Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 2 Dicembre 2003

Sentenza 01 settembre 1995, n.9218

Cassazione. Prima Sezione Civile. Sentenza 1 settembre 1995, n. 9218.

(Cantillo; Finocchiaro)

Motivi della decisione

(omissis)

Il problema posto a questa Corte è quello di stabilire se, in presenza di un atto di matrimonio mancante delle indicazioni di cui ai nn. 6 (“la dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie”) e 8 (“la dichiarazione fatta dall’ufficiale di stato civile che gli sposi sono uniti in matrimonio”) dell’art. 126 dell’ordinamento dello stato civile, sia possibile accertare, con ogni mezzo di prova, che tali dichiarazioni sono state rese, anche se non siano state materialmente inserite nell’atto, o se invece la limitazione dei mezzi di prova ricavabile dagli artt. 132 e 133 c.c. sia ostativa di qualsiasi attività probatoria ed imponga di decidere dell’esistenza o meno del vincolo sulla base delle sole risultanze documentali.

L’art. 132 c.c. che consente – in determinata fattispecie – la libertà di prova in mancanza dell’atto di celebrazione, non esaurisce, contrariamente all’assunto della ricorrente, le ipotesi in cui possono essere integrate, a mezzo di altre prove, le risultanze degli atti di stato civile.

La giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che, attraverso il procedimento camerale di rettificazione degli atti di stato civile, è possibile rimediare ad errori od omissioni formali incorsi nella redazione di tali atti rimasti o divenuti incompleti, di ricostruire gli atti mancanti, alla condizione, però che non ne risulti neppure di riflesso, alterato lo stato delle persone, in quanto le azioni di stato richiedono le piú ampie garanzie del rito contenzioso e non sono quindi proponibili mediante il procedimento di rettificazione (Cass. 10 giugno 1958, n. 1949; Cass. 28 gennaio 1961, n. 157; Cass. 16 gennaio 1964, n. 105; Cass. 26 novembre 1964, n. 2804;Cass. 19 ottobre 1978, n. 4698; Cass. 28 ottobre 1978, n. 4922; Cass. 16 dicembre 1986, n. 7530).

Il limite al procedimento di rettificazione, in presenza di una possibile questione di stato, non esclude, però che con l’azione di stato si possano parimenti integrare le risultanze degli atti di stato civile e, quindi modificarli, ove si accerti l’incompletezza della loro redazione.

Se è possibile procedere alla rettificazione dell’atto di matrimonio non solo nelle ipotesi disciplinate dall’art. 132 c.c., ma anche in quelle di incompletezza dello stesso, è evidente che qualora un soggetto impugni un matrimonio, sostenendone l’inesistenza, per il fatto che il relativo atto di stato civile non contenga le indicazioni di cui ai nn. 6 e 8 dell’art. 126 dell’ordinamento di stato civile, la difesa della controparte, la quale eccepisca – e chieda di provare – che l’omissione riguarda l’atto e non la celebrazione, non può essere paralizzata opponendogli l’art. 132 c.c., per la ragione assorbente che il convenuto in realtà prova il proprio titolo di coniuge sulla base dell’atto di celebrazione estratto dai registri dello stato civile, ai sensi dell’art. 130 c.c., mentre la prova, con ogni mezzo, dell’intervenuta manifestazione del consenso ad nuptias – che può essere sempre fornita allo scopo di ottenere la rettificazione dell’atto o al limite nel corso dell’azione di stato – non può essergli negata invocando a contrario l’art. 139 c.c.

A ciò bisogna poi aggiungere:

– che il diniego di provare circostanze relative al tipo di vizio che inficia l’atto si risolverebbe non solo in una violazione del diritto di difesa costituzionalmente rilevante, ma sarebbe irragionevolmente priva di giustificazione, in presenza di un giurisprudenza costante che ammette la prova di tali vizi per ottenere la rettificazione dell’atto;

– che si finirebbe per porre sullo stesso piano – quanto agli effetti – sia il matrimonio inesistente, per mancanza della manifestazione del consenso, sia quello, pienamente valido, ma inficiato da un vizio meramente formale.

A tali principi si è attenuta la sentenza impugnata e ciò è sufficiente per la reiezione dei primi due motivi di ricorso.

Né vale invocare, come fa la ricorrente, la non integrabilità di un contratto per il quale è previsto l’atto scritto ad probationem, dal momento che l’integrabilità è espressamente prevista per gli atti di stato civile, attraverso il procedimento di rettificazione, ma non anche per i contratti.

(omissis)