Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose

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Osservatorio delle Libertà ed Istituzioni Religiose

Documenti • 21 Dicembre 2006

Parere 11 dicembre 2006

TRIBUNALE di ROMA-PROCURA – PARERE 11 dicembre 2006
AL TRIBUNALE CIVILE – ROMA
Il Pubblico Ministero,
nelle funzioni di cui all’art. 75 R.D. 30 Gennaio 1941 n. 12; visto l’art. 70 c.p.c. PROPONE IL
PRESENTE ATTO DI INTERVENTO
In fatto
– Il sig. P. W. è affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, per il quale non
esistono trattamenti sanitari in grado di arrestarne l’evoluzione, che gli inibisce qualsiasi movimento di
tutto il corpo;
– Il sig. W. nonostante sia nel fisico, completamente immobilizzato, conserva intatte le
proprie facoltà mentali, tanto che nel decorso della malattia ha ricevuto puntuali informazioni sugli
sviluppi della stessa e sui trattamenti terapeutici, esprimendo una volontà consapevole sui trattamenti
medesimi;
– Egli quindi ha richiesto alla struttura ospedaliera ed ai medici che lo assistono di non
essere ulteriormente sottoposto alle terapie di sostentamento in atto e di ricevere assistenza nei limiti in
cui ciò sia necessario per lenire le sofferenze fisiche;
– In pratica ciò che il W. ha chiesto è il distacco dal ventilatore polmonare, sotto c.d.
sedazione terminale (consistente nella somministrazione del sedativo e nel contestuale distacco
dell’apparecchiatura di ventilazione che ne garantisce la permanenza in vita) al fine di evitare i relativi
patimenti;
– La risposta della struttura ospedaliera e del medico curante è stata nel senso di non negare
il diritto del W. ad opporsi al trattamento in atto, evidenziando però che nel momento in cui il paziente
fosse sedato e quindi non più in grado di decidere, scatterebbe immediatamente, in presenza del rischio
vita, l’obbligo di riattaccare il ventilatore polmonare per ristabilire la respirazione; cosicché, in
definitiva, il riconosciuto diritto di libertà e di consapevole determinazione in ordine al compimento o
al rifiuto del compimento di qualsiasi terapia di natura medica incontrerebbe il limite invalicabile della
tutela del bene-vita, non disponibile neanche dal soggetto interessato;
– Il ricorrente contesta il rifiuto dei sanitari a procedere a quanto richiesto, sulla base delle
seguenti argomentazioni:
a) il principio del consenso informato costituisce la base di ogni trattamento terapeutico;
b) da esso scaturisce la configurazione di un vero e proprio diritto perfetto, sancito e garantito da norme
di rango costituzionale (artt. 2, 13 e 32, 2° comma, Cost.) a liberamente e consapevolmente
determinarsi in ordine al rifiuto del compimento di qualsiasi attività invasiva di natura medica e, per
conseguenza, al diritto di interrompere quelle terapie per le quali il consenso viene revocato;
c) il rapporto tra la libertà di disporre consapevolmente dei trattamenti terapeutici e la tutela del bene
vita deve essere considerato nel quadro di una nuova prospettiva che pone in rilievo le istanze di
volontà anche in settori prima impensabili, dovendo necessariamente apprezzare situazioni nuove,
collegate all’evoluzione delle scienze e delle tecniche, che incidono sugli eventi naturali quali il
concepimento e la morte, qualificati, per i riflessi su di essi dei progressi scientifici, quali “processi
gestibili”;
d) in conseguenza di ciò si chiede non tanto di opporsi agli eventi naturali bensì di potere interloquire
con quei soggetti (i medici) che stanno gestendo la fase terminale della sua vita;
– In relazione alle suddette premesse, il W. chiede che sia accertato il suo diritto ad opporsi
alla prosecuzione delle terapie mediche da lui non volute;
– Alla obiezione elevata dai sanitari circa l’obbligo degli stessi di riattaccare il ventilatore
polmonare quando egli, già sedato, non è più in grado di autodeterminarsi, cosicché si porrebbe per i
medici l’asserito obbligo di intervenire per evitare il rischio morte, il ricorrente deduce che il suo rifiuto
cosciente e volontario non riguarda situazioni future, sconosciute o inimmaginabili, ma eventi in atto
con effetti prevedibili nel brevissimo tempo, non mutabili dopo la sedazione; nella sostanza, il rifiuto
dei trattamenti sanitari non desiderati si esprime anche per la situazione successiva alla sedazione, che è
attualizzata, ossia ben presente, nella coscienza e volontà del ricorrente; non rappresentando i
successivi eventi situazioni nuove ed imprevedibili, non toccate dal libero consenso del ricorrente;
– In definitiva il ricorrente postula:da un lato il diritto ad esprimere validamente il suo
rifiuto alla prosecuzione del trattamento sanitario non desiderato (la terapia conseguente alla
ventilazione polmonare);dall’altro la necessità di un intervento urgente del giudice che accerti tale
diritto per il quale si chiede una protezione urgente, stante la prosecuzione di trattamenti sanitari
invasivi non desiderati sulla propria persona;
– e per l’effetto chiede: che sia ordinato ai sanitari di procedere all’immediato distacco del
ventilatore artificiale contestualmente ordinando loro di somministrare la terapia sedativa richiesta
dallo stato della scienza e della tecnica e implicitamente inibendo agli stessi qualsiasi intervento
ripristinatore della terapia interrotta.
In diritto
I provvedimenti di urgenza, essendo volti ad impedire che la futura pronuncia del giudice possa
risultare pregiudicata dal tempo necessario ad ottenerla, hanno carattere strumentale rispetto al
successivo giudizio di merito, che è di cognizione -del tutto autonoma- del diritto controverso. A tale
riguardo si osserva che, come è noto, secondo un diffuso orientamento non sarebbe consentita,
nell’ambito della tutela cautelare concessa dall’art. 700 c.p.c., tesa ad assicurare in via provvisoria
l’effettività dell’eventuale futura decisione di merito, l’adozione di misure che, ove eseguite, verrebbero
a provocare effetti definitivi e irreversibili (cfr. Trib. Torino 10.12.2003; Corte d’Appello Torino
29.11.100).
Secondo il tradizionale orientamento della dottrina (cfr. Arieta; Proto Pisani), l’attuazione di
provvedimenti d’urgenza con effetti irreversibili o comunque difficilmente eliminabili è in linea di
principio sempre da evitare – a meno di non voler intravedere, come detto, in tale circostanza un limite
invalicabile all’emanazione degli stessi – potendosi ammettere solamente quando, all’esito di
accertamenti quanto più possibile approfonditi sul fumus boni iuris e il periculum in mora, nonché di
valutazioni comparative sulle conseguenze della misura cautelare, il giudice ravvisi nell’adozione di
una misura urgente di questo tipo l’unico strumento idoneo e necessario a scongiurare un pregiudizio
irreparabile al diritto soggettivo cautelando.
Nella giurisprudenza di merito – scarsa è, evidentemente, quella di legittimità – si rinvengono posizioni
contrastanti (v. Pret. Genova 12.1.1989; contra Trib. Monza 21.5.1997; Trib. Roma 23.11.2000): la
posizione favorevole è lucidamente argomentata da Trib. Milano 14.8.1995 (GI, 1996, I, 2, 354),
secondo la quale “la risoluzione di un conflitto fra due interessi contrapposti può essere foriera di danni
irreparabili; tali danni, peraltro, potrebbero conseguire anche al diniego della misura cautelare; nel
conflitto fra contrapposti interessi di pari rango, la constatazione del carattere di definitività, che
avrebbe il provvedimento di urgenza richiesto, non appare motivo sufficiente a giustificarne il rigetto,
dovendosi ritenere che il legislatore preferisca che sia evitato un pregiudizio irreparabile ad un diritto la
cui esistenza appaia probabile, anche al prezzo di provocare un danno irreversibile a un diritto che, in
sede di concessione della misura cautelare, appaia invece improbabile”. La Corte di cassazione, nella
recente sentenza n. 4082 del 25 febbraio 2005, ha avuto modo di chiarire – sia pure al fine di escludere
l’ammissibilità del ricorso di legittimità, perché il contenuto dell’ordinanza, dalla quale scaturivano
effetti irreversibili, non conferiva al provvedimento natura di sentenza – che la caratteristica
dell’irreversibilità “si riscontra in tutti i casi in cui, per la natura del diritto sottoposto a cautela e il
carattere anticipatorio della misura cautelare, questa e in sé sufficiente per soddisfare il soggetto che
l’ha richiesta (come nei casi di autorizzazione al compimento di una determinata attività)”.
Questa flebile progressiva apertura sembra avere trovato accoglienza da parte del legislatore che, nel
contesto della recente riforma del processo civile (v. D.l. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito , con
modificazioni, alla legge 51/2006), ha inserito, nell’articolo 669 octies del c.p.c, un comma 8, secondo
cui non vi è onere di instaurare il giudizio di merito, ma “ciascuna parte può instaurare il giudizio di
merito”, nel caso in cui siano stati emessi “provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della
sentenza di merito”.
Da questa norma sembra potersi argomentare che il giudizio di merito, nel caso in cui siano stati emessi
provvedimenti anticipatori, diviene meramente eventuale, con il che viene a cadere il principale
argomento in base al quale veniva negata l’ammissibilità di misure irreversibili e, cioè, che essi
avrebbero reso di fatto inutile il giudizio a cognizione piena.
Ciò premesso, si evidenzia, sulla base delle suddette argomentazioni, l’ammissibilità sotto questo
profilo del giudizio cautelare nei termini proposti dal ricorrente.
Tale giudizio presuppone però, un ulteriore scrutinio di ammissibilità collegato all’esistenza di un
diritto controverso da far valere nella fase cautelare.
In ordine a tale punto, il ricorrente deduce una situazione formale dove -come egli stesso sembra
ammettere- non vi è contestazione del diritto a manifestare il suo dissenso al trattamento terapeutico in
atto. Tale diritto viene dedotto nel ricorso come dato pacificamente accettato dalla struttura sanitaria e
dal medico curante. Tuttavia, nella sostanza tale diritto non viene di fatto realizzato perché viene
prospettato che subito dopo il distacco del ventilatore polmonare, in adesione alla sua volontà,
assumerebbe preminenza il rischio vita, che dà luogo a carico dei sanitari ad un obbligo di intervento
con necessità di riprendere il trattamento precedente.
Con riguardo al primo profilo, non sembra che sia pertanto in discussione il divieto del medico
(correlato al diritto del paziente) di porre in essere un qualsiasi trattamento medico in presenza di un
documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere (art. 32 del codice di deontologia
medica), e ciò vale certamente, in ragione dell’ampio contenuto del diritto del paziente, anche per il
trattamento medico in atto, allorché si chiede di desistere dai conseguenti atti diagnostici e curativi, non
essendo possibile, come efficacemente argomentato dal ricorrente, alcun trattamento medico contro la
volontà della persona.
Non si ritiene, quindi, di dovere spendere ulteriori argomenti su tale aspetto, risultando oramai
acquisito alla cultura giuridica il principio secondo cui l’intervento medico è legittimato dal consenso
valido e consapevole espresso dal paziente, in forza degli articoli 13 e 32, secondo comma, della
Costituzione, che tutelano non solo il diritto alla salute, ma anche il diritto di autodeterminarsi,
lasciando a ciascuno il potere di scegliere autonomamente se effettuare, o meno, un determinato
trattamento sanitario.
La tutela cautelare d’urgenza che qui si richiede non riguarda soltanto il suddetto profilo, che -si
ribadisce- non appare contestato, bensì anche -se non soprattutto- quello successivo che involge un’altra
questione, ossia il trattamento sanitario di urgenza, in presenza degli effetti connessi alla cessazione
della terapia, per il quale la prospettazione dell’intervento ripristinatore della terapia medesima, in
termini di automaticità non appare giustificata.
Come è noto, il criterio di interpretazione di un diritto, nei limiti del significato della norma, deve
essere nel senso che il diritto si deve interpretare secondo il principio di massima effettività. Nel caso
concreto per dare la massima effettività al diritto del paziente è necessario procedere alla sedazione
richiesta, altrimenti il diritto diventerebbe solo astratto e il distacco dal respiratore senza sedazione
violerebbe di fatto il rispetto del principio costituzionale della dignità della persona e del diritto di
autodeterminazione.
In relazione a tale profilo si ribadisce la fondatezza del diritto e la sussistenza delle ragioni che
richiedono l’intervento del Giudice nella fase qui considerata.
Ebbene, il ricorrente, come già anticipato, richiede, inoltre, al Giudice, mediante lo strumento
processuale qui utilizzato, di rilasciare una sorta di autorizzazione preventiva che esoneri il medico
dall’obbligo di intervenire di fronte al rischio morte, dovendo comunque rispettare la volontà già
espressa dal paziente che quella situazione si era configurato ed aveva volontariamente e liberamente
accettato.
Al di là delle problematiche di vario ordine che agitano la materia, non sembra che quest’ultima
situazione prospettata rientri nell’ambito di applicazione dell’art. 700 c.p.c., poiché manca
dell’imprescindibile requisito dell’attualità, in quanto le successive decisioni implicano valutazioni
discrezionali che vanno assunte sul momento. Difatti, da un lato, non si contesta né appare contestabile
il diritto del ricorrente al rifiuto del trattamento terapeutico in atto; dall’altro, la situazione successiva a
tale evento appare investire un’altra problematica, riguardante la responsabilità del medico in presenza
di trattamenti di urgenza, dovendo egli valutare se sussista in concreto la necessità di salvare il paziente
dal pericolo attuale di un danno grave alla persona e perciò agire anche in assenza o anche contro il
consenso di questo. Nel fare ciò egli però dovrà verificare se il trattamento richiesto si pone in
contrasto con la regola del divieto di accanimento terapeutico, basata sui principi costituzionali di tutela
della dignità della persona e prevista nel codice deontologico medico. Si tratta, infatti, di
comportamento del medico espressamente disciplinato, come recita l’articolo 14: ” Il medico deve
astenersi dall’ostinazione in trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la
salute del malato e o un miglioramento della qualità della vita”.
Sul punto è eloquente quanto affermato dai Giudici della Corte di Appello di Milano nel decreto del
26.11.1999, riguardante sì altra situazione di fatto ma con riflessi anche sulla questione che qui si
discute. In quel provvedimento si precisava infatti che: “Nell’accezione più accreditata l’accanimento
terapeutico si presenta come una cura inutile, “futile”, sproporzionata, non appropriata rispetto ai
prevedibili risultati, che può pertanto essere interrotta, perché incompatibile con i principi
costituzionali, etici e morali di rispetto, di dignità della persona umana, solidarietà. Elemento
significativo di una riflessione è l’art. 37 del codice deontologico del 1998 che prevede che “in caso di
compromissione dello stato di coscienza di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di
sostegno vitale finchè ritenuta ragionevolmente utile”.
Sempre la Corte di Appello di Milano in un passaggio successivo è ancora più esplicita, affermando
che l’obbligo del medico alla cura costituisce un dovere che “si arresta in ipotesi di accanimento
terapeutico, nell’accezione già delineata di trattamenti che non hanno la capacità di migliorare o di
preservare la salute del paziente e, quindi, “futili”, “non appropriati” “in quanto esterni rispetto ai
confini della medicina”.
In questi termini, appare evidente che, sotto il profilo dell’esistenza del diritto ad interrompere il
trattamento terapeutico non voluto, con le modalità richieste, il ricorso è ammissibile e va accolto.
Per quanto riguarda, invece, la possibilità di ordinare ai medici di non ripristinare la terapia, il ricorso è
inammissibile, perché trattasi di una scelta discrezionale affidata al medico, anche se di una scelta
discrezionale tecnicamente vincolata, in merito all’utilità e alla necessità di ripristinare, in un momento
successivo, la terapia, sulla base di quanto indicato nell’articolo 37 del codice deontologico il quale
prevede: “In caso di malattia a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico
deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze,
fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita”.