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    Sentenza 18 aprile 1994, n.548

    Data: 18 aprile 1994
    Autore:
    Corte d'Appello - Civile
    Argomento:
    Delibazione
    Nazione:
    Italia
    Parole chiave:
    Testimoni di Geova, Ordine pubblico, Convivenza, Esclusione unilaterale, Bona matrimonii, Separazione personale, Domanda di delibazione, Autonomia dei procedimenti, Diritto di difesa, Principio di contraddittorio, Contumacia, Bonum sacramenti, Riserva mentale, Conoscibilità
    La pendenza tra le parti di un giudizio di separazione personale non rende improponibile la domanda di delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, attesa l’autonomia dei due procedimenti, diversi quanto a petitum e a causa petendi, e non fra loro incompatibili. Ai fini della delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio e per quanto concerne l’accertamento del rispetto del diritto di difesa, la professione di fede di Testimone di Geova che aveva determinato una parte a non costituirsi nel processo canonico, non può valere ad integrare la violazione del principio del contraddittorio, giacché la contumacia non era dipesa dalla inosservanza di regole processuali, bensì da una scelta personale ancorché ispirata ad un credo religioso. Nel giudizio di delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, l’indagine diretta a stabilire se la riserva mentale sia stata manifestata all’altro coniuge o sarebbe stata da questi conoscibile ed a verificare se, in tal modo, risulti osservato il limite della compatibilità con l’ordine pubblico, deve essere condotta con esclusivo riferimento alla pronuncia delibanda (intesa l’espressione come comprensiva di entrambe le pronunzie del giudizio ecclesiastico) ed agli atti del processo canonico, escludendosi, invece, la possibilità di un’apposita integrazione delle prove con istruttoria da compiersi nella fase della delibazione.

    Corte d’Appello civile di Firenze. Sentenza 18 aprile 1994, n. 548.

    (Tucciarelli; Carone)

    Motivi della decisione

    La sentenza ecclesiastica ha dichiarato la nullità del matrimonio per difetto del consenso da parte del Pecoraro per avere lo stesso escluso il bonum sacramenti. La Verardi, infatti, era seguace dei c.d. Testimoni di Geova ed il Pecoraro l’aveva sposata con la promessa della stessa di abbandonare tale professione religiosa, poi non mantenuta, avendo anzi rinsaldato con il tempo i vincoli con la setta.

    La Verardi resiste alla domanda di delibazione rilevando che non aveva ritenuto per la professione del credo dei Testimoni di Geova di partecipare al giudizio canonico avviato dal Pecoraro dopo l’introduzione del giudizio di separazione personale davanti al Tribunale di Prato; che non aveva avuto, quindi, la possibilità di difendersi nel giudizio canonico e di provare che le cause della crisi matrimoniale addotte dal Pecoraro erano diverse; che è pendente davanti al Tribunale di Prato giudizio di separazione personale con addebito al marito per avere allacciato una relazione extraconiugale; che il Pecoraro era cosciente e consapevole che avrebbe continuato a professare la credenza religiosa suddetta; che intende provare come all’atto del celebrato matrimonio concordatario i coniugi mancassero dei necessari requisiti per una corretta assunzione del “sacramentum”, ma inequivocabilmente intendevano coniugarsi in conformità all’ordinamento giuridico italiano; che la vera motivazione delle azioni del Pecoraro si fonda sulla caduta degli affetti, essendo lo stesso a perfetta conoscenza della sua professione della religione dei Testimoni di Geova, addirittura per avere partecipato a volte alle adunanze dei seguaci accompagnandola. Chiede, quindi, essendosi proceduto nel giudizio canonico nella sua contumacia, che si faccia luogo al riesame. In particolare si assume dalla Verardi che non può ritenersi verosimile che essa, consapevole e cosciente che il Pecoraro, ben edotto del fatto che era legata al credo dei Testimoni di Geova, e che solo per far piacere ai parenti del marito aveva accettato il matrimonio cattolico -, “avesse potuto immaginare che il Pecoraro esprimesse il proprio consenso al matrimonio in via condizionata”. Una tale riserva mentale del Pecoraro, a dire della Verardi, se può aver consentito l’emanazione della sentenza ecclesiastica, è però di ostacolo alla delibazione in quanto contraria all’ordine pubblico, sicché la Corte, a suo dire, è legittimata ad accertare se il vizio del consenso sia rimasto a livello di riserva, svolgendo apposita istruttoria.

    Assume, altresì, la convenuta che alla delibazione si oppone il disposto dell’art. 120 cc., posto che il matrimonio è stato celebrato il 26/6/77, dallo stesso sono nati due figli e solo nel 1990 il Pecoraro ha introdotto il giudizio canonico di nullità. Richiamate le ragioni addotte dalla Verardi a fondamento della sua opposizione alla delibazione della sentenza ecclesiastica, rileva la Corte che la domanda del Pecoraro deve essere accolta alla stregua dell’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale del SC sulle dibattute questioni che involge la attuale controversia.

    Intanto e preliminarmente va osservato che la pendenza dinanzi ad un giudice italiano di un giudizio di separazione personale tra coniugi non rende improponibile la domanda di delibazione di una sentenza canonica dichiarativa della nullità del loro matrimonio religioso attesa la autonomia dei due procedimenti aventi diversa causa petendi e petitum, non incompatibili (semmai il giudizio di delibazione si pone come pregiudiziale rispetto a quello di separazione), e che rettamente è stato seguito il rito ordinario (Cass. SS.UU. n. 2164/88).

    Di poi, a proposito del riesame del merito per la intervenuta contumacia, va osservato che in tema di delibazione di sentenze ecclesiastiche di annullamento di matrimonio concordatario, secondo la disciplina delineata dall’accordo con la S. Sede del 18 febbraio 1984, ratificato con legge n. 121 del 1985, ai fini della verifica attinente alla tutela del diritto di difesa, il giudice della delibazione deve accertare non solo che nel processo ecclesiastico siano stati rispettati i principi fondamentali in materia dell’ordinamento italiano, ai sensi dell’art. 8 n. 2, lett. b) di detto accordo, ma anche e preliminarmente che siano state osservate le norme dell’ordinamento canonico relative alla costituzione delle parti e alla dichiarazione di contumacia, secondo quanto prevedono, in via ordinaria, per la delibazione delle sentenze straniere, i n. 2 e 3 dell’art. 797 c.p.c. Va tenuto presente che lo stesso art. 8 n. 2 cit. dispone, alla lett. c), che per la delibazione devono, altresì, ricorrere le condizioni previste dalla legislazione italiana, diverse da quelle specificamente introdotte da tale ultima norma e con queste non compatibili, tra le quali vanno inserite anche le condizioni poste dai citati n. 2 e 3 dell’art. 797, per la cui applicazione, nel protocollo addizionale (che è parte integrante dell’accordo), si precisa che alla “legge del luogo”, in essi richiamata, si intende sostituita la disciplina del diritto canonico (Cassazione civile sez. I, 13 febbraio 1991 n. 1503) (v. art. 4 del Protocollo Addizionale per il quale “s’intende che in ogni caso non si procederà al riesame del merito”).

    Orbene, è la stessa Verardi ad affermare di non aver ritenuto di partecipare al giudizio canonico per la sua qualità di seguace del credo dei Testimoni di Geova, senza addurre alcuna violazione del principio del contraddittorio nel giudizio canonico.

    La professione di tale fede che, a dire della Verardi, le avrebbe impedito di partecipare a tale giudizio, non può valere ad integrare una tale violazione, dipendendo il suo disertare il giudizio canonico da una scelta, ancorché ispirata al suo credo religioso. Invero, il controllo sullo svolgimento della regolarità del contraddittorio è, ai fini della delibazione, limitato a verificare se la contumacia sia eventualmente dipesa dalla violazione delle regole processuali che assicurano il diritto di difesa.

    Nel giudizio di delibazione della sentenza del Tribunale ecclesiastico che abbia pronunciato la nullità del matrimonio concordatario per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, l’indagine diretta a stabilire se la riserva mentale sia stata manifestata all’altro coniuge o sarebbe stata da questi conoscibile ed a verificare se in tal guisa risulti osservato il limite della compatibilità con l’ordine pubblico interno – sub specie dell’inderogabile principio della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole – deve essere condotta con esclusivo riferimento alla pronuncia delibanda (intesa l’espressione come comprensiva di entrambe le pronunzie rese nel giudizio ecclesiastico) ed agli atti del processo canonico eventualmente prodotti, escludendosi, invece, la possibilità di un’apposita integrazione con istruttoria probatoria da compiersi in fase delibatoria (Cassazione civile sez. I, 10 gennaio 1991 n. 188). Orbene, è agli atti oltre che copia delle due sentenze ecclesiastiche conformi, anche quella della istruttoria canonica dalla quale si evince chiaramente, come del resto l’analitica esposizione in fatto della stessa sentenza delibanda mette in evidenza, che il Pecoraro addivenne al matrimonio alla condizione del pieno recupero della moglie alla religione cattolica e dietro le assicurazioni della stessa Verardi in tal senso. Peraltro, una attenta lettura delle difese della Verardi rivela la consapevolezza reciproca dell’altrui riserva (caso di due dichiarazioni con riserva mentale).

    Anche l’altro motivo della opposizione non è fondato.

    (omissis)

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