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    Sentenza 03 ottobre 1980

    Vilipendio della religione dello Stato e spettacoli televisivi

    Data: 03 ottobre 1980
    Autore:
    Pretura
    Argomento:
    Tutela penale, Vilipendio
    Nazione:
    Italia
    Parole chiave:
    Libertà dei culti, Vilipendio della religione dello Stato, Dolo generico e dolo specifico, Vilipendio mediante offese dirette al patrimonio dogmatico
    Per la punibilità del delitto di vilipendio della religione dello Stato, considerata quale entità astratta ed indipendentemente dalle sue manifestazioni esteriori, è necessario che l’agente sia consapevole della idoneità della sua condotta e si proponga proprio il raggiungimento di siffatto scopo.

    Pretura di Roma, Sentenza 3 ottobre 1980: “Vilipendio della religione dello Stato e spettacoli televisivi”

    (Omissis)

    Con distinti atti, datati 14, 10 maggio e 23 novembre 1979, D.M., R.G., G.E., P.N., A.U., E.F. e altri denunciavano che la Rai-Radiotelevisione italiana aveva diffuso, il 28 aprile e il 22 novembre dello stesso anno, sulla prima rete Tv, due spettacoli, “Luna Park” e “Effetto smorfia”, nei quali era inserita una scenetta ispirata in chiave comica all’episodio evangelico dell’annunciazione a Maria che, per il linguaggio usato dagli interpreti, i loro atteggiamenti, i costumi adottati e, più in generale, per il tenore del testo recitato, appariva chiaramente diretta a porre nel ridicolo l’essenza stessa della religione cattolica e inficiarne, quindi, la credibilità.

    Acquisita la trascrizione del brano trasmesso e interrogati, nella qualità di imputati del reato di cui all’art. 402 del codice penale, D.S., direttore, all’epoca dei fatti, della prima rete televisiva, G.S., direttore della quinta struttura di programmazione della rete uno, I.G., direttore della terza struttura della stessa rete, e R.A., V.P. e M.T. autori e interpreti dello “sketch”, si osserva.

    L’ipotesi criminosa dell’art. 402 del codice penale ha carattere generico rispetto a quelle specifiche degli artt. 403 e 404. Essa riguarda la religione dello Stato, cioè la religione cattolica romana, considerata in se stessa, nei suoi principi fondamentali, quale entità astratta, indipendentemente dalle sue manifestazioni esteriori. Per la sussistenza del reato è necessario, quindi, che l’offesa sia diretta contro l’essenza stessa della religione, contro l’idea stessa di Dio, contro i suoi dogmi, le sue verità universali e indiscutibili, i suoi riti, non semplicemente contro le persone e le cose che la rappresentano. È necessario, altresì, che l’agente sia consapevole della idoneità della sua condotta a vilipendere la religione intesa nel senso precisato e si proponga proprio il raggiungimento di tale scopo. Diversamente l’oltraggio alla divinità, ai santi venerati e in genere alle immagini e ai simboli della fede cristiana potrà ricadere nella previsione dell’art. 724 del codice penale, non in quella dell’art. 402. Per la punibilità del delitto in questione è, dunque, indispensabile sia il dolo generico, inteso come volontà libera e cosciente, nonché intenzione di commettere il fatto, sia il dolo specifico, inteso come fine di vilipendere espressamente la religione cattolica.

    Nel caso di specie, è sicuramente da escludere che gli imputati, rappresentando o facendo rappresentare pubblicamente la scenetta ispirata all’episodio dell’annunciazione, si siano proposti il fine indicato. Una lettura appena appena attenta del testo rileva chiaramente che, in realtà, gli autori hanno inteso affrontare, ovviamente nelle forme e nei modi a loro più congeniali, il grave e annoso problema della disoccupazione nella città di Napoli e delle pesanti ripercussioni che essa ha su tutto l’ambito sociale. E di ciò i funzionari della Rai Tv preposti, a diversi livelli, al controllo dei programmi televisivi, hanno naturalmente mostrato di essersi resi perfettamente conto respingendo come falsa e inammissibile ogni altra interpretazione del testo. L’A., il P. e il T. non hanno, forse, convenientemente considerato che la veste particolare data alla loro breve recita avrebbe potuto urtare la sensibilità di una parte del vastissimo pubblico della televisione, non avvezza a un certo tipo di linguaggio teatrale. E, in verità, a volte, il dialogo fra gli attori, intessuto di espressioni dialettali e punteggiato di pause e documenti o di parole e battute maliziosamente ripetute, può prestarsi all’equivoco e al fraintendimento, assumendo un significato ambiguo e, persino grossolano. È palese, però, fin dall’inizio, che la donna visitata dall’arcangelo Gabriele non è la Madonna, ma la moglie di un povero pescatore che cerca disperatamente un altro lavoro egualmente onesto, pulito, “senza aggettivi”, ma non pericoloso e più redditizio. Sicché, l’idea di un attacco, più o meno esplicito, ad uno dei più importanti dogmi della religione cattolica, quello della verginità della madre di Gesù, va decisamente scartato come del tutto estraneo agli intendimenti degli autori dello “sketch”. Rimane da considerare il trattamento non proprio rispettoso riservato al divino messaggero, a tale segno umanamente sprovveduto, da scambiare la moglie del pescatore per la vergine Maria e, nella parte finale della scenetta, in qualche misura, allo stesso Padre Eterno.

    Ma l’origine e la formazione degli autori e interpreti del brano scelto dai programmatori della Rai Tv, proprio perché esponenti di un tipo di comicità ben caratterizzata, come tale valido esempio di una certa scuola, dà ragione anche di ciò. L’A., il P., il T. muovono, infatti, chiaramente nell’ambito della tradizione teatrale partenopea nella quale l’elemento del soprannaturale e del divino si incontra frequentemente in quelle forme particolari che la sensibilità religiosa del popolo napoletano suggerisce. E’ a tutti noto, invero, anche per le manifestazioni spesso clamorose e plateali assunte, il singolare modo che ha la gente di Napoli di concepire il rapporto con la divinità amata e odiata, venerata e oltraggiata, secondo gli umori del momento, ma sempre trattata con una naturalezza e con una spontaneità, una familiarità che lungi dall’essere offensive, testimoniano la profondità e autenticità della fede. Sotto questo profilo deve escludersi negli imputati anche la semplice consapevolezza della possibile attitudine oltraggiosa del testo trasmesso e, quindi, la sussistenza del dolo generico.

    (Omissis)

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