Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 1 Giugno 2004

Sentenza 21 febbraio 2003, n.17050

Corte di Cassazione. III Sezione Penale.
Sentenza 1° aprile 2003, n. 17050:
“Elemento psicologico del reato di vilipendio di cadavere”.

La Corte Suprema di Cassazione:
III Sezione Penale

composta dagli Ill.mi Signori:

Presidente: Giuseppe Savignano
Consigliere: Nicola Quitadamo
” Vittorio Vangelista
” Alfredo Maria Lombardi
” Mario Gentile

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso proposto dall’Avv. Giuseppe Romualdi, difensore di fiducia di , n. a Teglio il 20.10.1958, avverso la sentenza in data 21.5.2002 della Corte di Appello di Milano, con la quale, in parziale riforma di quella del Tribunale di Sondrio in data 24.10.2000, venne condannato alla pena di mesi otto di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, quale colpevole del reato: a) di cui all’art. 410 c.p..

Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;

Udita in pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. Alfredo Maria Lombardi;

Udito il P.M., in persona del Sost. Procuratore Generale Dott. Mario Fraticelli, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito per le parti civili, l’Avv. Emilio Ricci, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il difensore; Avv. Giuseppe Romualdi, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

Fatto

Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano ha confermato la pronuncia di colpevolezza del in ordine al reato di cui all’art. 410 c.p. per aver compiuto, nel corso della esumazione del cadavere di , atti di vilipendio sulle spoglie mortali del medesimo, procedendo alla separazione dei resti e deponendo nell’urna ossario solo il teschio del cadavere, mentre lasciava che la restante parte della salma e dello scheletro venisse successivamente dispersa. Ha assolto, invece, con formula ampia il predetto imputato dal reato di cui all’art. 411 c.p..
Nella ricostruzione della vicenda la sentenza rileva che le spoglie del , inumate nel 1971 nel cimitero di Tresenda di Teglio, vennero esumate una prima volta nell’aprile 1993, dall’imputato, quale custode seppellitore, alla presenza della vedova del defunto, , stante la necessità del Comune di Teglio di procedere a lavori di ristrutturazione del cimitero. In tale occasione si riscontrava che il corpo del era ancora intatto, essendo stato impropriamente sepolto in una cassa di zinco, invece che di legno, e senza che fossero stati praticati fori nella bara, per cui si procedeva ad una nuova inumazione delle spoglie. Successivamente nel 1995 il cadavere del veniva nuovamente esumato sempre ad opera del , che nella circostanza mostrava alla vedova, anche essa presente, il teschio del defunto, da riporsi unitamente alla restante parte dello scheletro in una cassetta di metallo, sollecitando la ad andarsene a casa. Alcuni giorni dopo, nel corso dei lavori di sbancamento dell’area cimiteriale, nella quale era stato sepolto il , si verificava l’affioramento di ossa umane e tale notizia aveva eco sulla stampa locale. I familiari del , insospettiti dal fatto, procedevano all’accertamento del contenuto della cassetta, nella quale erano stati posti i resti del defunto, riscontrando solo la presenza di un teschio, di parte di un secondo teschio e di poche ossa, non corrispondenti per quantità ad uno scheletro. In seguito alla denunzia di tali fatti si procedeva per i reati di cui agli art 410 e 411 c.p. nei confronti del e di tale , successivamente assolto con formula ampia, che aveva effettuato tramite un suo dipendente i lavori di scavo. Si accertava, quindi, a mezzo di perizia, che le ossa riposte nella cassetta appartenevano ad un numero minimo di due individui di sesso maschile e che solo il teschio integro i frammenti di due tibie sinistre e di un femore destro erano attribuibili al defunto .
Sulla base degli indicati elementi di fatto la impugnata sentenza ha affermato che il comportamento del integra il reato di cui all’art. 410 c.p., avendo l’imputato mutilato il cadavere del , dal quale staccava il teschio e forse un frammento del bacino, mentre lasciava che la rimanente parte delle spoglie, che non aveva ancora subito il necessario processo di mineralizzazione, restasse nella bara, successivamente dispersa per incuria e disinteresse dello stesso . Si è osservato, altresì, in sentenza che il dolo del reato di vilipendio di cadavere è generico, per cui è sufficiente la coscienza e volontà di commettere un atto oltraggioso, offensivo del sentimento di pietà verso i defunti.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, che la denuncia con due motivi di gravame.

Diritto

Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente denuncia la manifesta illogicità della motivazione della sentenza, nonché la carenza di correlazione tra sentenza e capo di imputazione con violazione dell’art. 521 c.p.p.. Si osserva sul punto che la pronuncia di condanna è fondata su un sostanziale travisamento di fatto, nella parte in cui l’azione posta in essere dal sul cadavere del , in occasione della esumazione, viene definita come una “condotta di manomissione con il distacco del teschio ed abbandono delle membra non ancora decomposte” e si afferma, altresì, che l’imputato ha “mutilato il cadavere del “. Si deduce, quindi, che i giudici di merito hanno in tal modo attribuito al una condotta corrispondente all’ipotesi aggravata del reato di cui all’art. 410 c.p.; aggravante ad effetto speciale che non è stata oggetto di contestazione.
Si aggiunge in proposito che i giudici di merito hanno volutamente adoperato un linguaggio forte, al fine di suscitare repulsione, affermando che il avrebbe distaccato il teschio dallo scheletro, mutilando quest’ultimo, mentre, invece, l’imputato, così come contestatogli, si limitò a prelevare il teschio dalla bara. Si osserva ancora che il comportamento dell’imputato nell’occasione si palesa maldestro, ma che lo stesso è stato determinato dagli ordini impartiti in modo non chiaro e preciso dall’Ufficio tecnico del Comune di Teglio in ordine al comportamento da tenersi se fosse stata riscontrata la non completa mineralizzazione del cadavere. Con il secondo motivo di gravame il ricorrente denuncia l’errata applicazione della norma incriminatrice, nonché degli art. 42 e 51 c.p..
Si deduce sul punto che i giudici di merito hanno erroneamente qualificato come oggettivamente ripugnante per la sensibilità di ogni persona civile un comportamento che non è tale, alla stregua di altri analoghi, posti in essere ad esempio per ragioni di studio o di indagini giudiziarie, se contestualizzato nell’ambito del tipo di attività espletata dal . Si osserva inoltre che nel caso in esame vi è una necessaria inferenza dell’elemento materiale con quello psicologico del reato, dovendo il primo essere necessariamente valutato alla luce del secondo, dominato da quella sfuggente categoria che è il dolo generico. Si deduce che sul punto la motivazione della sentenza è decisamente elusiva e che, peraltro, il non ha agito nella consapevolezza di porre in essere un atto ripugnante, bensì nella convinzione di compiere il proprio dovere, in esecuzione delle disposizioni ricevute, di talché dovrebbe ravvisarsi nella fattispecie anche la scriminante di cui all’art. 51 c.p..
Il ricorso non è fondato.
Il primo motivo di gravame costituisce una censura in punto di fatto, non deducibile in sede di legittimità, dell’accertamento dei giudici di merito in ordine al comportamento tenuto dal in occasione della seconda esumazione del cadavere del .
Tale censura, peraltro, è inconferente nella parte in cui ci si duole del linguaggio “forte” adoperato nell’impugnata sentenza per descrivere il comportamento dell’imputato, in quanto il linguaggio adoperato dal giudice di merito nella descrizione del fatto non costituisce un vizio di motivazione del provvedimento emesso, ed è manifestamente infondata in relazione alla denunciata violazione del disposto di cui all’art. 521 c.p.p., oltre che inammissibile per carenza di interesse del ricorrente sul punto.
Ed, invero, l’art. 522 c.p.p. prevede quale causa di nullità della sentenza di condanna il fatto che questa sia pronunciata per un fatto nuovo, per un reato concorrente o per una circostanza aggravante diversi da quelli contestati, essendo, peraltro, limitata la sanzione di nullità solo alla parte della pronuncia di condanna afferente ai predetti elementi che esulavano dalla contestazione originaria, ma non prevede la nullità della sentenza anche nella ipotesi in cui il giudice di merito, pur ritenendo il fatto di maggiore gravità rispetto all’ipotesi di reato enunciato in contestazione, nell’ambito della stessa fattispecie criminosa, abbia pronunciato la condanna limitatamente a questa ultima.
Peraltro, vi è, altresì, carenza di interesse dell’imputato a dolersi per la condanna inflittagli per un fatto più mite rispetto a quello configurato in sentenza dai giudici di merito, allorché, come nel caso in esame la maggiore gravità ravvisata non abbia neppure influito sulla determinazione della pena, inflitta nel minimo di quella edittale.
Il secondo motivo di gravame è infondato.
Osserva la Corte che anche nell’espletamento di attività che rendono necessaria la manipolazione dei cadaveri, quali quelle afferenti all’uso di cadaveri per esigenze di studio o all’espletamento di indagini necroscopiche per l’accertamento dei reati – ricordate dal ricorrente – deve essere evitato l’impiego di modalità, che, essendo estranee alle tecniche richieste dalla natura delle indagini scientifiche o peritali espletate ovvero che siano vietate da prescrizioni regolamentari (art. 82 D.P.R. 285-90 con riferimento alla esumazione parziale del cadavere) – come nel caso in esame -, costituiscano obiettivamente atti idonei ad offendere il sentimento di pietà verso i defunti.
Anche con riferimento alle attività legittime sopra precisate, pertanto, il fatto di porre in essere sui cadaveri comportamenti idonei ad offendere il sentimento di pietà verso i defunti, non resi necessari da prescrizioni tecniche dettate dal tipo di intervento o addirittura vietati, con la consapevolezza del loro carattere ultroneo o incompatibile con le prescrizioni proprie del tipo di attività svolto, integra il reato di cui all’art. 410 c.p..
Infatti, secondo il consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità (cfr. cass. 26.1.1942, D’Attilo in Giust. Pen. 1942, II, 705 m. 1267 ed altre contemporanee, nonché con riferimento al reato di cui all’art. 411 c.p. più di recente sez. III, 198305139, Russo, riv. 159325), che, seppur risalente nel tempo, non è stato mai contrastato da pronunce di segno opposto – come peraltro neppure contestato dal ricorrente – il dolo del reato di cui all’art. 410 c.p. è generico, di talché l’elemento psicologico del reato, nel caso in esame, è integrato dalla consapevolezza del fatto che l’azione posta in essere non è conforme alle prescrizioni o esigenze tecniche afferenti al tipo attività espletata ed è idonea ad offendere il sentimento di pietà verso i defunti.
Orbene, nel caso in esame, i giudici di merito hanno accertato con motivazione del tutto immune da vizi logici la sussistenza degli elementi materiale e psicologico del reato di cui alla pronuncia di condanna, avendo rilevato che il ha proceduto allo smembramento dei resti del , la maggior parte dei quali andava successivamente dispersa per incuria dell’imputato, consegnando alle parti offese una piccola cassa contenente solo il teschio, qualche osso dello scheletro del , oltre a resti di altri cadaveri, e ciò ha fatto nella consapevolezza della illiceità del proprio operato, avendo provveduto a far allontanare la subito dopo il ritrovamento del cadavere, in quanto ne aveva constatato la non completa mineralizzazione.
Sulla consapevolezza del di porre in essere un comportamento non conforme alle regole da osservarsi nelle circostanze di cui si tratta, peraltro, la sentenza si palesa adeguatamente motivata anche mediante i rilievi afferenti alla esperienza decennale dell’imputato nell’espletamento dell’attività di seppellitore ed alla correttezza del suo operato in occasione della precedente esumazione del cadavere del .
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. al rigetto dell’impugnazione segue a carico del ricorrente l’onere del pagamento delle spese del procedimento nonché della rifusione di quelle sostenute dalle parti civili, che si liquidano come in dispositivo.
In ordine alle conclusioni scritte delle predette parti civili va rilevato che le stesse contengono una inammissibile richiesta di liquidazione di una provvisionale, peraltro già ottenuta con la sentenza di primo grado.

P.Q.M

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché alla rifusione di quelle sostenute dalle parti civili, liquidate in euro 1500,00, di cui euro 1200,00 di onorario, oltre IVA e CA.

Così deciso in Roma nella pubblica udienza del 21.2.2003.
Depositata in Cancelleria in data 1 aprile 2003.