Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 2 Dicembre 2003

Sentenza 01 dicembre 1993, n.11860

Cassazione. Prima Sezione Civile. Sentenza 1° dicembre 1993, n. 11860.

(Salafia; Di Palma)

Motivi della decisione

Con il primo motivo (che deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 1322 c. c. in relazione alle norme che disciplinano la cessazione degli effetti civili del matrimonio, di cui alla L. n. 898 del 1970, mod. dalla L. n. 74 del 1987”), la ricorrente lamenta l’accoglimento, da parte della Corte di merito, della domanda di divorzio e censura tale decisione siccome illegittima, sostenendo che: a) – i coniugi, liberamente scegliendo di unirsi in matrimonio secondo il rito cattolico, avrebbero anche, e contestualmente, scelto di ottemperare ai principi che sono a fondamento del sacramento del matrimonio, fra cui quello della sua indissolubilità; b) – una scelta siffatta, garantita e tutelata dall’art. 1322 c.c., avrebbe comportato la rinuncia, da parte dell’Albi Marini ad avvalersi del diritto di far cessare gli effetti civili del matrimonio canonico; rinuncia che lo vincolerebbe giuridicamente nei confronti della moglie.

(omissis).

Il ricorso deve essere respinto.

Con riferimento al primo motivo, non può non rilevarsi una singolare confusione di concetti, categorie e principi fra ordinamento canonico ed ordinamento civile, nonché tra dimensione delle convinzioni religiose individuali e sfera d’esercizio dei diritti civili riconosciuti dall’ordinamento giuridico statuale.

Nella fondamentale sentenza n. 169 del 1971, la Corte costituzionale ha chiarito che, con il Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929 (art. 34), “l’ordinamento italiano non ha operato una recezione della disciplina canonistica del matrimonio, validamente celebrato secondo il rito cattolico e regolarmente trascritto nei registri dello stato civile, quale presupposto cui vengono ricollegati gli identici effetti del matrimonio celebrato davanti agli uffici di stato civile”, di tal che, il principio canonistico della indissolubilità del matrimonio (concordatario), non recepito in sede pattizia (né, conseguentemente, nella fase attuativa del Concordato: L. 27 maggio 1929 n. 847), non può nemmeno ritenersi “costituzionalizzato” attraverso la mediazione dell’art. 7 comma 2 Cost.; con la ulteriore conseguenza secondo cui dalla separazione dei due ordinamenti (art. 7 comma 1 Cost.) “deriva che nell’ordinamento statale il vincolo matrimoniale [concordatario] con le sue caratteristiche di dissolubilità od indissolubilità nasce dalla legge civile ed è da questa regolato” (v. anche Corte Cost.le n. 176 del 1973 nonché Cass. n. 5347 del 1980).

Siffatta impostazione è stata integralmente recepita dall’art. 8 dell’Accordo modificativo del Concordato lateranense del 18 febbraio 1984 (reso esecutivo con L. 25 marzo 1985 n. 121), dove al numero 1 prima parte, si conviene, appunto, che “sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale”. Se si tiene conto, poi, per un verso, della “riaffermazione” dell’indipendenza e della sovranità dello Stato e della Chiesa Cattolica, ciascuno nel proprio ordine (art. 1), e, per l’altro, dell’espressa abrogazione dell’art. 34 del Concordato lateranense (art. 13 n. 1) – e, quindi, anche con riferimento al “sacramento” del matrimonio (art. 34 comma 1), sia pure, per dir così, temperata dalla riaffermazione unilaterale della Santa Sede circa “il valore immutato della dottrina cattolica sul matrimonio” (art. 8 n. 3) – emerge dalla nuova disciplina una nitida distinzione, quanto al matrimonio concordatario, fra ordine morale cattolico, ordine giuridico canonico, ordine giuridico civile.

Se, dunque, l’indissolubilità del matrimonio (concordatario) è predicabile unicamente nell’ambito dell’ordine morale cattolico (prg. 1644 del Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato l’11 ottobre 1992) e nell’ambito dell’ordinamento giuridico canonico (can. 1056 c.j.c. del 1983), essa non è certamente invocabile nel nostro ordinamento, dove, con l’adozione della L. n. 898 del 1970, è stato affermato il principio esattamente opposto della facoltà di chiedere ed ottenere lo scioglimento del matrimonio civile o, comunque, la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso in presenza di determinate condizioni. Ed è giuridicamente significativo che la L. n. 74 del 1987 – nella parte in cui (art. 6) ha abrogato l’art. 3 n. 2 lett. b secondo capoverso della L. n. 898 del 1970 – abbia eliminato qualsiasi giuridica rilevanza alla volontà del coniuge contrario al divorzio che, anteriormente, poteva manifestarsi attraverso l’istituto dell’opposizione del coniuge convenuto.

Appare, anche, del tutto inconferente il richiamo della ricorrente all’art. 1322 c. c., al fine di fondare, su tale disposizione, non solo la scelta (comune anche al coniuge) di indissolubilità – derivante, a sua volta, da quella di unirsi in matrimonio secondo il rito cattolico e, quindi, di accettare il principio religioso della indissolubilità del vincolo – ma anche la rinuncia ad esercitare il diritto di far cessare gli effetti civili del matrimonio religioso e, quindi, ad avvalersi della relativa tutela giurisdizionale dell’obbligo giuridico in tal modo assunto.

La scelta di unirsi in matrimonio, come pure quella di por fine al vincolo, sussistendone le condizioni di legge, appartengono alla sfera dei diritti inviolabili della persona che la Costituzione riconosce e garantisce (art. 2; cfr. Corte Cost.le nn. 27 del 1969, 181 del 1976, 766 del 1988; Cass. n. 6489 del 1990): ed è comunemente accettato dalla dottrina e dalla giurisprudenza che essi, come categorie costitutive dello stesso concetto di persona, sono indisponibili, inalienabili, intrasmissibili, irrinunziabili ed imprescrittibili.

A ciò, s’aggiunga che la Costituzione italiana ha accolto una concezione del matrimonio – come manifestazione di libertà su cui si fonda la “società naturale” (art. 29 comma 1), ovvero la “formazione sociale” (art. 2) “famiglia” – non già meramente contrattualistica, bensì, appunto, comunitaria, alla quale, pertanto, non si addicono le tradizionali categorie civilistiche del contratto, ma, invece, potestà, diritti ed obblighi, ispirati ai principi di libertà, eguaglianza, solidarietà nei reciproci rapporti fra i coniugi e fra ciascuno di essi ed i figli (cfr. Cass. n. 1595 del 1976).

(omissis)