti, dovrebbe ritenersi superato.

Secondo l’Avvocatura, inoltre, se é vero, come ha argomentato il giudice a quo, che la Corte costituzionale nel giudicare, nelle sentenze n. 98 del 1965 e n. 183 del 1973, riguardo ai rapporti fra Stato italiano e Comunità europee, della legittimità costituzionale della rinuncia dello Stato all’esercizio della propria giurisdizione in favore di quella di un altro ordinamento, ha fatto ricorso al criterio della verifica del grado di efficienza del sistema di tutela giurisdizionale garantito dall’ordinamento non statale, non é men vero che il ricorso a tale criterio postula l’esclusività della giurisdizione dell’altro ordinamento. Nei casi di specie, invece, non si ha una esclusività (della giurisdizione canonica) ma piuttosto una alternatività fra le due giurisdizioni (civile o canonica) in funzione della libera scelta dei nubenti. Secondo le norme concordatane, infatti, alla giurisdizione canonica restano soggetti solo coloro che, pur potendo, come cittadini italiani, contrarre matrimonio civile, secondo le leggi dello Stato, decidono, invece, in base alle proprie convinzioni religiose, di celebrare il matrimonio – pur essendo in grado di conoscere la diversa disciplina a cui é sottoposto – secondo il regime concordatario.

Quanto, poi, alla lamentata preclusione di ogni potere al giudice italiano nel procedimento di esecutività delle sentenze e dei provvedimenti ecclesiastici, la difesa del Presidente del Consiglio osserva che, secondo i principi generali vigenti in materia di riconoscimento di sentenze di autorità giudiziarie estere, il giudice italiano non può certo conoscere il merito della causa, né tanto meno esigere una identità di regole procedurali tra il diritto nazionale e quello applicato nella sentenza da delibare, potendo solo controllare il rispetto dell’ordine pubblico.

Infine l’Avvocatura ricorda che la normativa denunciata è oggetto di esame in sede di trattative per la revisione del Concordato, operata la quale i dubbi di legittimità costituzionale sollevati non avranno più ragion d’essere.

In una elaborata memoria la difesa del Gospodinoff approfondisce, per ciascuna delle questioni sollevate, le critiche volte alla motivazione dell’ordinanza di rinvio. Nelle sue conclusioni, tuttavia, pur nel ribadire l’incensurabilità, sotto tutti gli aspetti, delle disposizioni impugnate sotto il profilo della legittimità costituzionale, osserva che la Corte, pur non ritenendo costituzionalmente illegittimo il sistema vigente, potrebbe se mai, come in altri casi e per altre materie ha fatto, enunciare ipotesi “più adeguate” sotto il profilo costituzionale.

Riguardo alla prima eccezione, concernente la riserva in favore della giurisdizione matrimoniale ecclesiastica, in relazione al difetto di garanzie riscontrato nel processo canonico, la difesa del Gospodinoff, richiamando diverse decisioni della Corte di cassazione successive all’ordinanza di rinvio, sostiene anzitutto che l’eccezione stessa dovrebbe essere ritenuta senz’altro irrilevante, giacché, investendo il sistema nel suo complesso, non si traduce (come invece questa nuova giurisprudenza della Corte di cassazione richiede) “nella denuncia di disposizioni effettivamente applicate nel procedimento in corso o applicabili nelle ulteriori vicende processuali”, ma tende “a prospettare solo l’eventuale lesione di diritti altrui, o ipotetiche violazioni di diritti (propri) peraltro non verificatesi nel caso concreto”.

Secondo la memoria, altro assurdo, a cui la logica dell’ordinanza di rinvio porterebbe, nell’ipotesi in cui la questione – così come formulata, “in ragione di alcune norme processuali canoniche” – fosse riconosciuta fondata, starebbe poi in ciò: che in presenza delle nuove norme processuali canoniche, che, con il codice di cui si prevede imminente la pubblicazione, dovrebbero sostituirsi a quelle vigenti (e che non sarebbe lecito presumere in contrasto con i principi del diritto di difesa e della tutela giurisdizionale), la competenza esclusiva del giudice canonico in materia matrimoniale dovrebbe, dopo la sua abolizione, ritornare in vita.

Anche nel merito, comunque, gli argomenti esposti nell’ordinanza di rinvio, non reggerebbero alla critica. Non sarebbe esatto, in primo luogo, che con la sentenza n. 175 del 1973 questa Corte si sia limitata ad escludere che la riserva di giurisdizione in questione sia in contrasto con il principio (art. 1 della Costituzione) della sovranità dello Stato, lasciando impregiudicati i punti dell’attuale controversia. Nel giudizio che in quella sentenza trovò la sua soluzione, infatti, la riserva di giurisdizione dei tribunali ecclesiastici sulle cause attinenti alla nullità del matrimonio canonico trascritto agli effetti civili, era stata infatti contestata dal giudice a quo (tribunale di Rovigo), oltre che per violazione del principio di eguaglianza, con motivazioni sostanzialmente non dissimili da quelle fatte poi proprie dalle Sezioni unite, anche per violazione del diritto di difesa e del principio della precostituzione del giudice (artt. 3, 24 e 25 Cost.), e anche sotto questi aspetti le questioni sollevate furono disattese.

Non pertinente, poi, sarebbe il richiamo (fulcro di tutto il ragionamento del provvedimento di rimessione) alle decisioni di questa Corte (n. 98 del 1965 e n. 183 del 1973) sui rapporti con le Comunità europee, e al “grado di efficienza” attribuito dalle norme degli ordinamenti comunitari alle garanzie assicurate dalla giurisdizione della Corte di giustizia delle Comunità. Il parallelismo di situazioni ravvisato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione fra Corte di giustizia delle Comunità e tribunali ecclesiastici, valido sotto il profilo negativo (della estraneità degli organi di giurisdizione fra i quali il paragone si istituisce, rispetto alla giurisdizione dello Stato, e della carenza di giurisdizione statuale in determinate materie), non sarebbe valido, invece, riguardo agli aspetti positivi. Le sentenze della Corte di giustizia delle Comunità hanno, infatti, nell’ordinamento dello Stato una efficacia diretta e immediata, senza che perciò sia previsto alcun controllo giurisdizionale, né la necessità di interventi e accertamenti da parte del giudice italiano. Le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio sono invece soggette allo speciale procedimento di delibazione, di carattere contenzioso, affidato alla Corte d’appello. E senza la dichiarazione di esecutività, da parte della Corte d’appello – dichiarazione che non può pronunciarsi (come la giurisprudenza ha costantemente riconosciuto) se fra le parti interessate non si sia instaurato un legittimo contraddittorio – non hanno nel nostro ordinamento alcuna efficacia.

Ad ogni modo, secondo la difesa del Gospodinoff, da un esame da essa portato fino ai più particolari aspetti del processo matrimoniale canonico, nessuna delle censure mosse alle varie norme in cui esso si articola e ai principi di cui sono espressione (sia per ciò che riguarda l’indipendenza del giudice, sia per quanto attiene alla capacità a stare in giudizio, al contraddittorio e al diritto di difesa), si dimostrerebbe fondata. Fermo il punto, naturalmente, che in tale esame non possono assumersi a parametro di raffronto né i singoli precetti della Costituzione, né, tanto meno, le disposizioni di leggi ordinarie sul processo e l’ordinamento giudiziario dello Stato (altro errore, questo, nel quale sarebbe largamente incorso il giudice a quo) ma, di fronte alla “copertura” assicurata alla “riserva di giurisdizione matrimoniale dei tribunali ecclesiastici” dall’art. 34 del Concordato e quindi dall’art. 7, comma secondo, della Costituzione, solo i “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”. Fermo altresì il punto che, come numerose sentenze di questa Corte anche confermano, il principio della tutela giurisdizionale (certamente accolto dalla nostra Costituzione) e le modalità del suo esercizio (che possono essere diverse da ordinamento a ordinamento purché rimanga salvo il principio di quella tutela) si pongono su piani diversi, che non tollerano commissioni, e che comunque nulla c’è, nel sistema processuale canonico, di effettivamente incompatibile con le esigenze (le sole sicuramente fondamentali) della “terzietà del giudice” e della “sostanziale possibilità di contraddittorio fra le parti”.

Nell’ordinanza di rinvio, inoltre, non si sarebbe tenuto alcun conto dell’influenza che anche nel processo matrimoniale canonico e nella giurisprudenza ecclesiastica hanno avuto, e non potevano non avere, i nuovi principi proclamati dalle costituzioni e dai decreti del Concilio Vaticano II, entrati in vigore nel 1965.

Dovrebbe anche tenersi presente, infine, che nella normativa concordataria la riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici é inscindibile dalla disciplina sostanziale del matrimonio. Non potrebbe quindi ammettersi che, riconosciuta illegittima, e conseguentemente abolita, radicalmente, la riserva di giurisdizione in questione, siano i giudici dello Stato a giudicare della validità del matrimonio-sacramento, e a dichiarare la nullità canonica del matrimonio. Ciò sarebbe in contrasto con l’art. 7, comma primo, della Costituzione. Nella normativa concordataria, infatti, il matrimonio-sacramento é il presupposto degli effetti civili del matrimonio, ma sotto il profilo della disciplina formale e sostanziale é estraneo al diritto statale. Il sistema ha quindi una sua logica che non consente di toccare una parte senza che il tutto venga ad essere svuotato di contenuto.

Secondo la memoria della difesa del Gospodinoff, anche nella questione concernente i poteri della Corte d’appello nel giudizio per l’esecutività delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, a parametro di raffronto vengono, dall’ordinanza di rinvio, assunte disposizioni di legge – quelle degli artt. 797 cod. proc. civ. (sulle condizioni della delibazione) e 31 preleggi (sul principio dell’ordine pubblico) – che, a parte le deroghe che il primo di essi trova nelle convenzioni internazionali, certamente non esprimono “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”, né di questi possono sostanziare il contenuto.

Riguardo all’ulteriore profilo della questione, inerente alla esecutività di sentenze di nullità fondate su cause diversamente disciplinate nell’ordinamento della Chiesa e nell’ordinamento dello Stato, nella memoria si obietta, in via pregiudiziale, che la rilevanza della questione stessa nel giudizio a quo sarebbe solo apoditticamente affermata e che l’ordinanza di rinvio non conterrebbe alcun accenno alla fattispecie sostanziale e processuale oggetto della controversia. Nel merito, comunque, anche sotto questo profilo, le tesi accolte nel provvedimento di rimessione troverebbero ampia confutazione nella precedente giurisprudenza di questa Corte. La difesa del Gospodinoff nega inoltre che gli articoli del codice civile sulla disciplina del matrimonio, richiamati in proposito nell’ordinanza di rinvio, possano farsi assurgere al rango di “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”. Né sarebbe riferibile alla questione l’art. 29 della Costituzione, il quale, riconoscendo i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, col presupporre un saldo fondamento, costituito per l’appunto dal matrimonio, in quanto valido, attiene al rapporto (validamente costituito), non all’atto costitutivo, che mantiene quindi le sue peculiari caratteristiche. In conclusione, si afferma che il vigente sistema altro in fondo non é se non l’attuazione del pluralismo garantito dalla Costituzione e che i principi essenziali della Costituzione non possono non comprendere la libertà religiosa e quindi la libertà di scelta tra i diversi tipi di matrimonio e di opzione anche per il matrimonio canonico con le conseguenze che ne derivano, anche in ordine alla giurisdizione e alle controversie in materia di nullità.

3. – Sotto tutti i profili sopra delineati, in alcuni casi, e sotto alcuni di essi, in altri, le stesse questioni sollevate dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione riguardo alla riserva alla giurisdizione ecclesiastica delle controversie sulla nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, ed ai poteri del giudice italiano nello speciale procedimento di delibazione per il conferimento dell’esecutività alle sentenze ecclesiastiche dichiarative della nullità medesima, vengono sottoposte al giudizio di questa Corte, con tredici ordinanze, anche dalla Corte di appello di Milano. Queste ordinanze, emesse su istanza di parte, o d’ufficio, rispettivamente, il 15 aprile, il 3 giugno (due) e il 14 ottobre 1977; il 30 giugno (tre) e il 13 ottobre 1978; il 23 marzo, il 27 aprile e il 18 maggio 1979, e, infine, il 25 gennaio e il 15 febbraio 1980, provengono da altrettanti procedimenti promossi per la declaratoria di esecutività di sentenze di tribunali ecclesiastici dichiarative della nullità dei matrimoni di Rodi Renato e Del Bono Maria Luisa, Galeazzi Bruno e Cornali Silvia, Vignetta Silvio e Darosi Iolanda, Marazzi Giacomo e Ricchi Faustina, Mazza Ermanno e Di Cintio Carmela, Califano Prisco e Califano Carmela, Cola Romano e Guerriero Paola, Bertoli Silvano e Biffi Piera, Gallinoni Vincenzo e Pagani Paola, Ruggiero Vincenzo e Crotti Emiliana, Cugnasca Enrico e Levy Nella, Sabelli Fioretti Claudio e Oldrini Francesca, Bosoni Achille e Marchese Bruna.

Quanto ai motivi della rimessione delle questioni, essi presentano un contenuto testuale pressoché identico. Inoltre, come appare anche dai richiami fatti all’ordinanza pronunciata dalle Sezioni unite, i motivi stessi (pur se la Corte d’appello di Milano, nell’indicare le “norme della Costituzione che si assumono violate” fa riferimento anche all’art. 102, non richiamato dalle Sezioni unite), sostanzialmente coincidono con quelli accolti dalla Corte di cassazione. In tutte le ordinanze non si manca peraltro di esprimere (con riferimento ai rilievi formulati in proposito, rispetto al precedente giudizio, dalla sentenza n. 1 del 1977 di questa Corte) circa la questione concernente i poteri del giudice italiano nello “speciale procedimento di delibazione” delle sentenze dei tribunali ecclesiastici, l’intento di sollevarla come “autonoma questione”.

Inoltre, a differenza dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione, la Corte d’appello di Milano non prospetta in termini dubitativi, ma recisamente afferma che il diritto alla tutela giurisdizionale si colloca fra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale.

4. – Alle norme dell’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810 (nella parte in cui inserisce nell’ordinamento dello Stato i commi quarto, quinto e sesto dell’art. 34 del Concordato) e del correlativo art. 17 della legge matrimoniale, muovono censura anche cinque ordinanze della Corte d’appello di Roma, emesse, nel corso di altrettanti procedimenti per la esecutività di sentenze di tribunali ecclesiastici, rispettivamente il 15 e il 31 marzo, il 3 maggio e il 6 maggio (due) 1977.

Di tali ordinanze, quelle in data 15 e 31 marzo 1977 risultano pronunciate nel corso di alcuni dei procedimenti in cui sorsero le questioni che, così come allora proposte, questa Corte dichiarò inammissibili con la sentenza n. 1 del 1977. In una di esse, pronunciata in relazione alla dichiarata nullità del matrimonio fra Filippucci Lorenzo e Donati Paola, premessi ampi riferimenti sullo svolgimento della procedura per la esecutività della sentenza e sulle istanze e deduzioni in essa avanzate, le norme impugnate vengono contestate, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 29, 101 e 102 della Costituzione, solo sul punto relativo alla carenza di poteri del giudice italiano in sede di giudizio per la esecutività dei provvedimenti delle autorità ecclesiastiche.

Abbandonata la tesi – già sostenuta nella precedente ordinanza di rinvio – secondo la quale la legittimità costituzionale della riserva alla giurisdizione ecclesiastica delle controversie sulla nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, potrebbe contestarsi, con riguardo all’intero complesso delle norme dettate in materia dall’ordinamento canonico, sia processuali che sostanziali, in re matrimoniali, la Corte d’appello osserva che ci si deve invece limitare ad esaminare, di volta in volta, “se i provvedimenti ecclesiastici di cui si chiede l’esecutività abbiano violato i sommi principi della Costituzione italiana”. All’effettuazione di una indagine in tal senso – prosegue l’ordinanza – ostano tuttavia, secondo la costante interpretazione datane dalla giurisprudenza, le norme impugnate. Riguardo alle quali (escluso che possa farsi utile riferimento agli artt. 797 e seguenti del codice di procedura civile, giacché lo schema che essi delineano non é il solo previsto dal nostro ordinamento in materia di riconoscimento di procedure giurisdizionali straniere, ma trova numerose deroghe nelle convenzioni internazionali) il giudice a quo si domanda se, sotto questo profilo, esse non siano in contrasto con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale. L’individuazione e la enunciazione di tali principi – afferma il giudice a quo – spetta in via esclusiva alla Corte costituzionale. Non potrebbe tuttavia tacersi che le norme in questione (come é dato arguire dal progetto di riforma del Concordato elaborato dall’apposita Commissione e presentato alle Camere) dimostrano di aver fatto il loro tempo.

In un’altra ordinanza, pronunciata riguardo al matrimonio fra Papaleo Saverio e Medugno Liliana, dichiarato nullo dal tribunale ecclesiastico “ex capite simulationis totalis consensus ex parte viri”, nel censurare, anche in questa occasione, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 7, 10, 11, 24, 29, 101 e 102 della Costituzione, la inaccettabile angustia dei poteri che le disposizioni concordatarie lasciano in materia al giudice italiano, il giudice a quo, fra l’altro, fa insistente richiamo al principio dell’ordine pubblico. Affermato nell’art. 797, n. 7 del codice di procedura civile, e prima di esso, in termini amplissimi, nell’art. 31 delle preleggi, il limite inderogabile dell’ordine pubblico (in contrasto con il quale né le leggi o gli atti di uno Stato estero, né gli ordinamenti o gli atti di qualsiasi istituzione od ente, “possono avere effetto nel territorio dello Stato”) costituirebbe, infatti, una espressione primaria del principio di sovranità, e non potrebbe quindi avere, rispetto al diritto canonico, una consistenza minore di quella che ha rispetto al diritto straniero. Tanto più, poi, quando il diritto canonico viene applicato – come nei casi in questione – ai “cives fideles”, come tali soggetti anche a tutte le leggi dello Stato.

Fermo il punto che ogni indagine relativa ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale “é riservata per eccellenza alla cognizione” di questa Corte, la Corte d’appello osserva che tuttavia, a suo avviso, la mancata opposizione, nella normativa in esame, del limite costituito dal rispetto dell’ordine pubblico, non contrasta con un singolo precetto, ma con lo spirito informatore di una pluralità di assunti costituzionali: tutti quelli, cioè, a cui, nel formulare la questione, ha creduto di dover fare riferimento.

Quanto alla “pregiudizialità della decisione sulla questione di costituzionalità rispetto al provvedimento che la Corte d’appello é chiamata ad emettere”, secondo l’ordinanza essa sarebbe nel caso evidente. Ed invero, essendo stato il matrimonio dichiarato nullo (come appare dalla sentenza trasmessa dal tribunale della Segnatura) dopo una convivenza protrattasi per dodici anni e la nascita di un figlio, “perché al tempo della sua celebrazione uno dei nubendi si era determinato a contrarlo per mere finalità di interesse economico”, sicuramente il limite dell’ordine pubblico, se applicabile, non avrebbe consentito di dare esecutività alla sentenza.

Con la terza e la quarta delle su indicate ordinanze, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24, primo e secondo comma, 25, 101 e 102 della Costituzione, in un caso, e in riferimento ai soli artt. 24, 25, 101 e 102 della Costituzione, nell’altro, la Corte di appello di Roma, sospendendo i procedimenti per la esecutività delle sentenze dichiarativi della nullità dei matrimoni concordatari rispettivamente di Cioci Nazareno e Oliva Lidia, e di Paolini Lorenzo e Berlen Elena, sottopone al giudizio di questa Corte sia la questione attinente alla carenza di adeguate garanzie nel sistema della giurisdizione ecclesiastica, sia quella concernente i limiti dei poteri del giudice italiano all’atto della declaratoria di esecutività di sua competenza. Anche se si dovesse ritenere – si afferma in proposito in entrambi i provvedimenti – che il suddetto sistema processuale sia, nel suo complesso, atto a salvaguardare il principio costituzionale della piena tutela giurisdizionale, permarrebbe comunque il dubbio di illegittimità costituzionale sotto il profilo dell’impossibilità di verifica, nei singoli casi, dell’avvenuta osservanza del principio stesso.

Con la quinta ordinanza (anch’essa emanata, come la prima, in seguito ad altra promotrice di uno dei giudizi risolti da questa Corte con la sentenza di inammissibilità n. 1 del 1977) vengono infine sollevate (in relazione al matrimonio, dichiarato nullo dal tribunale ecclesiastico, fra Mimmi Augusto e Olivieri Claudia) le questioni attinenti al sistema della giurisdizione ecclesiastica e ai poteri del giudice italiano (formulate in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24, primo e secondo comma, 25, 101, 102 e seguenti della Costituzione) prospettando anche (in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 29 e 31 Cost.) il profilo concernente le divergenze fra gli ordinamenti canonico e civile in materia di nullità del matrimonio.

Affermata, con motivazioni pressocché identiche, la rilevanza, nei giudizi a quibus, delle questioni sollevate, la Corte d’appello di Roma, a sostegno della non manifesta infondatezza delle questioni stesse, adduce, in queste tre ultime ordinanze, argomenti che sostanzialmente riproducono quelli posti a base delle ordinanze delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione e della Corte d’appello di Milano.

5. – Delle parti dei giudizi pendenti innanzi alle Corti d’appello di Milano e di Roma, si sono costituiti innanzi a questa Corte, Rodi Renato, Mazza Ermanno, Filippucci Lorenzo, Donati Paola, Cioci Nazareno, Oliva Lidia, Medugno Liliana, Papaleo Saverio e Olivieri Claudia. Le difese della Donati, della Oliva, della Medugno e della Olivieri chiedono che le norme impugnate “e ogni altra coinvolta”, siano dichiarate costituzionalmente illegittime. Le difese del Rodi, del Mazza, del Filippucci, del Cioci e del Papaleo chiedono, invece, che le questioni sollevate siano dichiarate, a seconda, inammissibili, non fondate, o addirittura manifestamente infondate.

Gli atti di deduzioni, a sostegno della inammissibilità della questione relativa alla pretesa carenza di garanzie nel sistema della giurisdizione ecclesiastica, si rifanno anzitutto all’affermazione della sentenza di questa Corte n. 1 del 1977 circa la “speciale garanzia” e la “copertura costituzionale”, di cui godono le disposizioni dell’art. 34 del Concordato. Un secondo argomento (che si riannoda alle affermazioni dell’ordinanza di rinvio della Corte d’appello di Roma nel giudizio che vede parte il Filippucci, ma che viene ripreso anche dalle difese del Cioci e del Rodi) si fonda sulla pretesa “assoluta erroneità e irrilevanza” di una condanna globale del sistema processuale canonico e sulla necessità, che ne seguirebbe, di constatare, caso per caso, dove e come, nei processi svoltisi inter partes, quelle norme dell’ordinamento canonico, sostanziali e processuali, di cui si assume il contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, abbiano trovato concreta applicazione. Tesi, questa, che alle parti avverse (Oliva e Medugno) non sembra concludente e sostenibile, giacché – si obietta – la mera possibilità di violazione di diritti di una parte già comporta la violazione certa delle norme costituzionali poste a garanzia e tutela dei diritti stessi. D’altronde, il segreto, che caratterizza il procedimento ecclesiastico, e le esigenze, di ordine totalmente diverso, cui i due ordinamenti, canonico e civile, sono ispirati e finalizzati, costituirebbero degli ostacoli insuperabili ad una effettiva verifica.

Anche nel merito, a sostegno della infondatezza della questione, si fa anzitutto richiamo (difese di Filippucci, Rodi, Cioci e Papaleo) alla “copertura costituzionale” apprestata alle norme concordatarie dall’art. 7, comma secondo, della Costituzione. I principi del contraddittorio, del diritto di difesa, della tutela processuale e sostanziale delle parti vengono nel diritto canonico e nella prassi giudiziaria – come si esemplifica (difese di Papaleo, Cioci, Rodi) con particolari riferimenti all’andamento dei processi di nullità matrimoniale nei casi in questione – strettamente osservati. Si afferma altresì (difesa di Filippucci, Rodi, Cioci) che nelle ordinanze di rinvio la Corte di cassazione e le Corti d’appello avrebbero interpretato erroneamente alcuni istituti canonici, senza tener conto del “novus ordo” scaturito dal Concilio Ecumenico Vaticano II. In contrario, però, la difesa della Olivieri si sofferma su molteplici aspetti del processo matrimoniale canonico: giudice non precostituito (presenza, accanto all’officiale, di altri due giudici che lo stesso officiale “designare potest”); amovibilità (sufficienza, per poter rimuovere un giudice, di un semplice accordo tra i vescovi della Conferenza regionale episcopale, in base, bensì, ad una gravis causa, che peraltro potrà essere rappresentata anche da una opinione teologica, e senza neppure un procedimento disciplinare); trattamento deteriore per le parti, se si tratti di acattolici; facoltà del vescovo, nei casi c.d. “excepti”, di dichiarare nullo un matrimonio senza previo processo, né possibilità di appello successivo; mancata assicurazione di un effettivo contraddittorio; mancanza di efficaci sanzioni a carico dei testimoni falsi o reticenti, inadeguatezza del sistema a garantire l’oggettivo interesse della legge di fronte a eventuali collusioni delle parti dirette a vanificare la stabilità del matrimonio (cosa, questa, tanto più grave, in quanto quella iurisdictio é chiamata a risolvere questioni vertenti su tipici diritti indisponibili, come quelli relativi a status personali); esclusione del principio del giudicato, con la conseguenza che – in contrasto non solo con la certezza del diritto, ma anche con l’ordine della famiglia – può persino accadere che la nuova famiglia formata dal coniuge che aveva ottenuto la nullità, sia distrutta da una nuova sentenza che a distanza di anni ritenga invece valido il precedente matrimonio. Tutte norme che nel loro ordine trovano fondamento nella “ratio sacramenti” e nel fine supremo della “salus aeterna animarum”, ma che, nella loro incidenza sull’ordinamento dello Stato, si pongono in netta antitesi con i principi della Costituzione.

Sul punto relativo ai poteri del giudice dell’esecutività, si nega (difesa Papaleo) che il principio dell’ordine pubblico possa farsi rientrare fra i “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”. Le disposizioni degli artt. 796 e seguenti cod. proc. civ., sulla delibazione delle sentenze di autorità giudiziarie di Stati esteri, non hanno una portata generale, giacché ammettono deroghe, in virtù di normative speciali, frutto di intese o accordi di carattere internazionale, anche se (a differenza dalle norme concordatarie) privi di una specifica “copertura costituzionale”. Non é utile, perciò, farvi riferimento. Si replica (difesa della Olivieri) che l’interdire alla Corte d’appello non soltanto di procedere ad un riesame del merito e della legittimità delle pronunce ecclesiastiche in materia matrimoniale, ma financo di esperire i controlli di cui all’art. 797 cod. proc. civ., compreso quello della contrarietà all’ “ordine pubblico”, comporta, a danno dei nostri organi giurisdizionali, una vera e propria deminutio.

Riguardo, infine, al profilo attinente al diverso regime delle cause di nullità del matrimonio, si obietta (difesa Papaleo) che il vizio di consenso funziona da causa di nullità del matrimonio tanto nel diritto canonico quanto nel diritto civile; che anche a questo proposito la normativa differenziata trova giustificazione nell’art. 7, comma secondo, della Costituzione; e che le stesse sentenze di nullità del matrimonio per simulazione, alla luce delle modifiche apportate, con la riforma del diritto di famiglia, all’art. 123 del codice civile, non può dirsi che ledano i principi dell’ordinamento costituzionale. Fra l’altro, poi, i giudici a quibus (secondo le difese di Filippucci, Rodi, Cioci) non avrebbero considerato adeguatamente l’attuale concezione della legge italiana in tema di indissolubilità matrimoniale. In contrario si afferma (difesa Oliva) che solo escludendo la legittimità costituzionale delle norme impugnate, in ordine, quanto meno, alla esecutività di determinate categorie di sentenze di nullità, potrebbe, almeno in parte, ovviarsi all’attuale anacronismo. Si afferma, altresì (difesa Olivieri), che il contrasto fra l’art. 29 della Costituzione e il principio canonistico della nullità del matrimonio per simulazione di una sola delle parti, o perché una sola delle parti ha negato in scrinio pectoris uno dei beni del matrimonio canonico, ha un fondamento ancora più forte di quel che potrebbe apparire dalle motivazioni dei provvedimenti di rimessione. Conclusione che anch’essa trova conferma nelle profonde trasformazioni registratesi, negli ultimi decenni, sotto i più vari aspetti, in seno alla società civile, e che si riflettono nelle tante, e note, innovazioni legislative riguardo a matrimonio e famiglia.

In quasi tutti i giudizi promossi con le suddette ordinanze delle Corti d’appello di Milano e di Roma é intervenuta, per il Presidente del Consiglio dei ministri, l’Avvocatura dello Stato. Le richieste espresse circa la dichiarazione di infondatezza e le argomentazioni esposte negli atti di intervento ripetono pressoché alla lettera quelli dell’intervento nel giudizio promosso dalle Sezioni unite della Corte di cassazione.

In una successiva memoria la difesa del Filippucci ricorda che nell’ordinanza di rinvio, pronunciata nel giudizio in cui il Filippucci é parte, la Corte d’appello di Roma (dopo aver constatato, fra l’altro, che con l’esibizione degli atti della causa trattata innanzi ai tribunali ecclesiastici si era dimostrato che il procedimento si era svolto nel pieno ossequio dei principi del contraddittorio e della difesa) aveva respinto la tesi del contrasto con la Costituzione dell’intero complesso dell’ordinamento canonico in re matrimoniali, e riconosciuta invece la necessità che il giudice dell’esecutività esamini, di volta in volta, la conformità dei singoli provvedimenti ecclesiastici, sottoposti al suo esame, ai sommi principi della Costituzione italiana. Con ciò – si sottolinea – la Corte d’appello anticipava quello che sarebbe stato l’indirizzo poi seguito (e in proposito si citano numerose sentenze) nel riconoscere irrilevante la suddetta questione, dalla Corte di cassazione.

Secondo la memoria, peraltro, l’altra questione che, di conseguenza, il giudice a quo si limita a proporre – quella cioè attinente all’asserita preclusione di ogni potere del giudice italiano nel procedimento di esecutività – sarebbe infondata. Essa infatti risulta sollevata sul presupposto che in base all’art. 34 del Concordato e all’art. 17 della legge matrimoniale, le uniche indagini consentite alla Corte d’appello fossero quelle attinenti al controllo della propria competenza territoriale, della natura concordataria del matrimonio de quo, e della autenticità del decreto trasmesso dal tribunale della Segnatura apostolica. Se é vero – si aggiunge – che in questo senso si é ripetutamente espressa la giurisprudenza, di legittimità e di merito, al punto che in proposito si é giunti a parlare di “diritto vivente”, é anche vero che tale giurisprudenza potrebbe mutare, cedendo di fronte ad una diversa interpretazione che si riveli maggiormente fondata. Alcune affermazioni della sentenza n. 1 e dell’ordinanza n. 2 del 1977 della Corte costituzionale, sembrerebbero aprire la via ad un nuovo e più aperto indirizzo.

In un’altra memoria, presentata dalla difesa del Rodi, si oppone la irrilevanza della prima questione. In proposito, ricordati i nuovi orientamenti delineatisi nell’attuale giurisprudenza della Corte di cassazione, con richiamo alle norme dell’art. 797 cod. proc. civ. sulle condizioni per il riconoscimento delle sentenze straniere, si osserva come non si possa rifiutare la esecutività di una sentenza straniera soltanto perché alcune norme di quell’ordinamento giudiziario straniero e anche del suo ordinamento giuridico in genere, possano essere in contrasto con l’ordine pubblico italiano, se in concreto – nel caso specifico – l’ordine pubblico italiano, processuale o sostanziale, non risulti essere stato violato. Nel merito, comunque, un esame, ampiamente svolto nella memoria, delle diverse norme del processo matrimoniale canonico, rispetto alle quali nell’ordinanza di rinvio si é denunciata l’assenza delle garanzie richieste dai “principi supremi” del nostro ordinamento costituzionale, non lascerebbe dubbi circa l’infondatezza della questione. La questione, anzi non sarebbe stata neppure proposta se la Corte milanese, anziché limitarsi a considerare le fonti anteriori, avesse tenuto conto delle nuove norme introdotte nell’ordinamento canonico dopo il Concilio Vaticano II. Sulla seconda questione (poteri del giudice dell’esecutività) nella memoria si ripropongono le tesi già sostenute dalla difesa del Filippucci. In particolare, per il profilo concernente le pretese insuperabili divergenze fra gli ordinamenti canonico e civile riguardo al regime delle nullità del matrimonio, soprattutto per ciò che riguarda il “simulato consenso”, si osserva anzitutto che i cittadini italiani, i quali, potendo contrarre matrimonio civile, hanno scelto liberamente la forma del matrimonio concordatario, hanno voluto contrarre matrimonio secondo la legge canonica e deliberato così essi stessi di assoggettarsi a questa legge. Peraltro, sostenere che il concetto del matrimonio accolto dalla Carta fondamentale, sia ispirato all’esigenza di tutelare la famiglia valorizzando “il dato oggettivo della dichiarazione fonte di autoresponsabilità e del consenso che si rinnova nella comunanza di vita”, sembra oggi piuttosto avventato, dal momento che é in vigore una legge ritenuta conforme a Costituzione dalla Corte costituzionale, e confermata dal referendum per la quale il matrimonio, anche se celebrato nella forma concordataria, é solubile con il divorzio. Tanto più, poi, che, in base alla legge del 1970 sui casi di scioglimento del matrimonio e alla legge del 1975 per la riforma del diritto di famiglia, la separazione personale tra i coniugi, presupposto del divorzio, può essere ora chiesta e ottenuta (a differenza da quanto in precedenza stabiliva il codice civile) dallo stesso coniuge che con il suo comportamento abbia reso intollerabile la prosecuzione della convivenza. Anche per questo il richiamo dell’ordinanza di rinvio all’art. 29 della Costituzione sarebbe del tutto ininfluente.

6. – L’art. 1 della legge n. 810 del 1929, che rende esecutivo l’art. 34 del Concordato, e l’art. 17 della legge n. 847 del 1929 sono stati impugnati innanzi a questa Corte, con ordinanza 14 aprile 1977, dalla Corte d’appello di Palermo, in quanto, in ordine alla efficacia delle dispense ecclesiastiche dal matrimonio rato e non consumato, apprestando lo strumento formale della relativa declaratoria di esecutività, escludono la garanzia della tutela giurisdizionale di diritti soggettivi e l’esercizio della difesa secondo i principi dell’ordinamento statale.

La questione, formulata in riferimento agli artt. 2, 24 e 102 della Costituzione, é sorta nel corso dello stesso procedimento (per l’esecutività di un rescritto pontificio di concessione di dispensa super matrimonio rato et non consummato, di Amodeo Francesco e Gioia Maria Aurora) nel quale con altra precedente ordinanza (emessa il 23 aprile 1976) la stessa Corte d’appello aveva già sollevato, nei confronti delle medesime norme, analoga eccezione. Avendo questa Corte, nel giudizio allora così promosso, con l’ordinanza n. 2 del 1977, rilevato che “in ordine alla pregiudizialità della sollevata questione rispetto al provvedimento da emettere”, si era omesso “di prendere in considerazione il caso definito col rescritto pontificio e le forme e le modalità del relativo procedimento e di esaminare, in particolare, se la pronunciata dispensa corrisponda ad una richiesta di entrambe le parti o di una sola di esse”, e ordinato perciò la restituzione degli atti al giudice a quo affinché, con particolare riguardo a tali profili, “motivi sulla rilevanza”, la questione viene riproposta in termini più ampi, e con più dettagliati riferimenti al caso di specie.

Prospettati rispetto alle norme procedurali per la dispensa dal matrimonio rato e non consumato, i motivi della non manifesta infondatezza delle questioni (carenza di garanzie nel procedimento ecclesiastico e carenza di poteri del giudice italiano nel procedimento di esecutività) ricalcano, nelle linee essenziali, quelli esposti dalla Corte di cassazione e dalle Corti di appello di Milano e Roma (in riferimento alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici sulle controversie in materia di nullità), negli altri giudizi surriferiti. Dopo avere ricordato le fonti (canone 1973 del codex ed Instructio “Ad unam sacram”del 7 maggio 1923 della Congregazione per la disciplina dei Sacramenti, integrata e parzialmente emendata con successive Instructiones del 27 marzo 1929 e del 7 marzo 1972, in coordinazione con il canone 1963 e con l’art. 206 dell’altra Instructio, “Provida Mater”, del 15 maggio 1936) delle norme del procedimento che secondo il diritto canonico può dar luogo alla dispensa in questione, il giudice a quo osserva che in una delle suddette Instructiones, quella del 1972, tale procedimento é espressamente qualificato “non iudicialis, sed administrativus”, e che il provvedimento di dispensa che eventualmente lo conclude é incontroversamente un provvedimento di grazia sovrana, discrezionale e inoppugnabile, mentre, per converso, in caso di avvenuta consumazione, é suscettibile di caducazione. In coerenza con tali caratteri del procedimento, in esso le parti intervengono come titolari, non di diritti, ma di mere aspettative (allo scioglimento o al mantenimento del vincolo); non possono essere assistite da difensori; non hanno la disponibilità delle prove (potendo solo ricorrere al vescovo contro i provvedimenti da cui si ritengono lese); non prendono neppure cognizione degli atti, tutti coperti da segreto, se non, eventualmente, nei limiti di eccezionali concessioni.

Anche per quel che attiene alla dispensa super matrimonio rato et non consummato, dunque, la disciplina del procedimento canonico differisce radicalmente da quella corrispondente dell’ordinamento giuridico italiano e da quella, in genere, di ogni altro moderno ordinamento statale. E tuttavia – si aggiunge – in forza delle norme di cui si é chiesta la verifica di legittimità costituzionale, i provvedimenti delle autorità ecclesiastiche, emanati secondo quella disciplina, acquistano esecutività nel nostro Stato, attraverso un procedimento che li sottrae agli stessi ordinari controlli stabiliti (artt. 797 e segg. cod. proc. civ.) per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere. Ciò potrebbe ammettersi, secondo il giudice a quo, dato il carattere sacramentale che per la Chiesa e i fedeli ha il matrimonio, se il matrimonio concordatario fosse un matrimonio meramente canonico, ma per le forme con cui si celebra, oltre che per gli effetti, esso é, invece, anche un matrimonio civile. Il rilievo attribuito dall’art. 7 della Costituzione alle norme concordatarie, d’altronde, non basta ad escludere che taluna di esse, se in contrasto con i principi supremi della stessa Costituzione, possa essere ritenuta incompatibile con l’ordinamento giuridico italiano.

Riguardo alla “rilevanza”, nell’ordinanza di rinvio si sottolinea che il giudizio deferito alla Corte costituzionale investe le norme in forza delle quali i rescritti pontifici di dispensa super rato possono acquistare per l’ordinamento dello Stato efficacia esecutiva. Il rapporto di pregiudizialità, rispetto alla decisione che il giudice a quo é chiamato ad emettere nel caso in esame, é dunque evidente. La dichiarazione di esecutività della dispensa pronunciata dall’autorità ecclesiastica nei confronti dell’Amodeo e della Gioia non potrebbe aver luogo se non nel presupposto della vigenza delle norme suddette: in caso contrario, dovrebbe essere rifiutata.

Quanto poi alle concrete modalità di svolgimento del procedimento innanzi alle autorità ecclesiastiche che nel caso ha dato luogo alla dispensa, la Corte palermitana riferisce che, a quanto risulta dal rescritto trasmesso dal tribunale della Segnatura, la Congregazione per la disciplina dei sacramenti fu investita della procedura non direttamente, ma (come l’ordinamento canonico espressamente prevede) attraverso un provvedimento del tribunale ecclesiastico regionale, il quale, adito in un primo tempo per la dichiarazione di nullità del matrimonio “ex capite impotentiae utriusque partis”, avendo constatato come ciò “non plene constaret”, aveva deciso di rimettere gli atti, per la eventuale dispensa, alla Congregazione, la quale aveva espresso parere favorevole alla dispensa, concessa con rescritto del Pontefice.

Riguardo all’eventualità – su cui l’ordinanza n. 2 del 1977 di questa Corte aveva richiamato l’attenzione del giudice a quo – di un accordo delle parti per ottenere la dispensa, la Corte d’appello riconosce che un accordo siffatto, se accertato, avrebbe potuto essere considerato un utile termine di riferimento nella valutazione della congruità della tutela giurisdizionale e delle difese svolte in concreto nel processo canonico. Nel caso, però, dai documenti prodotti si ricava che l’istanza di parte, necessaria per la pronuncia di dispensa, formulata dall’Amodeo, “non ebbe mai l’adesione della Gioia”. Osserva altresì che dagli atti parrebbe che gli assunti dell’Amodeo circa la doppia impotenza relativa e la conseguente mancata consumazione del matrimonio siano stati contestati dalla Gioia e che questa si sia doluta di non essere stata messa in grado di provare dinanzi all’autorità ecclesiastica che il matrimonio era stato consumato. Si tratta però di risultanze soltanto generiche, mentre la possibilità di attingere più complete informazioni sia sullo svolgimento dei suddetti procedimenti canonici, sia sul merito delle questioni in essi dibattute, attraverso un esame diretto degli atti, é esclusa – sottolinea il giudice a quo – oltre che dalla mancanza tra i due ordinamenti di qualsiasi tramite di collegamento (al di fuori di quello stabilito, per la trasmissione dei provvedimenti ecclesiastici destinati ad avere effetti civili, dal tribunale della Segnatura alla Corte d’appello) dal ricordato vincolo del segreto. Sarebbe pertanto vano, oltre che inammissibile, conclude l’ordinanza, far ricorso, per acquisire gli atti del procedimento canonico al giudizio civile, ad una richiesta al tribunale della Segnatura.

Questione sostanzialmente analoga, nel corso del procedimento per l’esecutività della dispensa super rato accordata dalla Congregazione per la disciplina dei sacramenti riguardo al matrimonio fra Bisello Giorgio Alberto e Tuccio Adriana Maria, é stata sollevata, su istanza di parte, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 101 e 102 della Costituzione, nei confronti dei commi quarto, quinto e sesto dell’art. 34 del Concordato, immessi nell’ordinamento giuridico italiano con l’art. 1 della legge n. 810 del 1929, con ordinanza in data 24 aprile 1977 della Corte d’appello di Milano.

Nelle premesse di fatto, l’ordinanza indica i provvedimenti trasmessi dal tribunale della Segnatura, e fa cenno delle fasi già svoltesi del procedimento di esecutività, e delle istanze in esso avanzate. Ai fini della non manifesta infondatezza, la Corte d’appello di Milano, pur facendo specificamente richiamo alla prima (emessa nel 1976) delle due surricordate ordinanze della Corte d’appello di Palermo, riproduce, anche in questa occasione, con identico contenuto testuale, la motivazione degli altri provvedimenti di rimessione da essa emanati a proposito della riserva alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici delle controversie in materia di nullità.

7. – Nel giudizio promosso dalla Corte d’appello di Palermo si é costituito innanzi a questa Corte l’Amodeo, sostenendo, in via pregiudiziale, l’inammissibilità, e, nel merito, l’infondatezza delle eccezioni di incostituzionalità.

Secondo la difesa dell’Amodeo, infatti, le questioni sollevate sarebbero irrilevanti ai fini del decidere:

a) perché il giudice a quo, anzitutto, non avrebbe tenuto nella dovuta considerazione (in relazione anche ai principi enunciati nella sentenza n. 175 del 1973) i rilievi mossi da questa Corte, nella sentenza n. 1 del 1977, alle ordinanze di rinvio, circa i modi in cui le questioni sottoposte al suo giudizio riguardo alla riserva di giurisdizione sulle controversie in materia di nullità, erano state allora formulate, e mancando quindi di riproporre, come sarebbe stato necessario, un contrasto dell’art. 1 della legge n. 810 del 1929 (nella parte in cui immette nel nostro ordinamento il quarto comma dell’art. 34 del Concordato in relazione alla “riserva” in favore dei dicasteri ecclesiastici per la dispensa dal matrimonio rato e non consumato) con supremi principi costituzionali);

b) in secondo luogo perché il giudice a quo, tralasciando di esaminare – come nell’ordinanza di questa Corte, di restituzione degli atti, n. 2 del 1977, gli era stato richiesto – “il caso definito col rescritto pontificio e le forme e le modalità del relativo procedimento”, non avrebbe tenuto conto che tale procedimento si era svolto in modo ineccepibile sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello processuale; che in tutte le fasi di esso il diritto di difesa della convenuta Gioia era stato pienamente rispettato, ed inoltre, in particolare, che all’atto della contestazione della lite il “dubbio” era stato concordato sui due punti dell’esistenza dell’impedimento di impotenza relativa e della inconsumazione del matrimonio, senza che né la convenuta né il suo patrono nulla obiettassero, e che la Gioia aveva chiesto e ottenuto un supplemento di istruttoria per l’audizione di un ginecologo, poi regolarmente escusso.

Nel merito, la difesa dell’Amodeo, dopo aver ricordato che attraverso il procedimento di delibazione previsto dall’art. 801 cod. proc. civ. (per l’attribuzione di efficacia ai provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione) é ammissibile l’introduzione nell’ordinamento interno di provvedimenti che, seppur non giurisdizionali, sono a volte esercizio di attribuzioni sovrane più di quel che non accada per la normale attività giudiziaria, osserva che la pretesa violazione del supremo principio costituzionale della garanzia dei diritti del cittadino, non può farsi dipendere esclusivamente dalla natura (giurisdizionale o amministrativa) del provvedimento, ma se mai andrebbe attribuita al procedimento che lo precede, in quanto esso non sia sufficientemente garantito dall’arbitrio dell’autorità decidente. Nel caso, però – afferma la difesa dell’Amodeo – ciò deve senz’altro escludersi, posto che tutto il procedimento canonico per la concessione del rescritto pontificio é strettamente previsto e codificato in norme scritte (dalle modalità di difesa delle parti all’autorità che lo emette), e che il “potere di grazia”, che nel rescritto si esercita, non é certo fondato, nell’accertamento della “iusta causa dispensationis”, su un’ampia discrezionalità. Anche il giudice italiano, del resto, secondo le norme (di cui mai sotto questo aspetto si é messa in dubbio la legittimità) della legge n. 898 del 1970 sui casi di scioglimento del matrimonio, nel concedere lo scioglimento del vincolo (in tutti i casi, compreso quello della inconsumazione), pur di fronte alla prova dell’assunto, é tenuto sempre ad accertare – questa volta sì con ampi poteri discrezionali – che sia cessata tra i coniugi la comunione spirituale e materiale. Inoltre, se é vero che nel procedimento canonico per la concessione della dispensa non é prevista, per la parte contraria, una vera e propria possibilità di impugnazione, é anche vero che la norma generale del non passaggio in giudicato, applicabile anche in questa materia, consente pur sempre la revisione del rescritto. In definitiva, perciò, secondo la difesa dell’Amodeo, i motivi posti a base dell’ordinanza di rinvio non reggono alla critica, al punto da indurre a concludere che nell’emanarla, di fatto, si sia andati al di là dei poteri che, anche nell’iniziativa dell’incidente di legittimità costituzionale, spettano all’autorità giudiziaria.

Sia nel giudizio promosso dalla Corte d’appello di Palermo sia in quello promosso dalla Corte d’appello di Milano é intervenuta, per il Presidente del Consiglio dei ministri, l’Avvocatura dello Stato. Le deduzioni e conclusioni degli atti di intervento sono identiche a quelle svolte e precisate, riguardo alle questioni sorte sulla giurisdizione matrimoniale dei tribunali ecclesiastici in materia di nullità, nei giudizi promossi dalla Corte di cassazione e dalle Corti d’appello di Milano e Roma.

8. – Alla pubblica udienza del 9 dicembre 1981, dopo che il giudice Antonino De Stefano ha svolto la relazione, gli avvocati Mauro Mellini (per Oliva Lidia, Medugno Liliana e Di Filippo Gigliola) e Paolo Barile (per Di Filippo Gigliola) hanno ribadito i motivi dedotti a sostegno della fondatezza delle questioni sollevate nei relativi giudizi; mentre gli avvocati Cesare Mirabelli (per Filippucci Lorenzo), Corrado Bernardini (per Cioci Nazareno, Filippucci Lorenzo, Rodi Renato e Mazza Ermanno), Leo Leli (per Papaleo Saverio), Pietro Gismondi e Filippo Satta (per Gospodinoff Aldomir) e l’avvocato dello Stato Giorgio Azzariti hanno insistito per la inammissibilità delle questioni medesime, e in subordine per la loro infondatezza.

Considerato in diritto

1. – La Corte é chiamata, dalle ventuno ordinanze dei giudici a quibus, i cui termini e le cui motivazioni sono esposti in narrativa, a pronunciarsi sulle seguenti questioni:

A) Se la riserva alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici delle controversie in materia di nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, operata dall’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810 (Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi, e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929), nella parte in cui dà piena ed intera esecuzione ai commi quarto, quinto e sesto dell’art. 34 del Concordato, nonché dall’art. 17 della legge 27 maggio 1929, n. 847 (recante disposizioni per l’applicazione del Concordato, nella parte relativa al matrimonio: c.d. legge matrimoniale), contrasti con il “principio supremo dell’ordinamento costituzionale dello Stato” posto a garanzia del diritto alla tutela giurisdizionale, e desumibile dagli articoli 2, 3, 7, 24, 25, 101 e 102 della Costituzione, in considerazione dei peculiari ed essenziali aspetti – evidenziati nelle motivazioni delle ordinanze di rinvio – che, riguardo alla posizione dei giudici, ai diritti e alle facoltà delle parti, al regime delle testimonianze, allo svolgimento del procedimento, alla insuscettibilità di passare in giudicato delle sentenze pronunciate in materia, caratterizzano, secondo le norme vigenti, il sistema del processo matrimoniale canonico.

B) Se, ove ritenuta non fondata la questione, come dianzi esposta, inerente alla riserva alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici delle controversie in materia di nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, le stesse norme sopra indicate – in quanto consentono al giudice dello Stato, una volta verificata la regolarità formale della documentazione trasmessagli dal tribunale della Segnatura, soltanto di prendere atto dell’esistenza del provvedimento emesso nell’ordinamento canonico, rendendolo esecutivo agli effetti civili, precludendogli così di accertare: se nel procedimento canonico, in cui é stata resa la sentenza di nullità, sia stato assicurato l’effettivo rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa, se la sentenza sia o meno definitiva, se il tribunale della Segnatura abbia effettivamente esperito i controlli ad esso demandati, se, infine, le disposizioni contenute nella sentenza non siano contrarie all’ordine pubblico italiano – non contrastino con i “principi supremi” desumibili dagli artt. 1, 2, 3, 7, 10, 11, 24, 25, 101 e 102 della Costituzione, con particolare riguardo al diritto di agire e difendersi in giudizio, principi garantiti anche in tema di riconoscimento di sentenze rese in altri ordinamenti; e se, nell’ambito della medesima questione, le denunciate norme non contrastino con principi supremi del sistema costituzionale, desumibili dagli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 29, 31, 101 e 102 della Costituzione, anche sotto un ulteriore profilo, e cioè in quanto – imponendo al giudice dello Stato di rendere esecutive le sentenze ecclesiastiche fondate su cause di nullità non previste dalla legge dello Stato, senza possibilità di rilevarne il conflitto con l’ordine pubblico italiano – introdurrebbero nell’ordinamento dello Stato un tipo di matrimonio contrastante con quello previsto dalla Costituzione, in violazione dei canoni relativi all’uguaglianza dei cittadini senza distinzione di religione, ed al concetto medesimo di matrimonio accolto dalla Costituzione.

C) Se la riserva alla competenza dei dicasteri ecclesiastici della concessione della dispensa “super rato et non consummato” in ordine a matrimonio canonico trascritto agli effetti civili, operata dalle norme sopra indicate, non contrasti con “il principio supremo dell’ordinamento costituzionale dello Stato”, posto a garanzia del diritto alla tutela giurisdizionale, e desumibile dagli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 101 e 102 della Costituzione, in quanto la dispensa medesima costituisce esercizio di un sovrano potere di grazia e si esplica attraverso un provvedimento di natura amministrativa, discrezionale ed insindacabile, adottato in esito ad un procedimento istruttorio di tipo inquisitorio – espressamente definito dalle stesse disposizioni che lo regolano “non iudicialis sed administrativus”- in cui le autorità competenti esercitano a loro volta ampi poteri discrezionali, mentre le parti sono prive dei diritti, in senso proprio, di azione e di difesa, giacché la concessione e il diniego della dispensa sono oggetto di mere aspettative, e nella relativa procedura mancano alle parti la disponibilità delle prove, la possibilità di impugnazione e la pubblicità degli atti, ed é vietata l’assistenza di avvocati e procuratori.

D) Se, ove ritenuta non fondata la questione come dianzi esposta, le norme sopra indicate non contrastino con gl’invocati supremi principi anche in ragione dei particolari limiti che, nello speciale procedimento da esse disciplinato per il conferimento al provvedimento, con cui viene accordata la dispensa super rato et non consummato, della esecutività agli effetti civili, vengono posti ai poteri di cognizione del giudice dello Stato, cui é inibito qualsiasi controllo sullo svolgimento del procedimento canonico e qualsiasi sindacato volto ad accertare che il provvedimento ecclesiastico non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano.

2. – Le ordinanze di rimessione sottopongono alla Corte questioni identiche o connesse; pertanto i relativi giudizi vengono riuniti per esser decisi con unica sentenza.

3. – Da alcune parti costituite in giudizio é stata preliminarmente eccepita, come riferito in narrativa, la inammissibilità, per difetto di rilevanza, della questione innanzi enunciata sub A) obiettandosi che essa é stata sollevata sulla base di un’astratta comparazione dei sistemi processuali di due diversi ordinamenti giuridici, dello Stato e della Chiesa, senza accertare se le norme canoniche, la cui presenza nell’attuale ordinamento del processo matrimoniale canonico renderebbe, secondo i giudici a quibus, costituzionalmente illegittima la contestata riserva alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici, avessero trovato effettiva applicazione nelle specifiche vicende processuali relative alle sentenze di nullità matrimoniale, delle quali si chiede l’esecutività.

L’eccezione va disattesa. Come esattamente si afferma nell’ordinanza emessa dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, “la prospettata violazione del diritto alla tutela giurisdizionale é ricollegabile non ad una lesione verificatasi nella singola fattispecie concreta, sibbene alla strutturazione generale del sistema che, nella sua istituzionalità, sembra insuscettibile di garantire congruamente quella tutela”; per cui “non interessa stabilire se nel procedimento svoltosi dinanzi i tribunali ecclesiastici, che ha dato luogo alla presente controversia, abbiano o meno trovato puntuale applicazione tutte le norme canoniche dianzi ricordate”. In realtà, le norme che vengono sottoposte alla pronuncia di questa Corte non sono né potrebbero essere – le norme canoniche, ma quelle (art. 1 della legge n. 810 del 1929 e art. 17 della legge n. 847 del 1929) che, dando esecuzione ed attuazione alle norme concordatarie (commi quarto, quinto e sesto dell’art. 34), precludono alla giurisdizione statuale la cognizione delle controversie in materia di nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili e disciplinano il procedimento inteso a conferire esecutività nell’ordinamento dello Stato alle sentenze ecclesiastiche di nullità di tali matrimoni. Palese é, pertanto, l’incidenza delle denunciate norme nei giudizi a quibus, che non potrebbero più proseguire, e raggiungere lo scopo cui sono preordinati, qualora la questione, sollevata nel corso dei giudizi medesimi, fosse dichiarata fondata. Il prospettato dubbio di legittimità costituzionale investe direttamente le norme in parola, assumendosi un loro contrasto con i principi supremi scaturenti dalla Costituzione a presidio del diritto alla tutela giurisdizionale in tutte le sue possibili estrinsecazioni, per il fatto stesso che esse sostituiscono, in subiecta materia, alla giurisdizione statuale – il cui sistema, secondo quanto la Costituzione vuole assicurato, deve ispirarsi ai criteri fondamentali dell’imparzialità, della indipendenza e della precostituzione del giudice, nonché del potere di ciascuno di agire in giudizio e di esercitare in ogni stato e grado del procedimento il diritto inviolabile di difesa – la giurisdizione ecclesiastica, le cui singole caratteristiche cospirerebbero tutte a delineare un sistema non soltanto profondamente diverso, ma soprattutto non riconducibile ai menzionati criteri. Ed é solo a sostegno di quest’ultimo assunto che le norme canoniche indicate nelle ordinanze di rimessione vengono appunto evocate dai giudici a quibus, quali sintomi rivelatori dell’addotta inconciliabilità del sistema processuale canonico, che esse stesse concorrono a caratterizzare, con il sistema processuale statuale, dominato dalla preminente garanzia del diritto alla tutela giurisdizionale: onde non si pone il problema della loro concreta specifica incidenza nei giudizi da cui muove la questione.

4. – Nel merito, la questione puntualizzata sub A) non é fondata. Va preliminarmente ricordato che questa Corte ha già più volte affermato, a partire dalle sentenze nn. 30, 31 e 32 del 1971, che le norme del Concordato, immesse nell’ordinamento italiano dalla legge n. 810 del 1929, pur fruendo della “copertura costituzionale” fornita dall’art. 7 della Costituzione, non si sottraggono al sindacato di legittimità costituzionale, che in tal caso, peraltro, resta limitato e circoscritto al solo accertamento della loro conformità o meno ai “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”; accertamento, cui la Corte procede mantenendosi sempre nell’ambito della questione così come le é stata deferita e in riferimento a principi che siano desumibili dai parametri costituzionali indicati dal giudice a quo.

In siffatta prospettiva e nei cennati limiti, la Corte, appunto con la sentenza n. 30 del 1971, dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto, sempre per il tramite dell’art. 1 della legge n. 810 del 1929, gli stessi commi quarto, quinto e sesto dell’art. 34 del Concordato, del cui esame é ora investita, denunciati allora “con riferimento all’art. 102, comma secondo, della Costituzione, in quanto cioè i tribunali ecclesiastici competenti a pronunziarsi sulla nullità dei matrimoni concordatari sarebbero giudici speciali non previsti dalla Costituzione stessa”. La Corte ritenne, invece, che non fosse violato il principio della unità della giurisdizione dello Stato, cui appare ispirato l’indicato precetto costituzionale, in quanto il “rapporto fra organi della giurisdizione ordinaria e organi della giurisdizione speciale deve ricercarsi nel quadro dell’ordinamento giuridico interno, al quale i tribunali ecclesiastici sono del tutto estranei”.

Successivamente, la riserva alla cognizione esclusiva dei tribunali ecclesiastici delle controversie in materia di nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, operata dai ripetuti commi quarto, quinto e sesto dell’art. 34 del Concordato, era nuovamente sottoposta all’esame di questa Corte, in riferimento agli artt. 1, comma secondo, 3, comma primo, 11, 24, commi primo e secondo, 25, comma primo, 101, comma primo, 102, commi primo e secondo, della Costituzione. Anche questa volta la questione veniva dichiarata non fondata, con la sentenza n. 175 del 1973. Circa l’addotta incompatibilità della giurisdizione dei tribunali ecclesiastici in subiecta materia con il principio della sovranità dello Stato italiano, veniva affermato che “una inderogabilità assoluta della giurisdizione statale non risulta da espresse norme della Costituzione, né é deducibile, con particolare riguardo alla materia civile, dai principi generali del nostro ordinamento, nel quale ipotesi di deroga sono stabilite da leggi ordinarie”. Considerava poi la Corte che “riconosciuta la compatibilità con il nuovo ordinamento costituzionale di una deroga alla giurisdizione che sia razionalmente e politicamente giustificabile”, la deroga introdotta dalle denunciate norme trovava appunto giustificazione “nel complesso sistema che, riconoscendo effetti civili al matrimonio così come disciplinato dal diritto canonico, non irrazionalmente devolve ai tribunali ecclesiastici la cognizione delle cause di nullità del matrimonio”. Nella pronuncia di non fondatezza così motivata restavano assorbiti, ad avviso della Corte, anche i diversi profili dedotti dal giudice a quo con riferimento agli artt. 24, 25 e 102, comma secondo, della Costituzione. Soggiungeva in proposito la Corte, in relazione all’addotta violazione del principio del giudice naturale, di cui all’art. 25 della Costituzione, che dovendosi considerare “giudice naturale” quello “precostituito per legge”, tale espressamente risultava essere il tribunale ecclesiastico proprio in quanto designato dalle norme impugnate.

Nella coeva sentenza n. 176 del 1973 la Corte poi, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, recante disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, sollevata in riferimento agli artt. 7 e 138 della Costituzione, in relazione appunto all’art. 34 del Concordato ed alla legge di esecuzione n. 810 del 1929, nonché agli artt. 5 e 17 della legge n. 847 del 1929, affermava che la riserva di giurisdizione ai tribunali ecclesiastici delle cause di nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, ed il connesso riconoscimento di effetti civili alle sentenze dichiarative di tale nullità, “sono coerenti con l’impegno assunto di considerare l’atto del matrimonio, validamente sorto nell’ambito dell’ordinamento canonico, quale presupposto cui attribuire – dopo l’intervenuta trascrizione – gli effetti civili”.

La legittimità costituzionale della riserva disposta dall’articolo 34 del Concordato a favore della giurisdizione ecclesiastica é stata, dunque, già riconosciuta da questa Corte – come vien ricordato anche nella sentenza n. 1 del 1977 – in relazione a principi supremi che sono stati desunti da parametri costituzionali in gran parte coincidenti con gli stessi parametri invocati nella presente controversia. Ai parametri suddetti i giudici a quibus fanno invero riferimento per assumere che la riserva de qua agitur concreti, in relazione alle peculiari caratteristiche che diversificano il sistema processuale canonico da quello statuale, una violazione del diritto alla tutela giurisdizionale. Diritto, questo, che la Corte ha già annoverato “fra quelli inviolabili dell’uomo, che la Costituzione garantisce all’art. 2” (sent. n. 98 del 1965

), e che non esita ora ad ascrivere tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui é intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio. Non può dunque rifiutarsi ingresso alla proposta questione intesa a verificare se con tale principio supremo contrastino le denunciate norme concordatarie, pur assistite da copertura costituzionale. Come già messo in luce dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte, le suddette disposizioni hanno sostituito, in subiecta materia, la giurisdizione ecclesiastica alla giurisdizione statuale. Ma non per questo ne risulta vulnerato il principio supremo del diritto alla tutela giurisdizionale, atteso che, nelle controversie relative alla nullità di matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, un giudice e un giudizio sono pur sempre garantiti: e si tratta di organi e di procedimenti, la cui natura giurisdizionale é suffragata da una tradizione plurisecolare. Certo, non può negarsi che l’organizzazione e l’esercizio della funzione giurisdizionale, in re matrimoniali, nell’ordinamento della Chiesa appaiono, sotto taluni aspetti, ispirati a criteri non sempre conformi a quelli che caratterizzano l’organizzazione e l’esercizio della funzione giurisdizionale nell’ordinamento dello Stato; anche se il divario si attenua alla luce dei principi proclamati dalle costituzioni e dai decreti del Concilio Vaticano II. Ma va, da un canto, ricordato che le difformità traggono per lo più la loro ragion d’essere dalle stesse finalità spirituali cui é preordinato l’ordinamento della Chiesa, il quale, pur con i connotati esplicitamente riconosciuti dal primo comma dell’art. 7 della Costituzione, si modella nondimeno siccome un ordinamento per sua stessa natura dissimile da quello dello Stato. D’altro canto, il diritto alla tutela giurisdizionale si colloca al dichiarato livello di principio supremo solo nel suo nucleo più ristretto ed essenziale, cui si é innanzi accennato; ma tale qualifica non può certo estendersi ai vari istituti in cui esso concretamente si estrinseca e secondo le mutevoli esigenze storicamente si atteggia, pur se taluni di questi istituti siano garantiti da precetti costituzionali. Con i quali ultimi una volta riconosciuto indenne il principio supremo – non é consentito accertare se specificamente contrastino, in ragione della diversa disciplina dei corrispondenti istituti del processo matrimoniale canonico, le denunciate norme concordatarie, atteso che a questo minor livello opera, come più volte affermato da questa Corte, la copertura costituzionale dalla quale esse sono assistite.
Pertanto la Corte, nel confermare la sua precedente giurisprudenza in materia, ritiene che anche sotto il profilo esaminato in questa occasione la riserva alla giurisdizione ecclesiastica delle cause di nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, pur con le innegabili diversità che nei vari istituti processuali tale giurisdizione presenta rispetto alla giurisdizione statuale, non é incompatibile con l’ordinamento costituzionale. Detta riserva appare poi funzionalmente connessa alla disciplina del negozio matrimoniale canonico, cui il medesimo art. 34 del Concordato riconosce, mediante la trascrizione del relativo atto, efficacia civile. Se il negozio cui si attribuiscono effetti civili, nasce nell’ordinamento canonico e da questo é regolato nei suoi requisiti di validità, é logico corollario che le controversie sulla sua validità siano riservate alla cognizione degli organi giurisdizionali dello stesso ordinamento, conseguendo poi le relative pronunce dichiarative della nullità la efficacia civile attraverso lo speciale procedimento di delibazione, anch’esso strutturato dall’art. 34 del Concordato. In ciò va ravvisata appunto quella giustificazione razionale e politica della deroga alla giurisdizione statuale, cui questa Corte, come dianzi ricordato, si é riferita nella sentenza n. 175 del 1973. La riserva in parola costituisce perciò uno dei cardini del vigente sistema concordatario matrimoniale, e di ciò era ben consapevole il Costituente allorché nel secondo comma dell’art. 7 della Costituzione ha fatto esplicita menzione dei Patti Lateranensi.

Né a diversa conclusione potrebbero indurre gli argomenti svolti nelle ordinanze di rimessione, secondo cui ogni rinunzia dello Stato alla propria giurisdizione postula necessariamente – ai fini dell’accertamento della sua compatibilità con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale – la puntuale verifica del grado di tutela assicurato dal sistema giurisdizionale che viene a sostituirsi a quello statuale. In proposito i giudici a quibus si appellano alla verifica circa l’ampiezza della tutela giurisdizionale che gli ordinamenti delle Comunità europee assicurano contro gli atti dei loro organi eventualmente lesivi di diritti dei singoli soggetti, sulla quale ha fatto leva la sentenza n. 98 del 1965, con cui questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli artt. 102 e 103 della Costituzione, con riguardo alla pretesa specialità della Corte di giustizia delle Comunità come organo di giurisdizione, e al contenuto della tutela giurisdizionale dalla medesima garantita. Ma come giustamente obietta la difesa di una parte costituita in giudizio (Gospodinoff), non può instaurarsi sotto il dedotto profilo un parallelismo di situazioni tra Corte di giustizia delle Comunità europee e tribunali ecclesiastici, in quanto l’elemento discriminatore che a tal proposito si rivela decisivo, e che giustifica nel richiamato precedente la operata verifica del “grado di efficienza” del sistema giurisdizionale comunitario, é appunto – in relazione alle caratteristiche del processo di integrazione europea – la diretta efficacia nell’ordinamento dello Stato (in forza degli artt. 44 e 92 del Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, reso esecutivo con legge 25 giugno 1952, n. 766, nonché degli artt. 187 e 192 del Trattato che istituisce la Comunità economica europea, e 159 e 164 del Trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica, entrambi resi esecutivi con legge 14 ottobre 1957, n. 1203) delle sentenze che promanano dalla Corte di giustizia, senza che sia previsto alcun controllo giurisdizionale ad opera del giudice italiano. Le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio sono, invece, soggette ad uno “speciale procedimento di delibazione affidato alla Corte d’appello”, nel quale “l’intervento del giudice italiano in certa misura si realizza, sia pure con cognizione limitata”(sentenza di questa Corte n. 175 del 1973). L’affinità, da species a genus, che tale procedimento rivela rispetto al normale giudizio di delibazione delle sentenze straniere, quale disciplinato dall’art. 797 cod. proc. civ., conferma che, ai fini della presente pronuncia sull’asserito contrasto della riserva alla giurisdizione ecclesiastica delle cause di nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, con il supremo principio del diritto alla tutela giurisdizionale, sarebbe ininfluente ed esorbitante la proposta verifica dell’adeguatezza della tutela medesima, quale in concreto assicurata dalla giurisdizione ecclesiastica. Se poi i limiti posti ai poteri del giudice italiano chiamato a rendere esecutiva la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, incidano, come ipotizza la sentenza di questa Corte n. 1 del 1977, sull’adeguatezza della tutela giurisdizionale, é dubbio che ricade nell’ambito della questione puntualizzata sub B), sulla quale la Corte passa a pronunciarsi, una volta dichiarata non fondata la questione sub A).

5. – La seconda questione di legittimità costituzionale, enunciata sub B), “dà per scontata – come leggesi nell’ordinanza emessa dalle Sezioni unite della Corte di cassazione – la conformità alla Costituzione della riserva di giurisdizione in favore dei tribunali ecclesiastici e considera invece i limiti dei poteri del giudice dell’esecutività, quali risultano dalla consolidata interpretazione data dalla giurisprudenza alle norme in esame”.

Nella interpretazione delle denunciate norme, accolta dai giudici a quibus, la pronuncia di esecutività sarebbe contraddistinta da una sorta di “automaticità”. Infatti la Corte d’appello potrebbe verificare soltanto la mera regolarità formale della documentazione proveniente dal tribunale della Segnatura, mentre le sarebbe precluso qualsiasi sindacato sul procedimento svoltosi innanzi al giudice ecclesiastico. In particolare il giudice italiano non potrebbe accertare:

a) l’effettivo rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa nel procedimento in cui é stata resa la sentenza di nullità;

b) la definitività di tale sentenza;

c) la reale effettuazione, da parte del tribunale della Segnatura, dei controlli, previsti dal quinto comma dell’art. 34 del Concordato, sulla osservanza nel processo matrimoniale canonico delle norme relative alla competenza del giudice, alla citazione ed alla legittima rappresentanza o contumacia delle parti;

d) se la sentenza di nullità contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano, in contrasto con il disposto dell’art. 797, n. 7, del codice di procedura civile.

La Corte preliminarmente rileva che, ancor prima della Costituzione, autorevole dottrina contestava la tesi, seguita in giurisprudenza, della “automaticità” della pronuncia, interpretando le norme regolatrici del procedimento per la esecutività delle sentenze ecclesiastiche di nullità di matrimoni canonici trascritti agli effetti civili (quinto e sesto comma dell’art. 34 del Concordato e art. 17 della legge matrimoniale), nel senso che la Corte di appello fosse tenuta ad accertare la conformità delle sentenze medesime ai principi dell’ordine pubblico. Entrata in vigore la Costituzione, si sottolineò in dottrina l’esigenza che l’applicazione della normativa concordataria si adeguasse ai principi dell’ordinamento costituzionale, e che pertanto, in siffatta prospettiva, il procedimento ex art. 17 della legge matrimoniale dovesse garantire il contraddittorio e la conformità delle sentenze ecclesiastiche ai principi dell’ordine pubblico. Né sono mancate negli ultimi anni sentenze, anche della Corte di cassazione, ispirate ad una interpretazione delle denunciate norme diversa da quella che costituisce la base di partenza delle ordinanze di rimessione. Così, nel riflesso che il procedimento in parola configuri un adattamento dell’ordinario giudizio di delibazione delle sentenze straniere alla speciale materia oggetto delle norme pattizie, é stato ritenuto che alla Corte d’appello sono devoluti, oltre che i controlli formali, anche il riscontro degli adempimenti corrispondenti alle prime quattro condizioni previste dall’art. 797 del codice di procedura civile, nonché l’accertamento che la sentenza ecclesiastica non contrasti con l’ordine pubblico italiano, nei limiti consentiti dalla copertura costituzionale delle norme concordatarie. Peraltro, poiché tale “giurisprudenza innovatrice”, cui si rifanno alcune parti costituite in giudizio per concludere a favore della non fondatezza della questione, non può allo stato dirsi decisamente prevalente su quella, mantenutasi costante nell’arco di più decenni, dalla quale muovono le ordinanze di rimessione, la Corte si attiene, ai fini della pronuncia sulle denunciate norme, alla interpretazione che di queste viene addotta dai giudici a quibus, e tra questi, in particolare, delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione.

In siffatti termini la questione é fondata. Le norme denunciate, interpretate come dianzi esposto, incidono profondamente e radicalmente sui poteri che in via generale sono attribuiti al giudice, in correlazione con i prescritti accertamenti, allorché sia chiamato a dichiarare l’efficacia nell’ordinamento dello Stato italiano di sentenze emesse in ordinamenti a questo estranei. Ed invero, nello speciale procedimento da esse disciplinato, la mutilazione e la vanificazione dei cennati poteri del giudice italiano, la preclusione di qualsiasi sindacato che esorbiti dall’accertamento della propria competenza e dalla semplice constatazione che la sentenza di nullità sia anche accompagnata dal decreto del tribunale della Segnatura apostolica e sia stata pronunciata nei confronti di matrimonio canonico trascritto agli effetti civili, degradano la funzione del procedimento stesso ad un controllo meramente formale. Così strutturato, nella sua concreta applicazione lo speciale procedimento di delibazione elude due fondamentali esigenze, che il giudice italiano nell’ordinario giudizio di delibazione é tenuto a soddisfare, prima di dischiudere ingresso nel nostro ordinamento a sentenze emanate da organi giurisdizionali ad esso estranei: l’effettivo controllo che nel procedimento, dal quale é scaturita la sentenza, siano stati rispettati gli elementi essenziali del diritto di agire e resistere a difesa dei propri diritti, e la tutela dell’ordine pubblico italiano onde impedire l’attuazione nel nostro ordinamento delle disposizioni contenute nella sentenza medesima, che siano ad esso contrarie.

Sia l’una che l’altra esigenza si ricollegano e muovono da principi, ai quali si ispirano i parametri costituzionali invocati dai giudici a quibus. Il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti – strettamente connesso ed in parte coincidente con il diritto alla tutela giurisdizionale cui si é fatto dianzi riferimento – trova la sua base soprattutto nell’art. 24 della Costituzione. La inderogabile tutela dell’ordine pubblico, e cioè delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società, é imposta soprattutto a presidio della sovranità dello Stato, quale affermata nel comma secondo dell’art. 1, e ribadita nel comma primo dell’art. 7 della Costituzione. Entrambi questi principi vanno ascritti nel novero dei “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”, e pertanto ad essi non possono opporre resistenza le denunciate norme, pur assistite dalla menzionata copertura costituzionale, nella parte in cui si pongono in contrasto con i principi medesimi: nella parte, cioè, in cui non dispongono che il giudice italiano, nello speciale procedimento da esse disciplinato, sia tenuto a quegli accertamenti, e sia all’uopo munito dei relativi poteri, volti ad assicurare il rispetto delle fondamentali esigenze dianzi indicate.

Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 810 del 1929, limitatamente all’esecuzione data al sesto comma dell’art. 34 del Concordato, nonché del secondo comma dell’art. 17 della legge n. 847 del 1929, nella parte in cui tali norme non prevedono che alla Corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di matrimonio canonico trascritto agli effetti civili, spetta accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza medesima non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano.

Resta in conseguenza assorbito, per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale delle denunciate norme in parte qua, l’ulteriore profilo, dedotto nell’ambito della medesima questione, circa la incompatibilità con i principi supremi desumibili dagli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 29, 31, 101, 102 della Costituzione, delle stesse norme, in quanto, precludendo al giudice dello Stato di accertare l’eventuale contrasto con l’ordine pubblico italiano, gl’impongono di rendere esecutive le sentenze ecclesiastiche fondate su cause di nullità non previste dalla legge dello Stato, introducendo così nell’ordinamento dello Stato un tipo di matrimonio contrastante con quello previsto dalla Costituzione.

6. – La Corte passa quindi ad esaminare la questione concernente la riserva alla competenza dei dicasteri ecclesiastici della concessione della dispensa super rato et non consummato, in ordine a matrimonio canonico trascritto agli effetti civili, sollevata, come riferito in narrativa, dalle Corti d’appello di Palermo e di Milano, e puntualizzata sub C). Dalle ordinanze di rimessione si assume che i commi quarto, quinto e sesto dell’art. 34 del Concordato (cui l’art. 1 della legge n. 810 del 1929 ha dato esecuzione) e l’art. 17 della legge n. 847 del 1929, nel disporre la cennata riserva, violerebbero il diritto alla tutela giurisdizionale, desumibile dagli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 101, 102 della Costituzione, in quanto la dispensa medesima viene concessa discrezionalmente, a conclusione di un procedimento di natura amministrativa.

La difesa di una parte costituita in giudizio (Amodeo) ha eccepito la inammissibilità, per difetto di rilevanza, della proposta questione, non avendo il giudice a quo (Corte di appello di Palermo) tenuto conto che, nella specie, il procedimento canonico concluso con la dispensa, della quale si chiede la esecutività, si era svolto, a suo dire, in modo ineccepibile sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello processuale, e che in tutte le fasi di esso era stato pienamente rispettato il diritto delle parti alla difesa. Ma nell’ordinanza di rinvio si denuncia il contrasto tra la struttura del procedimento canonico e i principi che nell’ordinamento statale presiedono alla tutela giurisdizionale dei diritti e all’esercizio della difesa, a prescindere dalle peculiarità dello svolgimento del procedimento medesimo nella fattispecie in esame. L’eccezione va pertanto disattesa per le stesse ragioni, in base alle quali la Corte ha respinto l’analoga eccezione mossa in punto di rilevanza della questione enunciata sub A).

Nel merito la questione é fondata.

Rileva la Corte, che nell’ordinamento canonico, a norma del can. 1119 del Codex, “matrimonium non consummatum… dissolvitur… per dispensationem a Sede Apostolica ex iusta causa concessam, utraque parte rogante vel alterutra, etsi altera sit invita”. Il provvedimento di dispensa incide sul rapporto e non sull’atto, in quanto scioglie con effetto ex nunc un rapporto matrimoniale instaurato sulla base di un matrimonio validamente contratto. La richiesta della dispensa é direttamente rivolta al Sommo Pontefice: “per supplicem petitionem imploratur gratia ex benigna Summi Pontificis concessione obtinenda” (cfr. Instructio del 7 marzo 1972 della Congregazione per la disciplina dei sacramenti). Il relativo procedimento é di competenza dell’anzidetta Congregazione, ma l’istruttoria di norma e demandata agli Episcopi dioccesani, i quali provvedono ad instruere processum e a trasmettere quindi il proprio voto pro rei veritate alla stessa Congregazione per la decisione finale, che viene adottata con rescritto pontificio. La già citata Instructio avverte che “processus super matrimonio rato et non consummato non est iudicialis sed administrativus, ac proinde differt a processu iudiciali pro causis nullitatis matrimonii”.

Pertanto, pur dando atto che il procedimento per ottenere la dispensa super rato é minuziosamente disciplinato da apposite norme, che l’istruttoria viene dall’Ordinario diocesano affidata ad un tribunale, con l’intervento del Defensor vinculi e con la possibilità per ambo le parti di farsi assistere da consulenti, che il “voto” viene espresso sulla base delle risultanze istruttorie, non può certo, sulla scorta anche delle testuali precisazioni fornite dalla richiamata normativa, riconoscersi carattere giurisdizionale, né al procedimento né al provvedimento concessivo che lo conclude.

Ora le denunciate norme – con il riservare ai “dicasteri ecclesiastici” la competenza a pronunciarsi in via amministrativa sulla risoluzione del rapporto matrimoniale validamente instaurato, mediante un provvedimento amministrativo che, attraverso il procedimento di esecutività disciplinato dalle norme medesime, acquista efficacia anche nell’ordinamento dello Stato, facendo cessare gli effetti civili del matrimonio canonico regolarmente trascritto ed incidendo così sulla condizione giuridica dei coniugi – configurano un’alternativa alla giurisdizione statuale. Allo Stato, invero, appartiene – come ribadito da questa Corte con la sentenza n. 169 del 1971 – la disciplina del vincolo matrimoniale, derivi esso da matrimonio civile o da matrimonio canonico trascritto agli effetti civili; ed ai tribunali dello Stato la legge 1 dicembre 1970, n. 898, ha demandato di giudicare con carattere di generalità, tanto nei casi di “scioglimento del matrimonio contratto a norma del codice civile” (art. 1), quanto nei casi di “cessazione degli effetti civili” di matrimonio “celebrato con rito religioso e regolarmente trascritto” (art. 2). E tra i casi per cui può chiedersi a questi tribunali “lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio” figura anche l’ipotesi che “il matrimonio non é stato consumato” (art. 3, n. 2, lett. f della citata legge).

Ben vero che – secondo quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 176 del 1973, nella quale, peraltro, come già detto, la questione verteva sulla legittimità costituzionale della legge n. 898 del 1970 e non della normativa concordataria con la quale quest’ultima veniva messa a raffronto – la introduzione, nella legge medesima, “di una serie di cause di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario lascia intatte le riserve dell’art. 34 del Concordato”, tra le quali figura appunto la riserva per la dispensa dal matrimonio rato e non consumato. Ma tale riserva, concretando un’alternativa alla giurisdizione dei tribunali dello Stato, non può sottrarsi, benché disposta con norma concordataria, fornita quindi di copertura costituzionale, alla richiesta verifica se nel suo ambito sia ugualmente assicurato quel diritto alla tutela giurisdizionale, cui questa Corte, come dianzi affermato, riconosce dignità di supremo principio dell’ordinamento costituzionale. E la risposta al quesito non può non essere negativa, essendo incontestabile che la tutela giurisdizionale dei diritti, pur considerata nel suo nucleo più ristretto ed essenziale, non possa certo realizzarsi in un procedimento, il cui svolgimento e la cui conclusione trovano dichiaratamente collocazione nell’ambito della discrezionalità amministrativa, e nel quale non vengono quindi garantiti alle parti un giudice e un giudizio in senso proprio. A differenza di quanto si é, invece, constatato, nelle pagine che precedono, per le controversie relative alla nullità dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, per le quali la riserva, ugualmente disposta dall’art. 34 del Concordato, opera in favore di organi e di procedimenti aventi natura giurisdizionale. Riserva, quest’ultima, a sostegno della quale, per di più, militano le giustificazioni, dianzi ricordate, d’ordine razionale e politico, sulle quali poggia il vigente sistema concordatario matrimoniale, e che non possono, invece, essere ugualmente addotte per la riserva alla competenza dei dicasteri ecclesiastici, ai fini della successiva loro efficacia civile, dei provvedimenti di dispensa super rato. Infatti la dispensa non concerne – come già si é detto – l’atto del matrimonio, bensì il rapporto matrimoniale, nel presupposto della validità dell’atto.

La constatata violazione del supremo principio del diritto alla tutela giurisdizionale, desunto dai parametri costituzionali invocati dai giudici a quibus, che vuole siano in ogni caso assicurati, a chiunque e per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio – tanto più allorché si tratti, come nella specie, di mutamento giuridico non realizzabile nel nostro ordinamento se non attraverso una pronuncia costitutiva del giudice (sentenza n. 176 del 1973) – comporta la dichiarazione della illegittimità costituzionale delle denunciate norme, nella parte in cui le stesse prevedono che la dispensa dal matrimonio rato e non consumato, ottenuta attraverso l’apposito procedimento amministrativo canonico, possa produrre effetti civili nell’ordinamento dello Stato.

Resta in conseguenza assorbita la questione puntualizzata sub D), in ordine alla legittimità costituzionale dei limiti posti ai poteri di cognizione del giudice dello Stato nello speciale procedimento per conferire esecutività agli effetti civili al provvedimento di dispensa super rato, procedimento che per effetto della presente pronuncia non ha più ragion d’essere.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i procedimenti iscritti ai nn. 303, 313, 329, 355, 385, 407, 434, 451, 452, 501 R.O. 1977; 68, 79 R.O. 1978; 10, 11, 12, 13, 625, 626, 1025 R.O. 1979; 419, 527 R.O. 1980,

1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 101 e 102 della Costituzione, con le ordinanze emesse in data 31 marzo 1977 dalla Corte di cassazione (R.O. n. 434 del 1977), 3 maggio 1977, 6 maggio 1977 (due ordinanze) dalla Corte d’appello di Roma (R.O. nn. 501, 303 e 385 del 1977), 15 aprile 1977, 3 giugno 1977 (due ordinanze), 14 ottobre 1977, 30 giugno 1978 (tre ordinanze), 13 ottobre 1978, 23 marzo 1979, 27 aprile 1979, 18 maggio 1979, 25 gennaio 1980 e 15 febbraio 1980 dalla Corte d’appello di Milano (R.O. nn. 329 e 452 del 1977, 79 e 68 del 1978, 10, 11, 12, 13, 625, 626 e 1025 del 1979, 527 e 419 del 1980), dell’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810 (Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi, e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929), nella parte in cui dà piena ed intera esecuzione ai commi quarto, quinto e sesto dell’art. 34 del Concordato, e dell’art. 17 della legge 27 maggio 1929, n. 847 (Disposizioni per l’applicazione del Concordato dell’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, nella parte relativa al matrimonio);

2) dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810 (Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi, e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929), limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, comma sesto, del Concordato, e dell’art. 17, comma secondo, della legge 27 maggio 1929, n. 847 (Disposizioni per l’applicazione del Concordato dell’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, nella parte relativa al matrimonio), nella parte in cui le norme suddette non prevedono che alla Corte d’appello, all’atto di rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la nullità del matrimonio, spetta accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza medesima non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano;

3) dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810 (Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi, e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929), limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, commi quarto, quinto e sesto, del Concordato, e dell’art. 17 della legge 27 maggio 1929, n. 847 (Disposizioni per l’applicazione del Concordato dell’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, nella parte relativa al matrimonio), nella parte in cui le suddette norme prevedono che la Corte d’appello possa rendere esecutivo agli effetti civili il provvedimento ecclesiastico, col quale é accordata la dispensa dal matrimonio rato e non consumato, e ordinare l’annotazione nei registri dello stato civile a margine dell’atto di matrimonio.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 gennaio 1982.

Leopoldo ELIA – Edoardo VOLTERRA – Michele ROSSANO – Antonino DE STEFANO – Guglielmo ROEHRSSEN – Oronzo REALE – Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI – Livio PALADIN – Arnaldo MACCARONE – Antonio LA PERGOLA – Virgilio ANDRIOLI – Giuseppe FERRARI – Francesco SAJA.

Giovanni VITALE – Cancelliere

Depositata in cancelleria il 2 febbraio 1982.