Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Sentenza 19 marzo 2009, n.28648/03

Il mancato riconoscimento di una confessione religiosa (nel caso di
specie: dei Testimoni di Geova) integra una discriminazione in base
all’art. 14 della CEDU, in combinazione con l’art. 9 CEDU, quando
il riconoscimento giuridico implica vari privilegi (tra cui
l’esenzione di quanti svolgono funzioni religiose dal servizio
militare o civile) ed i criteri con i quali è concesso sono stati
applicati arbitrariamente. Il ricorrente svolge funzioni
para-sacerdotali tra i Testimoni di Geova in Austria e ha lamentato di
essere stato obbligato a prestare servizio militare o civile quando
invece chi svolge funzioni religiose nell’ambito di comunità
religiose riconosciute dalla legge ne è esentato. Il ricorrente
perciò sostiene che sia stato violato l’articolo 14 CEDU (divieto
di discriminazione) letto congiuntamente all’articolo 9 CEDU.
L’esenzione dei ministri di culto dal servizio militare o civile, in
forza della rilevanza del loro ruolo ai fini del funzionamento delle
comunità religiose, ricade nell’ambito di applicazione delle tutele
di cui all’articolo 9 CEDU. Di conseguenza risulta applicabile anche
il divieto di discriminazione di cui all’articolo 14 CEDU.
Nell’esaminare se la disparità di trattamento lamentata dal
ricorrente sia oggettivamente e ragionevolmente fondata, la Corte
richiama la sua sentenza Religionsgeneinschaft Der Zeugen Jehovas v.
Austria [https://www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=4772]
(Comunità religiosa dei Testimoni di Geova e altre c. Austria) del 31
luglio 2008. In tale sentenza la Corte ha stabilito che uno dei
criteri per il riconoscimento giuridico in quanto società religiosa,
status che in Austria implica vari privilegi (tra cui l’esenzione di
quanti svolgono funzioni religiose dal servizio militare o civile), è
stato applicato arbitrariamente. Dato che la disparità di trattamento
nei confronti del ricorrente discende da questo mancato riconoscimento
in violazione della Convenzione, essa va ritenuta discriminatoria.
(Pronunce analoghe: Gütl c. Austria
[https://www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=4957] e
Löffelmann c. Austria
[https://www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=4955], del 12
marzo 2009)

Sentenza 12 marzo 2009, n.42967/98

Il mancato riconoscimento di una confessione religiosa (nel caso di
specie: dei Testimoni di Geova) integra una discriminazione in base
all’art. 14 della CEDU, in combinazione con l’art. 9 CEDU, quando
il riconoscimento giuridico implica vari privilegi (tra cui
l’esenzione di quanti svolgono funzioni religiose dal servizio
militare o civile) ed i criteri con i quali è concesso sono stati
applicati arbitrariamente. Il ricorrente svolge funzioni
para-sacerdotali tra i Testimoni di Geova in Austria e ha lamentato di
essere stato obbligato a prestare servizio militare o civile quando
invece chi svolge funzioni religiose nell’ambito di comunità
religiose riconosciute dalla legge ne è esentato. Il ricorrente
perciò sostiene che sia stato violato l’articolo 14 CEDU (divieto
di discriminazione) letto congiuntamente all’articolo 9 CEDU.
L’esenzione dei ministri di culto dal servizio militare o civile, in
forza della rilevanza del loro ruolo ai fini del funzionamento delle
comunità religiose, ricade nell’ambito di applicazione delle tutele
di cui all’articolo 9 CEDU. Di conseguenza risulta applicabile anche
il divieto di discriminazione di cui all’articolo 14 CEDU.
Nell’esaminare se la disparità di trattamento lamentata dal
ricorrente (e analogamente nei casi Gütl c. Austria
[https://www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=4957] e Lang c.
Austria [https://www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=4965]) sia
oggettivamente e ragionevolmente fondata, la Corte richiama la sua
sentenza Religionsgeneinschaft Der Zeugen Jehovas v. Austria
[https://www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=4772] (Comunità
religiosa dei Testimoni di Geova e altre c. Austria) del 31 luglio
2008. In tale sentenza la Corte ha stabilito che uno dei criteri per
il riconoscimento giuridico in quanto società religiosa, status che
in Austria implica vari privilegi (tra cui l’esenzione di quanti
svolgono funzioni religiose dal servizio militare o civile), è stato
applicato arbitrariamente. Dato che la disparità di trattamento nei
confronti del ricorrente discende da questo mancato riconoscimento in
violazione della Convenzione, essa va ritenuta discriminatoria.

Sentenza 04 dicembre 2008

L’espulsione da una scuola superiore pubblica di una studentessa
musulmana che durante le lezioni di educazione fisica si era rifiutata
di togliersi il velo non è in contrasto con il diritto di libertà
religiosa. In una società democratica ove coesistono molteplici
comunità religiose, può rivelarsi necessario limitare la libertà di
religione di alcuni gruppi al fine di conciliare gli interessi dei
vari orientamenti religiosi. Nel caso di specie, inoltre, la
restrizione della libertà di religione non era dettata esclusivamente
da motivi di sicurezza e di salute, ma anche dallo scopo di preservare
la neutralità e la laicità dell’ambiente scolastico pubblico. A tal
proposito, la Corte ricorda che in Francia il principio di laicità è
uno dei principi fondamentali e che la Corte deve lasciare un cospicuo
margine d’apprezzamento alle autorità statali in materia di relazioni
tra Stato e confessioni religiose. (cfr. anche CORTE EUROPEA DEI
DIRITTI DELL’UOMO, Sentenza 4 dicembre 2008, Kervanci c. France
[https://www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=4926]).

Decisione 13 novembre 2008

Il diritto di libertà religiosa non è una libertà assoluta, tale da
consentire a ogni persona qualsiasi comportamento motivato dal proprio
credo. Le limitazioni all’esercizio della libertà di religione,
garantita dall’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
sono giustificate se necessarie per motivi di sicurezza e
dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica o per la
protezione dei diritti e della libertà altrui. Nel caso di specie, la
norma francese relativa alle foto sulle patenti di guida, che devono
ritrarre le persone a capo scoperto, non costituisce un’illegittima
restrizione della libertà religiosa di un Sikh, che aveva richiesto
di essere fotografato indossando il tradizionale turbante. Lo Stato,
infatti, può imporre misure idonee a garantire la sicurezza pubblica
e a mettere in atto controlli stradali nei quali è necessaria la
perfetta identificazione del conducente. (cfr. Conseil d’Etat,
Ordonnance 6 mars 2006, n. 289947
[https://www.olir.it/ricerca/index.php?Form_Document=3739])

Nota 22 dicembre 2008

Corte Europea dei diritti dell’uomo. Nota 22 dicembre 2008: “Interruzione del trattamento di alimentazione di paziente in stato vegetativo permanente: inadmissibility decision A. Rossi and others v. Italy”. A Chamber of the European Court of Human Rights has declared inadmissible eight joined applications lodged in the case of Ada Rossi and Others v. Italy (applications […]

Sentenza 04 marzo 2008

Rimuovere il velo, al fine di sottoporsi ad un controllo
d’identità, costituisce una restrizione ai sensi del secondo
paragrafo dell’articolo 9 CEDU. Occorre perciò stabilire se tale
ingerenza sia “necessaria in una società democratica” per
raggiungere tali finalità. Nel caso in esame, la Corte ha ritenuto,
in relazione ai controlli di sicurezza imposti per l’accesso a
locali consolari, la rimozione temporanea del velo come una misura
necessaria per la sicurezza pubblica. Inoltre, quanto alla proposta
della ricorrente di rimuovere il velo unicamente in presenza di una
donna, la Corte ha affermato che il mancato conferimento dell’incarico
di identificazione ad un agente di sesso femminile da parte delle
autorità consolari non oltrepassasse il margine di discrezionalità
dello Stato in materia. La Corte ha ritenuto, pertanto, che la
ricorrente non avesse subito alcuna restrizione sproporzionata
nell’esercizio del suo diritto alla libertà di religione.

Sentenza 06 novembre 2008, n.58911/00

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I principi professati dal movimento Bhagwan Shree Rajneesh, seguaci di
Rajneesh Chandra Mohan meglio conosciuto con il nome di Osho, sono di
“sufficiente forza, serietà, coesione e importanza” per essere
considerati una credenza religiosa, dunque da tutelare ai sensi
dell’’art. 9 della CEDU. La campagna realizzata dal governo
tedesco contro le sette a partire dal 1979 ha “potuto avere
conseguenze negative” per i ricorrenti, interferendo con i diritti
garantiti da tale norma. Tuttavia tale interferenza risponde agli
scopi legittimi di proteggere la sicurezza pubblica, l’ordine
pubblico e la protezione dei diritti altrui, infatti, “il numero in
aumento di movimenti religiosi ed ideologici nuovi genera conflitto e
sottopone a tensione la società tedesca”. Secondo la Corte, la
campagna avviata contro le sette corrispondeva dall’esigenza del
Governo, di fornire informazioni in grado di contribuire al dibattito
tipico di una società democratica in materie di interesse pubblico e
di focalizzare l’attenzione sui pericoli derivanti dall’adesione a
gruppi religiosi comunemente definiti come “sette”.
L’interferenza dello Stato tedesco nei riguardi dei diritti della
confessione religiosa appellante è da considerarsi, perciò,
legittima in virtù di quanto stabilito dall’art. 9, comma 2, che
prevede la possibilità di limitazioni all’esercizio della libertà
religiosa, che siano motivate dall’esigenza di tutelare la
sicurezza, l’ordine pubblico e la protezione dei diritti e libertà
altrui. Nel caso di specie i ricorrenti contestavano l’illegittimità
di una campagna pubblicitaria attuata dal governo tedesco, avviata nel
1979 con lo scopo di mettere in guardia i cittadini dai pericoli di
adesione alle sette religiose, accusate di avere effetti distruttivi
sui propri adepti e di attuare su di essi tecniche di manipolazione. I
ricorrenti, seguaci di Osho, avevano instaurato nel 1984 un
procedimento giudiziario contro la campagna del governo, durata fino
al 2002 quando la Corte Costituzionale di Germania ha impedito nella
campagna governativa l’uso dei termini “distruttivo” e “manipolano i
loro membri”, ma ha anche stabilito che le autorità potessero
informare il pubblico con informazioni adeguate sui gruppi religiosi;
campagna circa la quale era già intervenuta la Helsinki Foundation
for Human Rights affermando che il termine “sette” usato dalle
autorità tedesche aveva una connotazione negativa ed era da ritenersi
diffamatorio. La Corte di Strasburgo ha, inoltre, considerato che il
periodo di 18 anni in cui si è svolto il procedimento sia stato
troppo lungo in violazione dell’ Articolo 6.1. della CEDU.

Sentenza 10 luglio 2008, n.15948/03

Le restrizioni alla circolazione di pubblicazioni ispirate da odio
razziale e religioso non costituiscono una violazione della libertà
di espressione ex art. 10 CEDU, che può essere limitata per legge,
allo scopo di proteggere la libertà altrui nel contesto di una
società democratica. Nel caso di specie, l’autore e gli editori di
un libro intitolato “La colonizzazione dell’Europa” erano stati
condannati dalle autorità giurisdizionali francesi per il reato di
incitamento all’odio razziale. Secondo i giudici nazionali, infatti,
il libro offre una rappresentazione del rapporto tra cultura
occidentale e cultura islamica ispirata all’odio etnico. La Corte di
Strasburgo conferma la lettura delle Corti francesi, rintracciando
nell’opera incriminata i caratteri dell’incitamento all’odio ed
alla violenza (ad es. il ricorso a termini militari, la
caratterizzazione delle comunità islamiche europee come un
“nemico”, l’incitamento ad una “guerra di riconquista”).

Sentenza 31 luglio 2008, n.40825

A seguito del rifiuto da parte dello Stato austriaco di riconoscere
personalità giuridica alla confessione dei Testimoni di Geova, la
Corte ricorda che l’autonomia delle confessioni religiose è
indispensabile al pluralismo in una società democratica. Il Governo
austriaco non ha fornito le ragioni sufficienti a giustificare il
rifiuto di tale riconoscimento, e l’ingerenza manifestata non può
essere considerata una restrizione “necessaria” per la salvaguardia
della libertà religione, così come previsto dall’art. 9 CEDU, che
pertanto è stato violato. La Corte ha ritenuto che potesse essere
legittimo far attendere dieci anni una comunità religiosa prima di
accordarle lo statuto di associazione confessionale nel caso in cui la
comunità in questione fosse di recente creazione, e dunque
sconosciuta, ma tale comportamento non si giustifica per una comunità
come i Testimoni di Geova, esistenti stabilmente da lungo tempo sia in
ambito nazionale che internazionale, e dunque ben conosciuta dalle
autorità. Per questo tipo di comunità i pubblici poteri dovrebbero
poter verificare più rapidamente se soddisfano le condizioni poste
dalla legislazione nazionale, e pertanto la Corte conclude che la
differenza di trattamento denunciata dai Testimoni di Geova contro il
Governo austriaco non è fondata su un motivo “obiettivo e
ragionevole”, sulla base del combinato disposto degli artt. 14 e 9
CEDU.

Sentenza 05 giugno 2008

Il divieto di discriminazione ex art. 14 CEDU non impedisce di
predisporre trattamenti differenziati per correggere le situazioni di
disuguaglianza tra determinati gruppi etnici, nazionali o religiosi.
Nel caso di specie, è ammessa in linea di principio l’istituzione di
classi separate per favorire la scolarizzazione dei bambini Rom,
tenuto conto delle loro peculiari necessità e del loro stile di vita.
Tuttavia, analizzando la normativa sulla scuola adottata nella
località greca di Aspropyrgos, la Corte ha individuato una violazione
del divieto di discriminazione razziale, poiché il collocamento dei
bambini Rom nelle classi separate è avvenuto utilizzando il solo
criterio dell’appartenenza etnica e senza considerare le reali
necessità formative degli alunni. Il trattamento differenziato,
dunque, è stato disposto da criteri discriminatori e non risulta
proporzionale al raggiungimento di uno scopo legittimo, quale
l’inserimento dei bambini nel percorso educativo ordinario o la loro
integrazione sociale. Le autorità scolastiche, infatti, hanno
frapposto difficoltà burocratiche all’iscrizione dei bambini nella
scuola elementare principale e non hanno dimostrato di aver agito allo
scopo di favorire la scolarizzazione dei bambini ed il recupero delle
loro mancanze formative.