Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

Olir

Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 10 Giugno 2005

Sentenza 20 marzo 2000

Tribunale di Bologna. Sentenza 20 marzo 2000: “Turbamento di funzioni religiose”.

Omissis

Con informative 11 e 13 novembre e 10 dicembre 1998 la Questura di Bologna rappresentava:
– di aver effettuato (nella prima mattinata del giorno 12 novembre) lo sgombero di alcuni stabili di proprietà dello IACP e posti nella locale via Rimesse già occupati il precedente 8 novembre da molti nuclei familiari di soggetti extracomunitari, per la parte di gran lunga preponderante provvisti di permesso di soggiorno e compiutamente identificati – aff. 36 e ss.; 65 e ss. -;
– che gli occupanti portatisi in strada dapprima diedero luogo ad un sit-in di protesta e, quindi, non conclusesi positivamente le trattative con esponenti della Amministrazione Comunale al fine di trovare una soluzione alle necessità abitative da essi evidenziata, davano luogo ad un corteo che arrivava fino in Piazza Maggiore;
– che, unitamente ad alcuni giovani esponenti della locale Autonomia, alle h 15.20 “circa settanta occupanti abusivi si introducevano alla spicciolata all’interno della basilica di S. Petronio” (nella rel. ser. 13/12/1998 – aff. 44/45 – si precisava poi che il gruppo era composto per lo più da donne e bambini);
– che richiesti della ragione delle irruzione nella basilica gli extracomunitari affermavano “di essersi rifugiati nella chiesa per il freddo e manifestavano l’intenzione di rimanervi sino a quando non avessero ottenuto una casa”;
– che “l’occupazione impediva di fatto il compimento della quotidiana cerimonia religiosa della S. Messa, anche in considerazione dell’atteggiamento non proprio consono tenuto dagli occupanti che bivaccavano occupando gran parte dei posti a sedere e urlavano continuamente”;
– che ne seguiva una serrata serie di trattative con le Autorità ecclesiastiche e, soprattutto, con quelle municipali;
– che la situazione si risolveva il giorno successivo (di tal che l’occupazione della basilica ha avuto durata inferiore alle 24 h) con l’offerta agli stranieri di una sistemazione provvisoria, in attesa di meglio valutare le esigenze abitative dei singoli, presso un immobile sito nella locale via del Pallone, ove in effetti si portavano molti degli occupanti;
– che successivamente, essendo state rifiutate le proposte offerte dalla Amministrazione Comunale, il Sindaco di Bologna ordinava lo sgombero dell’immobile di via del Pallone, sgombero che veniva effettivamente eseguito il 7/12/1998.

Sulla base di tali accadimenti sono poi state formulate le imputazioni sub a) b) c) per cui è stato richiesto il rinvio a giudizio.

In diritto va rilevato che l’art. 633 c. p. è posto a tutela del pacifico possesso dei beni immobili, prescindendo dalla loro tipologia e natura. La norma punisce “chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui al fine di occuparli o comunque trarne profitto”. L’elemento oggettivo del resto è costituito dalla condotta di “invasione arbitraria”, la quale deve essere sopportata dall’elemento soggettivo caratterizzato dal dolo specifico di “occupare o comunque trarre profitto” dal bene invaso. Non è dato quindi confondere i concetti di “invasione arbitraria” e di “occupazione”, considerati invece separatamente dal legislatore e riferiti a due elementi diversi del reato e cioè rispettivamente a quello della condotta vietata ed a quello dell’elemento psicologico. L’occupazione in sé, e cioè il mero permanere invito domino in un determinato bene, pur ovviamente rimanendo un comportamento certamente illecito e censurabile in sede civile, non rileva ai fini dell’elemento oggettivo del reato, integrato invece dalla mera invasione arbitraria. Ne consegue che il reato non ricorre laddove si sia in presenza di una “occupazione invito domino da parte di chi sia già nel possesso del bene o comunque che vi sia acceduto senza porre in essere la condotta di invasione (vedi sul punto Cass. Sez. 3 sent. 01938 del 18/02/98 (ud. 14/01/98). “La norma di cui all’art. 633 c.p. è posta e tutela di una situazione di fatto tra il soggetto e la cosa, per cui deve escludersi la sussistenza del reato tutte le volte che il soggetto sia già in possesso del bene” (Sez, 2 sent. 00368 del 24/05/95 (CC 19/01/95). “Poiché il delitto di cui agli artt. 633, primo comma, e 639 bis c.p. (invasione di terreni o edifici) non è configurabile quando l’agente, che sia entrato in un edificio come legittimo abitatore, si limiti a rimanervi contro la volontà dell’avente diritto, consistendo la condotta punibile nell’introduzione arbitraria, dall’esterno, in un fondo altrui, deve escludersi la responsabilità penale dell’assegnatario provvisorio di un appartamento di proprietà pubblica il quale, revocata l’assegnazione, vi si trattenga, e ciò in quanto è ininfluente sul presupposto di fatto giustificante l’inizio di godimento dell’immobile il successivo accertamento della mancanza delle condizioni richieste per la sua prosecuzione” (Sez. 2 sent. 04230 del 13/04/94 (ud. 14/01/94). La condotta tipica del reato di invasione di terreni consiste nell’introduzione dall’esterno in un fondo altrui di cui non si abbia il possesso o la detenzione: la norma di cui all’art 633 c. p. infatti non è posta a tutela di un diritto ma di una situazione di fatto tra il soggetto e la cosa per cui tutte le volte in cui il soggetto sia già “in possesso” del bene deve escludersi la sussistenza del reato. (Fattispecie in cui la Cassazione ha escluso la sussistenza del reato in quanto il ricorrente, concessionario da tempo di un terreno di proprietà del demanio, si era limitato a permanere nello stesso).
Del resto ove non si accogliesse tale interpretazione, per altro assolutamente pacifica sia in dottrina che in giurisprudenza, diventerebbero ad esempio di rilevanza penale tutte le permanenze dell’inquilino sfrattato nel bene locato oltre la scadenza contrattuale.
Orbene, la condotta succitata consiste nella introduzione di durata temporalmente significativa (che altrimenti ricorrerebbe la fattispecie del mero ingresso abusivo di cui all’art. 637 c.p.) invito domino in un bene altrui, condotta che per di più deve essere arbitraria, il che significa quantomeno che la stessa non sia, anche in assenza del consenso dell’avente diritto, in qualche modo giustificata dal diritto. L’elemento della arbitrarietà già sul mero piano oggettivo (a prescindere quindi anche dalle implicazioni che si riflettono anche su quello soggettivo, essendosi in presenza di norme cd. ad illiceità speciale) comporta necessariamente una delimitazione delle condotte penalmente rilevanti.
Passando alla applicazione di questi principi di diritto alla fattispecie di cui al capo c) ne emerge la pacifica insussistenza del reato. Ed infatti nella informativa 10 dicembre 1998 succitata si dà atto che invero l’edificio di via del Pallone fu concesso dal Comune in uso provvisorio agli imputati, per permettere così di dare una prima temporanea soluzione ai problemi posti con la occupazione di S. Petronio. Ne consegue che gli imputati si trovavano e possedevano detti beni legittimamente e che non li avevano mai invasi, ma al contrario vi erano entrati con il pieno consenso e su proposta dell’avente diritto. Possono sul punto esser quindi integralmente richiamate le sentenze della Suprema Corte già citate.
Ugualmente deve ritenersi in relazione alla occupazione della basilica di S. Petronio, che si differenzia da quella già esaminata per il fatto che certamente non sussiste in essa un pregresso legittimo possesso del bene, ma – come si vedrà – unicamente un consentito accesso al medesimo. Ed infatti, come già riportato, nelle informative della Questura si dà atto di come gli imputati vi siano entrati alla spicciolata in pieno giorno mentre la stessa era aperta al pubblico, e quindi pienamente accessibile da chiunque, tanto che l’entrata è avvenuta con modalità di assoluta normalità, senza che fossero poste in essere forme di violenza a persone o cose (invero dopo l’entrata nella Basilica vi è stato il tentativo di chiudere le porte per impedire l’intervento della polizia, ma tale intenzione è rimasta allo stato iniziale venendo immediatamente vanificata dall’intervento delle forze dell’ordine: comunque la stessa viene addebitata non agli attuali imputati, ma ai soli giovani italiani che si erano a loro uniti). L’accesso nel bene non è quindi avvenuto invito domino, ma con il consenso tacito dell’avente diritto che permetteva in quel momento che chiunque potesse entrare nella Basilica. Ancora una volta quindi non vi è stata alcuna invasione arbitraria, ma un mero uso di una facoltà di accesso consentita dall’avente titolo sul bene (vedi per i casi analoghi di occupazioni studentesche, GIP Tribunale L’Aquila 23/2/1996 e Tribunale per i minorenni di Catania 11/11/1994, secondo cui “deve escludersi la sussistenza del reato di cui all’art. 633 c.p. quando l’occupazione sia posta in essere dagli studenti: invero, per integrare il reato in esame è necessaria un’abusiva penetrazione nell’immobile altrui (non bastando l’arbitraria permanenza nello stesso degli agenti) e tale abusiva invasione non è configurabile a carico degli studenti, i quali non possono essere soggetti attivi del reato in parola perché non estranei ma compartecipi della istituzione scolastica e perciò aventi titolo ad accedere legittimamente nell’edificio. Su motivazioni simili si muove Tribunale Taranto 23/9/97, secondo cui “non configura il reato di cui all’art 633 c.p. la condotta di colui che esercita l’attività di posteggiatore abusivo su una strade di proprietà comunale e quindi non sottratta all’uso altrui”).
Ben conosce questo giudice che vi è giurisprudenza, per altro contrastante con tutta quella sino ad ora citata, secondo cui l’iniziale esercizio legittimo del diritto di accesso seppure con modalità diverse da quelle consentite “si tramuta in condotta illegittima allorquando si rifiuti di uscirne all’invito dell’avente diritto” (Cass. 27/10/1976, Abbadessa). Tale interpretazione non appare condivisibile; la stessa infatti è del tutto erronea laddove contrasta con la lettera della legge, che per l’appunto richiede quale condotta materiale il mero fatto dell’invasione arbitraria, e non il permanere nel bene contro l’altrui volontà, finendo per attribuire alla fattispecie in oggetto elementi che invece caratterizzano la diversa fattispecie di cui all’art 614 c.p. Questa infatti ricorre qualora, pur non essendovi stata invasione arbitraria, e quindi essendovi pieno legittimo accesso nel bene, cionondimeno vi si permanga contro la volontà di chi ha il diritto di esclusione (“chi si trattiene nel bene dei detti luoghi contro la espressa volontà di chi ha il diritto di escluderlo” art. 614 cpv. c.p.). A tal punto va per inciso rilevato che per tale fattispecie non sarebbe possibile procedere nel caso in oggetto per mancanza di querela, e comunque il reato non ricorrerebbe perché non si è in presenza di un luogo di “privata dimora”; vi sono inoltre dubbi sulla sussistenza del requisito dell’invito “espresso” a lasciare l’immobile, atteso che dopo l’entrata degli occupanti si sono subito intavolate trattative per risolvere la questione, senza alcuna intimazione ultimativa a lasciare il bene in tempi stabiliti.
In relazione al reato di cui al capo b) va rilevato che gli unici elementi di prova a carico (manca anche una qualsiasi denuncia da parte delle Autorità ecclesiastiche) sono affidati alle poche e scarne righe della informativa 13 novembre 1998 già più sopra riportate e cioè “l’occupazione impediva di fatto il compimento della quotidiana cerimonia religiosa della S. Messa, anche in considerazione dell’atteggiamento non proprio consono tenuto dagli occupanti che bivaccavano occupando gran parte dei posti a sedere, urlavano continuamente” (nelle citata informativa si dà atto di un’altra circostanza irriguardosa ed impeditivi delle funzioni e cioè il fatto che si fumasse; ma anche tale comportamento viene sostanzialmente addebitato ai soli autonomi italiani (aff. 65 e ss.) e quindi non agli attuali imputati). Peraltro non viene in alcun modo precisato quale funzione fosse in programma e non si sia tenuta, né soprattutto se ciò sia dipeso da una scelta autonoma delle autorità ecclesiastiche a fronte della situazione creatasi (questa pare essere la più verosimile delle ipotesi, non essendovi in atti alcuna notazione che descriva la reale ricorrenza di alcun concreto tentativo di celebrare la funzione religiosa; parimenti appare sia pacifico, non essendovi alcun rilievo in senso contrario, che all’atto dell’accesso nella basilica non vi fosse alcuna funzione in corso). Manca quindi in radice una idonea prova della ricorrenza dell’elemento materiale del reato contestato e cioè l’impedimento “attivo” dell’esercizio “concreto” di una funzione religiosa. Del resto la lettera dell’imputazione formulata individua il comportamento impeditivo unicamente nel fatto stesso della “invasione” (da intendersi atecnicamente come “occupazione”, essendosi già visto che al momento dell’accesso nella basilica non vi era alcuna funzione in corso, e quindi la mera invasione, intesa come entrata nell’immobile, non ha impedito alcunché). Ma sul punto va rilevato che il mero fatto della presenza di circa 80 persone in una basilica di grandi dimensioni quale quella bolognese non appare di per sé necessariamente incompatibile con la celebrazione nella medesima della funzione quotidiana. Né l’atteggiamento degli occupanti stranieri, cui semplicemente si imputa di parlare urlando e che ben potevano essere invitati a moderarsi per consentire la celebrazione della funzione religiosa, la rendeva per ciò solo impossibile.
In subordine manca comunque l’elemento soggettivo del reato. In dottrina si sottolinea infatti la necessità del dolo “il quale consiste nella volontà cosciente e libera e nell’intenzione di cagionare l’impedimento. Appunto perché si esige il dolo non basta la volontarietà della condotta che ha cagionato l’evento, ma deve essere intenzionale anche questo… il dolo necessario per il delitto in discorso non sussiste allorché l’agente non abbia l’intenzione di cagionare il turbamento ancorché possa prevedere di poterlo produrre per proprio fatto volontario” (cosi il Manzini, il quale porta l’esempio di coloro che si azzuffano in chiesa per fatto proprio e arrecano turbamento alle funzioni, e cita Cass. 14/2/1940, secondo cui detto dolo non ricorre nella donna che recatasi in sacrestia protesti con schiamazzi per alcuni pettegolezzi, causando ritardo nell’inizio delle messa) (l’Antolisei – con una tesi non condivisibile e peraltro già smentita da Cass. 26/6/1967, n. 621, secondo cui “l’elemento psicologico è dato dalla coscienza e volontà di compiere atti produttivi del turbamento e non è necessaria la consapevolezza di recare offesa al sentimento religioso, poiché tale offesa inest rei ipsae” – si spinge ancora oltre sostenendo che “perché ricorra il dolo non è sufficiente la coscienza e volontà di turbare o impedire le funzioni. La volontà dell’azione deve essere accompagnata almeno dalla consapevolezza di poter recare offesa al sentimento religioso”).
Orbene non vi è alcun elemento che possa far ritenere che gli imputati entrarono e rimasero nella basilica con la coscienza e volontà di impedire l’esercizio delle funzioni religiose e tanto meno di voler offendere il sentimento religioso altrui. Anzi nella scelta della basilica ha probabilmente influito proprio un diverso ruolo attribuito dalla religione musulmana al luogo di preghiera, come punto di riferimento della comunità sociale al fine di trovare aiuto in caso di bisogno (vedi le dichiarazioni dell’imputato Riadi secondo cui “dopo lo sgombero di via Rimesse ci siamo trovati con la famiglia e con gli altri connazionali per strada, e dal momento che avevamo un problema da risolvere e nel mio paese casi di questo genere ci rivolgiamo alla Moschea per avere carità, in base a questo principio ci siamo portati nella basilica di S. Petronio”).
Del resto è evidente che la decisione di entrare in S. Petronio era frutto della intenzione di dare risonanza al problema di trovare una dignitosa abitazione che accomunava tutti gli occupanti, facendo si che in tal modo le Autorità locali si attivassero per darvi una soluzione, come poi in effetti avvenne. Si è quindi in presenza di una motivazione di tipo politico sociale, e non certo di una azione fondata su sentimenti antireligiosi.
In relazione alla occupazione delle abitazioni di via Rimesse di proprietà dello IACP va rilevato, che, pur essendovi elementi per ritenere la ricorrenza in astratto della materialità del reato contestato, il fatto appare sussumibile anche nella fattispecie speciale di cui all’art. 26 c. 4 l. 513/77 punita in via amministrativa e che quindi prevale ai sensi dell’art. 9 1. 689/81.
L’art. 26 c. 4 1. 513/77 sanziona amministrativamente il comportamento di “chiunque occupi un alloggio di edilizia residenziale senza le autorizzazioni previste” e quindi in sostanza il medesimo fatto disciplinato dall’art. 633 c. p. Infatti al di là di pur esistenti differenze letterali – la norma penale parla di “invasione al fine di occupare” quella amministrativa di “occupare” tout court – si è in presenza del medesimo comportamento ove sa consideri che “l’occupare” viene ricollegato ad una situazione del tutto analoga a quella di una invasione arbitraria, e cioè l’occupare “senza le autorizzazioni previste”. Del resto l’arbitrarietà della invasione rilevante ai fini dell’art. 633 c. p., la cui integrazione prescinde dalla sussistenza di qualsiasi forma di violenza, consiste innanzi tutto nell’entrare senza il consenso dell’avente diritto, il che corrisponde, per gli immobili di pubblica proprietà, alla mancanza della autorizzazione dell’ente gestore del bene. Quindi deve ritenersi che chi entra in un immobile pubblico senza l’autorizzazione prevista, vi entra arbitrariamente e non si vede come possa fondarsi una reale distinzione tra edificio occupato “arbitrariamente” ed edificio occupato “irregolarmente”, presupponendo anche tale ultima nozione la mancanza di consenso dell’avente diritto. Non sono quindi condivisibili le pronunce della Suprema Corte (Cass. 24/5/1995, n. 10138, 7/5/1993, Onofri) che sulla base di tale motivazione – distinzione tra occupazione arbitraria e occupazione irregolare – ritengono non esservi rapporto di specialità tra le due norme. Né invero appare accoglibile l’assunto secondo cui il bene giuridico protetto dalla norma amministrativa sarebbe solo “la mancata osservanza delle procedure stabilite per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica” (il che invece si può ritenere in relazione alle violazioni punite dai commi 1 e 3 dello stesso art. 26, che sanzionano l’assegnatario che cede ad altri l’alloggio concessogli (o parte di esso) ed il cessionario che vi entra in tale illegittima maniera. È evidente infatti che in tale ipotesi si tende infatti a garantire che l’alloggio venga concesso in uso solo seguendo le legittime procedure e che lo stesso venga abitato solo da chi lo ha avuto in concessione) e non anche la lesione del diritto di proprietà. Del resto sovrapponibilità tra norma penale e norma amministrativa era ben presente al legislatore che nella relazione di accompagnamento alla legge spiegava che, comportando la violazione amministrativa anche “la esclusione dalla assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica”, la stessa … “dovrebbe costituire un efficace freno anche al pericoloso fenomeno della occupazione abusiva di immobili”.
Orbene la norma amministrativa deve ritenersi speciale rispetto a quella penale perché si riferisce ad una categoria di beni (alloggi di edilizia residenziale pubblica invece che “terreni o edifici pubblici o privati”) e ad una condotta (non una generica invasione arbitraria, ma la più specifica mancanza di autorizzazione da parte dell’ente gestore del bene) più ristretta di quella penale, come per altro più volte affermato in giurisprudenza di merito (si segnala per tutte e per la completezza di motivazione Pretura di Torino 9/11/1984; su tale linea interpretativa è la giurisprudenza della Pretura di Bologna, quale si evince dalle numerose sentenze prodotte dalla difesa).
Gli imputati vanno quindi prosciolti da tale reato perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Del tutto differente è la situazione degli indagati Rachad e EI Habacha, marito e moglie in attesa di un bambino (vedi aff. 139) in relazione al reato contestato al capo d), occupazione dell’immobile di via Altura, consistente in un edificio vuoto a tre piani di recente ristrutturazione e all’epoca nella disponibilità di una procedura fallimentare. Gli imputati si sono difesi assumendo di essersi indotti ad occupare detto immobile perché quello di cui essi disponevano era in condizioni di inabitabilità. Vi è prova oggettiva di questo; è infatti stata prodotta una certificazione datata 30/11/1998 della ASL competente che lo dichiarava antigienico evidenziandosi, oltre ad altre carenze, che “l’impianto di riscaldamento e di produzione di acqua calda è costituito da una unica stufa tipo cucina economica insufficiente a mantenere la temperatura interna” a livello sufficiente.
Orbene è ricorrente la giurisprudenza di merito che ritiene integrata nel caso di specie la causa di giustificazione dello stato di necessità, quantomeno a livello putativo, essendovi per altro proporzionalità tre il pericolo grave alla persona e la lesione (peraltro di durata temporanea) resa al bene (materiale) di proprietà altrui, e dovendosi ritenere la attualità del pericolo, in adesione ad un criterio interpretativo più lato di quello della stretta imminenza cronologica del danno (“Non è punibile il soggetto che, a causa delle miserrime condizioni economiche, abbia occupato temporaneamente una casa abbandonata: ed infatti, ai fini dell’applicazione dell’esimente dello stato di necessità, quanto meno putativo, il danno grave alla persona deve ritenersi non solo come attentato alla integrità fisica della stessa, ma anche come grave danno ai diritti inviolabili della persona umana previsti dalla Costituzione. Pertanto poiché il diritto di alloggio rappresenta un bisogno primario della persona, ricorrono gli estremi di cui agli artt. 54 e 59 c. p., con conseguente non punibilità del soggetto imputato del reato”. Pretura di Gallipoli 16/11/1995; Pretura di Lecce, 16/3/1995; Pretura di Genova 28/1/1991; Pretura di Alghero 15/4/1995 e Pretura di Salò 1/2/1995; etc…; tale interpretazione è stata occasionalmente fatta propria anche dalla Cassazione: “Ai fini dell’esimente dello stato di necessità nel concetto di danno grave alla persona, secondo la formulazione dell’art. 54 c p., rientrano talune situazioni che minacciano solo indirettamente l’integrità fisica ovvero che attentano, in via ancor più generale, alla complessa sfera dei beni attinenti alla personalità morale del soggetto. Tra questi beni si deve ricomprendere anche quello connesso alla esigenza di un alloggio, che è uno dei bisogni primari della persona, in conformità ai principi costituzionali che riguardano la persona umana e i diritti a questa inerenti” (Cass. 18/3/1983, Breccia). Tale giurisprudenza, anche con riferimento ai diritti fondamentali posti a tutela della famiglia, appare applicabile anche al caso di specie, non apparendo doversi differenziare la situazione di chi è del tutto privo di una abitazione rispetto a quella di chi ne ha una in realtà del tutto inidonea ad essere abitata.
Gli imputati vanno quindi prosciolti perché il fatto non costituisce reato.
In relazione alla imputazione di diffamazione di cui al capo f), va rilevato che trattasi di reato procedibile a querele di parte, atto che non risulta mai esser stato proposto, di tal che l’azione penale è improcedibile.
Al capo h) si contesta alla imputata Moussati Amal una condotta di resistenza e di percosse (cosi modificata dal P.M. la originaria contestazione di lesioni aggravate, attesa la insussistenza in radice di lesione alcuna). In particolare si legge nella annotazione 8/12/1998 che nel corso dello sgombero di via del Pallone personale della Polizia si introduceva nella stanza ove si trovava anche la donna invitando i presenti ad abbandonare l’edificio. A tal punto l’imputata “si avventava verso la finestra per compiere un pericoloso gesto dimostrativo” (vale a dire, per quanto è dato comprendere, un gesto autolesivo). Il personale presente quindi interveniva riuscendo “opportunamente a bloccarla cercando di farla desistere, ma la stessa opponeva resistenza cercando di allontanare violentemente con pugni e calci lo scrivente, che riusciva comunque a scostarla dalla finestra”.
In conclusione a fronte del gesto di disperazione della donna, che voleva buttarsi dalla finestra, gli operanti intervenivano per impedite il peggio, e la donna opponeva resistenza a tale intervento mostrando di voler insistere nelle proprie intenzioni e venendo solo con la forza allontanata dalla finestra. E’ evidente pertanto che la volontà della donna non era certo quello di impedire lo sgombero, ma semplicemente quello di attuare un gesto di esasperazione umana, non incomprensibile in un soggetto che non vedeva avanti a se decorose prospettive di vita. E del resto la violenza posta in essere dalla donna contro gli agenti non fu diretta ad evitare lo sgombero, ma unicamente ad evitare di esser trattenuta in modo da poter portare avanti il suo insano tentativo. Manca quindi quantomeno l’elemento soggettivo del reato e la stessa va prosciolta dal reato di cui all’art. 337 c. p. perché il fatto non costituisce reato.
In relazione alla imputazione di cui all’art. 581 c.p.p. deve dichiararsi non doversi procedere per mancanza di querela.

P.Q.M.

Visto l’art. 425 c. p. p. dichiara non doversi procedere:

nei confronti di tutti gli imputati in relazione alle imputazioni di cui al capo a) – occupazione dell’edificio di via Rimesse – perché il fatto non è previsto dalla legge come reato e in relazione al reato di cui al capo a) – occupazione della basilica di S. Petronio – b) e c) perché il fatto non sussiste;

nei confronti dell’imputato El Sonbaty dal reato di cui al capo f) perché l’azione penale non poteva essere promossa per mancanza da querela;

nei confronti della imputata Moussati in relazione ai reati di cui al capo h) perché il fatto non costituisce reato in relazione all’imputazione di cui all’art. 337 c. p. e perché l’azione penale non poteva essere promossa per mancanza di querela in relazione al reato di cui all’art. 581 c.p.;

nei confronti degli imputati Rachad e El Habacha in relazione al reato di cui al capo d) perché il fatto non costituisce reato.